UN NUOVO COLLABORATORE, SALVATORE, E UN ANTICHISSIMO E CARO AMICO DAL 1960… NON VI RACCONTO IL GRANDE AMORE CHE HO SEMPRE AVUTO PER LUI. NON VI RACCONTO…?

 

E’ la prima volta che entro nel tuo blog, e sto cercando di orientarmi. Non aspettarti da me grandi contributi, sai che non sono per niente portato alle raffinatezze psicologiche, diresti tu: sono un normale piatto piatto. Ammesso che la parola “normale” abbia un senso univoco e permanente, cosa di cui dubito fortemente, perché il campo semantico di questa parola va ricercato più nella sociologia che nella psicologia. Detto questo, posso aggiungere che il mio modo di essere “normale” ha poco a che fare con il conformismo e molto, invece, con l’accettazione della mia propria miseria individuale. Ci convivo con la mia “miseria”, la accetto e ne prendo atto, senza farmi deprimere né abbattere. Il mio processo di invecchiamento ha prodotto dei risultati paradossali, facendomi diventare una persona molto più “leggera” di quanto non lo fossi in gioventù, quando anche le ali delle farfalle mi sembravano di pietra. E la leggerezza sta diventando la cifra dell’ultima fase della mia vita. Non mi prendo più troppo sul serio, sono indulgente verso gli altri quanto lo sono verso me stesso, nutro un grande anche se teorico sentimento di “compassione” verso i miei simili e mi sforzo per quanto posso non solo di non nuocere ma anche di aiutare dove sono in grado. Non mi interrogo più su me stesso, perchè una cosa l’ho capita: non vale la pena affaticarsi sul mistero che noi siamo a noi stessi, non per rassegnazione, ma per impossibilità di valicare il limite della nostra autocoscienza. Prendo atto che siamo una parte del mondo, coinvolti nel suo flusso inarrestabile, essenziali e inessenziali allo stesso momento, buoni e cattivi allo stesso tempo, destinati alla meta a cui è destinato il tutto. Mi dispiace, cara amica, non so dirti di più.

 

nota ch. per Sal – sono così in ritardo sulla pubblicazione perché -fatta subito-mi si è cancellata tre volte. Oggi qui a Sanremo c’è un bel sole, quindici gradi all’ombra, allora, io che soffro da morire il freddo (e il caldo d’estate), mi sono data coraggio di ritentare. Speriamo.

nb di ch. – Non spaventatevi del linguaggio, è la persona più a mano che conosca, colto senz’altro, ma il modo di parlare è una deformazione professionale perché è stato professore di filosofia nei licei e, anche se giovanissimo, forse forse è andato in pensione. E’ scrittore di romanzi e pittore: dei suoi quadri, donatella, avendoli visti, dice che sono molto belli: speriamo che mandi le foto, tutti tutti, meno uno, di questo “mario bardelli”, tasto unico, non ne possono più e chiedono un po’ di varietà.

 

nota brevissima di Chiara sul testo (il blu cobalto mi si addice): nei suoi famosi “cicli della vita”, Erikson connota la maturità  con queste parole: saggezza, speranza e fiducia. Umilmente suggerisco: non mancherà qualcosa alla tua evidente saggezza e maturità? Sulla leggerezza,  che a me cambierebbe la vita (e la vostra poveri lettori) se solo ne avessi un briciolo, c’è una bella canzone di Gaber che, se qualcuno me lo ricorda, vorrei proprio pubblicare.

 

ERIK H. ERIKSON (da non confondere con Milton Erikson, un brillante psicoterapeuta che non conosco) è nato a Francoforte nel 1902, è emigrato negli Stati Uniti, come tanti altri psicoanalisti famosi all’epoca di Hitler, muore ad Harwich, Stati Uniti nel 1994.

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7 risposte a UN NUOVO COLLABORATORE, SALVATORE, E UN ANTICHISSIMO E CARO AMICO DAL 1960… NON VI RACCONTO IL GRANDE AMORE CHE HO SEMPRE AVUTO PER LUI. NON VI RACCONTO…?

