INTRODUZIONE: 17. Quando ho ripreso l’analisi in Italia, all’inizio sono stata molto male con il nuovo analista.


 

 

Sono tornata in Italia che ero il classico “straccetto” da passar per terra.

Avevo una depressione sconfinata, lo sconquasso del cambiamento d’ambiente, mio e di tutta la famigliola.

Mia figlia aveva tre anni e non sapeva una parola d’italiano anche se noi le avevamo sempre parlato in italiano, prevedendo che saremmo ritornati in Italia un giorno o l’altro. Mio marito era senza lavoro.

Poi c’era stato il rientro in famiglia , non senza squilibri, dopo dieci anni di assenza, anche se venivamo per le vacanze, ma quel mese d’estate aveva il carattere della provvisorietà.

Comunque tutti questi problemi non mi avrebbero paralizzato tanto se solo fossi stata bene.

 

Ho passato un certo tempo nella mia città, vivendo a casa di mia mamma ( con lei abitavano mia sorella e mio cognato), poi abbiamo deciso di stabilirci a Milano, una città che conoscevo bene perché lì avevo fatto l’università e avevo lavorato come prima come insegnante e poi come coordinatrice delle famose (allora) 150 ore.

 

L’analista da cui mi sono presentata era già stato mio terapeuta per una breve psicoterapia di sostegno (credo che si chiamasse così) prima di essere mandata in Brasile.

“Dovevo stare lontano dalla famiglia” : questa era la terapia consigliatemi, conseguenza della diagnosi da lui fatta e di cui parlerò in seguito.

Anch’io, del resto, volevo andare in Brasile perché quello era il paese dove abitava “il mio grande amore”, Mario.

 

 

Il nuovo analista, ha subito mostrato di avere pratica di psicotici; sembrava anzi saperla molto lunga, tipo vecchia volpe che non si lascia ingannare facilmente da moine e lacrime, ma non era “simpatico” né affettivo.

 

Sempre molto serio e di pochissime parole.

Non credo, in più di dieci anni, di averlo mai visto ridere.

Un sorriso o due? Forse.

 

Interpretazioni poche, parecchi orizzonti a cui tendere, quasi sempre irraggiungibili, e senza nessuna scaletta per arrivarci: questa te la dovevi costruire da sola.

E, secondo me, questo era una sua mancanza, come un comandante che ti desse sempre solo strategie bellissime, ma mai piani tattici, mentre tu, povero cristo, guardavi questi orizzonti luminosi ed intanto continuavi ad annaspare nella melma.

 

Non voglio dire con questo che ad un paziente bisogna servire una pappa già masticata, ma secondo me, non può esserci un’eccessiva distanza tra le mete che gli suggerisci e lo stadio in cui lui si trova.

E’ vero che così facendo gli apri la mente a grandi orizzonti, ma potresti anche inibirlo del tutto.

Questa capacità di aprire orizzonti mi è sempre sembrata comunque una enorme risorsa.

 

Questo metodo su di me non ha mai avuto l’ effetto di inibirmi, ma anzi al contrario mi stimolava: mi sono letteralmente arrovellata, per tutti gli anni della terapia, a capire cosa volevano dire le sue frasi così ermetiche e, soprattutto, a trovare gli svariati sentieri che, per tentativi ed errori, avrebbero dovuto condurmi almeno in vicinanza della meta che mi era stata proposta.

 

O, piuttosto, diciamo francamente, nelle vicinanze di quello che potevo aver capito di questa meta: devo confessare che c’era un grande dislivello di intelligenza e, ancora di più, di cultura tra il mio analista e me.

Per quanto abbia fatto la facoltà di filosofia e, in seguito, la formazione per analisti( non terminata) nonché quattro anni della facoltà di psicologia( tutte cose interrotte da crisi), provengo da una famiglia semplice, di bravi commercianti, grandi lavoratori cui non rimaneva neanche il tempo di occuparsi di cultura.

 

E’, invece, mia convinzione che per essere una persona colta devi iniziare la tua formazione in casa: se devi scoprire tutto da sola, come è successo a me, non vai molto lontano, a meno che tu abbia delle capacità speciali e, io, chiaramente, non le avevo. Oltre a questo, ho anche sprecato molto tempo a soffrire.

 

All’inizio sono stata male con questo analista perché la mia nuova esperienza terapeutica era l’esatto opposto di quella che avevo vissuto in Brasile: là c’era entusiasmo, affetto, allegria, qui molti silenzi, molta solitudine, o, forse, più che solitudine, era un lasciarti sola stando in compagnia di una specie di “mummia”, detto con tutto rispetto, per indicare qualcuno che sta lì con te, ma ti lascia, nello stesso tempo, sola.

 

In seguito, quando ho avuto una grande depressione, durata anni, l’analista ha pensato bene di lasciarmi del tutto per conto mio nello stile:” O muore o sopravvive una volta per tutte”.

Fortunatamente sono sopravvissuta.

I suoi calcoli di grande giocatore erano stati giusti:

 

“Un lager”, gli dicevo sempre.

 

Ma non era sempre così.

A volte era “accettante” e quasi amoroso… come può esserlo un orso ispido…ma sempre un bellissimo orso…!

 

Nell’insieme, ho dovuto rimboccarmi le maniche e lavorare come una bestia da soma.

In dieci anni non ho smesso un secondo di lavorare e di soffrire, ma sono “emersa”.

 

Mentre con la mia analista mi sono sentita estremamente coccolata( si curava persino di come mi vestivo!), nonostante certi equivoci drammatici di cui in parte ho raccontato, qui mi sono sentita presa “seriamente” e come “persona”. Una persona che voleva crescere e, cosa ancora più importante, che “poteva” farlo. Quello che l’analista mi comunicava, e che io apprezzavo più di ogni altra cosa, era che, di questa mia potenzialità, sembrava essersi convinto dopo una valutazione realistica.

 

Per la prima volta mi sentivo qualcuno cui veniva data la fiducia di tirarsi fuori dal ginepraio in cui era andata a mettersi.

Quando facevo troppo la rammollita, l’analista usava questa fiducia come una sfida cui non sapevo rispondere; evidentemente conosceva molto bene il mio carattere; un carattere infantile che non sapeva resistere alle provocazioni; cosa che, del resto, ho imparato a fare solo da poco tempo e con ricadute.

 

Fin dall’inizio è stato molto chiaro che il nostro gioco era molto serio e che giocavamo per la vita o per la morte.

Lui era, anche se per hobby, un giocatore “professionista” ed io lo sono di natura. Forse, non avendo appreso a giocare da bambina, ho spostato la dimensione ludica sulla realtà, e sono passata così a “giocare” con la mia vita.

Questa credo che sia, tra l’altro, una delle caratteristiche della mente psicotica perché non sviluppa o perde le capacità simboliche.

Comunque sia, questa nostra natura di giocatori seri, del mio analista e mia, ha creato, insieme a tante altre cose, un forte legame nel nostro lavoro e una grande profondità nella nostra unione di lavoro. Questo è, evidentemente, quello che ho sentito io.

 

 

 

 

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