INTRODUZIONE: 16. Qualche pettegolezzo mi aiuta a versare fuori quel po’ di veleno che la mia prima psicoanalisi mi ha lasciato. Anche questo è parte della cura.


 

 

Avevo iniziato, nei capitoli precedenti, a raccontare come si svolgeva il lavoro terapeutico con la mia analista.

 

Questo lavoro era basato quasi esclusivamente su interpretazioni e queste dovevano essere date proprio nell’attimo in cui sorgevano nella mente dell’analista.

 

La Scuola di Psicoanalisi, cui la mia analista apparteneva, riteneva, infatti, che l’analista era così “misticamente” legato all’inconscio del paziente che, quello che sorgeva nella mente del terapeuta, sgorgava come acqua di fonte dalle profondità dell’inconscio del paziente.

E tutto si svolgeva senza ombra di dubbi.

Quello che riferisco è quello che ricordo di aver capito; non so perché, però, mi è venuto di parlarne un po’ in burletta.

 

Questo modo di lavorare è sempre molto creativo e divertente, pieno di scoperte, di colpi di scena ed io ho passato dieci anni meravigliosi, di puro divertimento.

 

Ma c’è un “ma”.

Non tolleravo interpretazioni quando ero in delirio perché lo sentivo come una vera e propria violenza.

Questo gioco di ping-pong diventava allora per me un gioco infernale dal quale avrei voluto scappare.

Mi sentivo massacrata, anche se i termini usati sembreranno eccessivi per chi non ha mai avuto questa esperienza.

 

Nella prima crisi in Brasile, con la mia analista, sono successe però anche tante “stupidaggini”, diciamo così, che mostrano come sia difficile conoscere uno psicotico, quando lo si ha davanti in carne e ossa.

La più divertente è che la prima volta che sono uscita dall’ospedale per andare in analisi, mi ha fatto trovare un’agenda, un autentico regalo per me, qualcosa quindi fuori dagli schemi degli psicoanalisti che, per quel poco che ne so io, accettano regali, ma regali non ne fanno.

Un oggetto elegantissimo e che uso tuttora.

 

Dopo avermi fatto sedere vicino a lei ( io sul lettino, ma seduta; altra eccezione: credo che tutte queste cose “straordinarie” fossero dovute al mio stato francamente psicotico, il quale “richiedeva” una “rottura di regole”) mi ha spiegato che mi dava un oggetto “concreto” perché, in quel momento, potevo capire solo il “concreto (ricordo bene che la guardavo con vera tenerezza e attenzione, quasi pendendo dalle sue labbra perché mi incantavo a vedere il suo dolce viso).

 

Dopo una lunga pausa, sempre tenendo in mano l’agenda, ha fatto scorrere i foglietti degli appunti uno dopo l’altro.

E commentava con voce molto dolce ( aveva sempre un tono di voce molto dolce) che strappandoli uno alla volta, giorno per giorno, avrei potuto recuperare il senso del tempo, perché in quel momento io non potevo avere il senso del tempo.

 

Mi sembrava di essere un manuale pronto nelle sue mani, o piuttosto, che questo manuale ce l’avessi stampato addosso e che lei lo stesse leggendo su di me mentre mi parlava.

Quello che, comunque, saltava agli occhi era che lei non vedeva me, Bruna, ma un “tipo psicotico” che aveva nella sua mente e che aveva imparato sui libri.

C’era solo il dettaglio che chi stava al suo fianco in carne e ossa, ero io.

 

Nonostante quello che provavo, lei continuava a ispirarmi molta simpatia per la sua buona volontà nell’aiutarmi: era andata addirittura a comperare un’agenda, pensavo.

Lei, lo sapevo, non poteva avere nessuna idea della tremenda solitudine in cui mi lasciava.

 

Oggi, raccontando questi episodi, non so perché, forse sono cambiata, forse sto cominciando ad esistere, sento una tremenda umiliazione per aver dovuto subire cose di questo tipo rimanendo in assoluto silenzio, addirittura comprendendo e scusando, senza dire ( magari in seguito, una volta uscita dalla crisi) che vedevo bene e apprezzavo la sua buona volontà, ma vedevo con altrettanta chiarezza la sua difficoltà a far fronte alla mia crisi.

 

Qualunque siano state le ragioni di queste sue difficoltà, io, in questa crisi, mi sono sentita nelle sue mani come un capretto al macello.

Forse l’espressione può sembrare troppo cruda, a chi non ha provato quello che ho provato io, ma sentirsi durante una crisi psicotica nelle mani di una persona “titubante” nel gestirla, diciamo così, è come farsi operare da un chirurgo senza anestesia.

 

In seguito, come poi racconterò, le ho comunicato nei minimi dettagli il mio profondo disagio e tutto quello che ho sentito con tutto l’affetto che avevo per lei e lei ha capito.(

Voglio far notare, anche se interrompo il racconto, che ho sempre ritenuto di dover essere assolutamente sincera con i miei analisti e, se voglio essere onesta fino in fondo, credo che un paziente abbia il compito di “istruire” il proprio analista.

 

Ritornando alla mia analista, nella mia seconda crisi di mania, ha avuto un comportamento completamente differente: mi leggeva, alcune delle sue meravigliose poesie.

Era, infatti, una persona molto disponibile verso il paziente e molto attenta.

Ricordo queste sue letture come uno tra i momenti più preziosi della mia vita, anche se stavo male ed ero in delirio.

La poesia, o forse proprio quelle sue particolari poesie, erano “quella” musica cui il mio cuore anelava nell’estremo disorientamento e nel panico in cui mi dibattevo.

Parlavano di gente del nord-est brasiliano, gente fortissima che lottava contro la fame e la sete, ed io era proprio di gente fortissima di cui avevo bisogno di sentir parlare.

Quella gente, per di più, era in quelle condizione estreme perché impegnata in una lotta di sopravvivenza, non in scemate psicologiche come le mie.

Questo confronto alleviava la mia angoscia perché dava una dimensione di realtà ai miei problemi.

 

Devo dire a parte della voce della mia analista che era un canto che imitava la parlata del nord-est e che, per me, era un vero e proprio “graças à la vida”, come quello “incantato” di Violeta Parra. Ed era proprio di forza di vita di cui avevo bisogno perché la psicosi è anche un lasciarsi annientare da un’ombra di morte.

 

 

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