INTRODUZIONE: 7. La nostra coscienza, ad un certo punto, può intonare una canzone…

 

 

 

 

 

Scrivere questa storia immaginando di parlare a delle persone che potevano ascoltarmi e dalle quali avevo bisogno di essere capita in modo diverso che dal mio terapeuta, mi ha obbligato a rifare il mio linguaggio.

Il mio modo di parlare e, ancora di più di scrivere, era infatti tipico di chi si è formato in un giardinetto appartato e pieno d’ombre.

 

Non mi illudo di aver tolto tutte le forme oscure che caratterizzavano il mio modo di esprimermi, ma ho qualche speranza perché un’amica carissima, Donatella D’imporzano, mi ha corretto l’italiano togliendo tutte le parole inventate.

 

Anche la stessa organizzazione delle frasi doveva essere cambiata perché troppo involuta in quanto non sufficientemente abituata allo scambio, a quel vivere in comune nel quale, solo, ci sentiamo vivi e palpitanti.

La solitudine, a cui la malattia mi ha costretto, non poteva non avere conseguenze anche nel modo di parlare e di scrivere.

 

Fare questo testo mi ha permesso, inoltre, di riappropriarmi della mia storia, inserita in quella della mia famiglia, in un modo che prima non era stato possibile e ha reso la mia identità più compatta e più orientata al futuro di quanto io sia mai stata.

 

Ho scoperto che per avere un futuro, nel quale poter proiettare il nostro io, vederci fatti in un modo piuttosto che in un altro, poter fare dei progetti, dobbiamo avere prima di tutto un terreno nostro, ben saldo, gravido del nostro passato.

E che questo passato stia lì, “riconosciuto” (scelto selettivamente), “perdonato” e “conciliato” con tutto quello che eravamo ieri e che siamo oggi.

Un passato che ci canta dentro e che ci suggerisce una musica anche nel presente.

A mio modo di vedere per sentirsi leggeri è necessario poter stabilire un filo, una continuità armoniosa della nostra coscienza attraverso i tempi dall’infanzia ad oggi.

Ed è questo il risultato di un lavoro immane perché pressoché quotidiano.

 

La difficoltà non è, come si potrebbe pensare, la “ricostruzione storica”, che certamente deve assomigliare al classico groviera, ma il mettere assieme una cosa con l’altra senza che queste stridano troppo una con l’altra al punto che non riusciamo a riconoscerci né in una né nell’altra.

 

Il nostro mondo interno è fatto di tante immagini di noi stessi mentre siamo con persone diverse, alcune che purtroppo non sono più vive e altre che ancora stanno intorno a noi.

 

Queste relazioni possono lasciarci inquieti e angosciati oppure (anche se niente è mai così dicotomico: nel mondo psichico, quando si arriva “al più o meno” è sempre un grande successo!) possiamo sentirci con queste persone, specialmente con quelle che più ci hanno formato come i nostri genitori, in un prato verde smagliante di colori, perché questi rapporti continuano a rifornirci di vita.

 

Ma quello che volevo dire non è solo questo: ho sempre sentito il bisogno di avere dentro di me un mondo integrato. Per me questo significa poter portare negli occhi, e riconoscere come mio, quello che sono stata venti, trenta, cinquanta anni fa, così come quello che sono in questo momento in cui scrivo.

Questo, a mio parere implica un particolare sviluppo psichico cui non so dare un nome.

 

 

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