ma siamo davvero sicuri? di Donatella d’Imporzano

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Mi trovavo all’aeroporto di Milano in partenza per Parigi. Là avrei subito affittato un’auto e me ne sarei partito per le cattedrali della Normandia. Era aprile e sentivo già il vento e la salsedine dell’oceano. Ormai anche i miei più cari amici avevano rinunciato a convincermi che la Normandia non è bagnata dall’oceano. Le mie nozioni di geografia si erano da tempo organizzate su una base esclusivamente emotiva. Londra era molto più spostata a nord che nella realtà, quasi scompariva oltre la Caledonia per la barbarie della sua lingua, Milano nel cuore dell’Europa centrale, molto più in alto di Lione, nel centro degli affari e degli spionaggi – a questo ci tenevo- molto vicina a Mosca e alle sue cupole d’oro…Del resto, al giorno d’oggi, che importanza poteva avere sapere questo e quello? L’aereo che stavo per prendere, lui sì, doveva sapere dove portarmi. E perché avrebbero dovuto imbrogliarmi? E poi a che scopo? La guerra fredda era da tempo terminata…certo, c’erano ancora le bombe nucleari russe da disattivare…Ormai mi stavo infilando in un piano di alto spionaggio internazionale, uno dei temi preferiti delle mie fantasticherie, in cui io ero sempre affascinante come Sean Connery, ma ultimamente faticavo a mettere insieme una storia appassionante, mi trovavo in difficoltà creativa, così…
Mi interruppi per ascoltare l’altoparlante che da qualche minuto andava blaterando delle assurdità : “…..est nella fila di sinistra… Parigi ovest nella fila intermedia…ripeto….”. Non mi curai di quella voce insinuante che, come in tutti gli aeroporti , sembrava non avere altro scopo che far sentire un po’ più estranee le persone che approdano nella confusione tecnica ed efficiente che è un aeroporto. Guardai il biglietto che avevo ritirato all’agenzia, Parigi-Charles De Gaulle, era tutto in ordine.
Mi misi in coda per l’imbarco (l’aereo era di una grande compagnia, magri vassoi e molta apparenza, ma il viaggio era breve). Mi congratulai con me stesso per avere una borsa leggera, molto trendy, pensai sorridendo. Avevo sempre considerato come esseri superiori quelli che riescono a viaggiare per il mondo così, come se uscissero di casa per una passeggiata. Finalmente anch’io ero entrato nel numero degli eletti, mi sentivo come James Bond all’inizio di una sua impresa, anche senza il caviale Beluga e il Dom Perignon.
I passeggeri in fila con me erano una massa piena di bagagli, come si preparassero ad un viaggio di trasferimento. Una biondina con l’aria preoccupata mi chiese se c’erano aerei che arrivassero in giornata a Parigi. Senza notare la stranezza della domanda, distratto da quell’aria tenera, la rassicurai finché non la vidi sorridere.
Salii sull’aereo, risposi in francese al benvenuto della hostess, sfoderandole un sorriso che sapevo affascinante, mentre mi immaginavo già nella dolce terra di Francia che per me si riassumeva nella Normandia e un pezzo di Bretagna.
Il posto era vicino al finestrino, sul fondo, quasi isolato: non potevo desiderare di meglio.
Non so se a tutti succede, ma io, quando vado in un posto che mi è particolarmente caro, comincio a parlare e addirittura a pensare nella lingua del paese. Mi vengono in mente canzoni, brani di libri letti anche molto tempo prima, pezzi di film, insomma, è come se aprissi un archivio e mi ci buttassi a capofitto. “Douce France, cher pays de mon enfance…” canterellavo tra me e me ed intanto vedevo il tappeto di nuvole, su cui l’aereo proiettava la sua ombra, allontanarsi sempre più in basso. ” Le plat pays” di Jacques Brel, no, era il Belgio, ma la lingua era quella. Ogni volta partivo da “La grande illusione” di Jean Renoir: la scena dell’incontro dei due comandanti, uno tedesco e uno francese mentre bevono champagne, mi metteva subito a posto, pronto ad approdare in territorio francese.
Naturalmente il cielo era di un azzurro smagliante e mi ero lasciato sotto i piedi la nebbia della Val Padana. Potevo anche chiudere gli occhi e addormentarmi pian piano fino all’arrivo, cullandomi col mio repertorio di immagini. Riuscii anche un po’ a sognare, con cattedrali bianche che si stagliavano in un paesaggio di verde e di mare, certamente senza dimenticare il vento e la salsedine… la Francia, il paese che più ammiravo, dove tutto, anche la cosa più semplice, sembrava possedere uno charme innato, uno stile.
Sentii il carrellino passare, con le hostess che chiedevano ai viaggiatori cosa desiderassero. Non aprii nemmeno gli occhi e continuai in quel sonno leggero. Poi una hostess mi avvertì che eravamo arrivati. Ero tra gli ultimi e mi affrettai verso il portellone dell’uscita, ancora un po’ intontito. Nel tunnel verso l’aeroporto mi affiancò la biondina della partenza. Non riuscii a trattenermi e, nel salutarla come una vecchia conoscenza, le dissi: “Vede che siamo arrivati sani e salvi a Parigi!”. Mi lanciò uno sguardo indecifrabile che attribuii alla solita maleducazione che c’è in giro. Pregustavo già un bel calvados, anzi un calva, che mi avrebbe fatto sentire parigino della Rive Gauche.
Appena sbarcato vidi subito che tutto era maledettamente diverso, piccolo, come se la grandiosa costruzione del Charles De Gaulle si fosse ristretta e immiserita. La gente che circolava era veramente straordinaria: la maggior parte vestita d’estate, anzi direi proprio sbracata, con un’aria da turista sulla via del ritorno, che sta cercando di spendere gli ultimi soldi rimasti o che raschia il fondo delle tasche alla ricerca dei centesimi per un caffè.
Erano anche straordinariamente allegri, un po’ eccitati, alcuni anche un po’ deliranti.
Mi tornarono in mente quelle strane parole dell’altoparlante, un rumore appena, ma che riusciva a farmi sentire improvvisamente insicuro.
Con un certo estraniamento mi fermai al primo ufficio informazioni e l’impiegato, al mio francese scolastico ma corretto, rispose in inglese. Una lingua che capivo, ma che non mi era mai piaciuta. Possibile che la Francia avesse abbandonato la sua passione per tutto ciò che è francese? Dopo avermi guardato con un certo sospetto, l’addetto mi disse con un’ aria di insopportabile sufficienza: “Qui siamo a Saint Martin, Caraibi. Se lei viene da Milano, avrebbero dovuto dirle che da quando le località si spostano, non esistono più voli diretti “. Si fermò un attimo ad osservare la mia faccia, poi proseguì: “Lei da qui può prendere un volo per Vancouver, e poi da lì andare a Mosca, tentando un Mosca-Parigi. Ormai viviamo un po’ alla giornata anche noi, sempre attaccati al computer. Questo aeroporto si sposterà fra tre giorni… finalmente anche noi viaggiamo! E perché mai dovremmo sempre contemplare gli altri? E chi l’ha detto che le località devono rimanere fisse? Flessibilità è oggi la parola chiave per tutto. Lei, per esempio, mantiene sempre stabile il suo volume? Da noi, forse per il caldo, c’è chi si restringe e chi si allarga…”
Sempre più sconvolto, continuavo ad ascoltarlo come fuori di me, con la voce metallica di un altoparlante che faceva da sottofondo. “Caro signore – continuava implacabile l’impiegato- oggi il computer mi dà Parigi nel deserto del Gobi, e se si affretta, domani pomeriggio lei dovrebbe essere al “Charles De Gaulle”. Non si dimentichi di specificare bene in quale parte di Parigi vuole andare, perché i vari arrondissements prendono strade diverse. Io mi sono riferito naturalmente a Parigi centro, ma se lei vuole andare a Parigi ovest deve prendere l’aereo per New York, a Parigi sud per Buenos Aires, per la banlieu dovrebbe tornare a Milano. E’ meglio stare molto attenti e seguire le istruzioni. Ancora meglio tenersi informati su Internet.
Ma lei non ha sentito niente di questa improvvisa festa che ci è capitata? Non ha un computer tascabile? Non l’ha vista la gente com’è più felice e più libera? Ma lei viene proprio da una grande città?”.
Non risposi…una festa la chiamava, questa instabilità che sconvolgeva tutta il nostro pianeta, quelle belle cartine delle elementari…che del resto non avevo mai potuto imparare, erano fatte a pezzi: tutti quei bei colori e la Francia tra l’azzurro e il viola… scomparsi!
E lui, poi, così allegro, che sarebbe magari tornato a casa da sua moglie, a volte un topolino, a volte un’orchessa… era uno sballo anche quello…!
Mi vedevo impegnato in spionaggi geografici, uno 007 del terzo millennio, intento a scovare dove stessero vagabondando le mie città…e le cattedrali, col vento e la salsedine – questo non si poteva tagliar via – … magari in Amazzonia, a stordirsi di caldo e di zanzare…Chi l’avrebbe detto che questo nuovo mondo ci avrebbe portato a vivere così, senza una terra dove poggiare il capo, presi a rincorrere lo spazio come fosse ormai l’unico obbiettivo della vita? Sarebbe forse questa roba quella parola che sentivo sempre in tv: la globalizzazione? Pensai a cosa avrebbe fatto James Bond in una situazione simile e mi avviai verso il bar per ordinare un Martini ben secco, con tanta vodka.
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1 risposta a ma siamo davvero sicuri? di Donatella d’Imporzano

  1. nemo scrive:

    Divertente questo racconto, metafora dello ‘spaesamento’ che stiamo vivendo ( con assai meno fair play del ‘distratto’ e scafato protagonista donatelliano )

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