  1. Salvatore scrive:

    Mi dispiace per il linguaggio, non pensavo (anzi speravo che non) risultasse viziato dalla mia deformazione professionale. La speranza è che, essendo ormai in pensione (nell’età giusta per esserlo), poco a poco scompaia anche il mio inconsapevole atteggiamento “professorale”. Tu che in questo blog sei Chiara, vuoi tu prendermi benevolmente in giro? eh sì, perche sentirmi attribuire tutte queste attività in una volta, sinceramente, onestamente, mi fa sentire in un profondo imbarazzo. Carissima amica, ti assicuro: non sono né romanziere né pittore e tantomeno filosofo. Sono uno che ha tentato di dare l’assalto al cielo, ma che è rimasto con il classico pugno di mosche in mano. Ho la fortuna di essere dotato (questo sì) di una profonda consapevolezza dei miei limiti e di una discreta capacità di accettarli. Mi dispiace rivelarti che sono una persona mi verrebbe da dire mediocre, se questo termine non suonasse come autopunitivo; diciamo una persona come ce ne sono tante, senza infamia e senza lode, ma mi rendo conto che anche questo modo di autodefinirmi suona come deprimente. E’ a partire da quello che ho voluto e da quello che ritengo importante nella vita che si può capire quale è la soglia di accettabilità dei miei requisiti personali. Io, per dirla tutta, non mi reputo un poveraccio per il fatto di non essere diventato romanziere e pittore, perchè non mi ha mai abbandonato la consapevolezza delle mie origini e dei mezzi che avevo a disposizione per definire i miei obiettivi, di conseguenza non mi è mai mancata la consapevolezza di ciò a cui potevo legittimamente aspirare. E’ vero: in una certa fase della mia vita ho compiuto degli atti di “hybris”, ma sempre così, alla buona, senza impegno, con disincanto e zero illusioni. E’ stato così che, improvvidamente, dapprima ho preso in mano i pennelli e in un secondo momento la penna. Ero consapevole che stavo solo divertendomi con me stesso, e questo mi bastava, anche se, in un angolino remotisino del mio cuore, nascondevo, anche a me stesso, l’irrazionale speranza di raccogliere qualche rametto di alloro nel giardino della fama… ahahahah. Abbiamo tutti le nostre debolezze, ça va sans dire! Come vedi, ti sto offrendo l’occasione di psicanalizzarmi per benino, come solo tu sai fare. Peccato che in uno spazio limitato come questo io non possa prevenire le tue obiezioni e osservazioni, ma ti assicuro che mentre scrivo so a quali altri livelli di lettura si può arrivare e quali inconsci meccanismi (sarebbe forse meglio dire processi psichici) si possano portare alla luce al di là delle apparenti giustificazioni che ognuno può dare sul proprio conto. Per attenermi a un mio voto di stringatezza, ti posso solo suggerire una parola chiave da cui un bravo psicoanalista farebbe partire chilometri di concatenazioni psichiche, la parola chiave è: personalità depressa. Io, per me stesso, non userei questa espressione, ma sono quasi sicuro che uno che mi guarda da fuori sarebbe fortemente tentato di usarla. A me piace di più l’espressione, quasi un ossimoro, “serena malinconia”. Ma è necessario che ti dica queste cose?

    • Chiara Salvini scrive:

      penso di rispondere con calma al tuo testo, come al solito molto bello: non ci si può far niente caro Salvatore, anche essendo uno come tanti altri miliardi di uomini che ci osservano da tutto il mondo e magari dai pianeti satelliti, stelle nuove e vecchie senza mai stupirsi di noi, di come siamo, in quanto uguali a tutti, è innegabile che scrivi molto bene e ti esprimi su te stesso come uno abituato a guardarsi dentro o come si dice all’autoanalisi. Del resto eri così anche a 14 anni quando per la prima volta ci siamo parlati un po’ più intimamente al campeggio a Realdo, ricordo perfettamente persino il posto, ma non so spiegartelo né so se c’è ancora, ricordo il tuo viso quella sera e il tuo modo di “essere” allora: eri un groviglio nero-così ti ho visto io- come tanti calimeri pigiati insieme, che si apriva in profondità insondabili e serrate, anche se avevi un gran bisogno di comunicare con qualcuno “che ti accogliesse” con tutta la tua esasperata sensibilità, e non solo, con un cumulo di pensieri pensati parlando con se stessi, nella propria mente solitaria, o forse addirittura isolata, che si allacciavano tra loro come un gomitolo tutto disordinato (un groviglio, appunto); e tu li tiravi fuori a fatica, diciamo così, vorrei dire a singulti, solo per dare l’immagine che ho di allora nella mia mente, pronti ad uscire tutti d’un fiato, ma “inchiavardati”, non so cosa voglia dire, ma dice meglio che “pressati sotto chiave”. Non repressi, come si dice, sembravi avere un buon rapporto con il tuo inconscio e le sue emozioni che ti affioravano spontanee (ee ?)… ecco, eri come uno che dopo aver rimuginato per anni e anni, trovasse uno sbocco al suo fiume che, a quel punto, obbligatoriamente, “andava di corsa inciampandosi qua e là tanto forte era l’impulso che lo spingeva.
      La mia non può che essere un’ipotesi ovviamente senza verifica alcuna- ma credo questa porta traballante che nella tua mente separava il conscio dall’inconscio facendotelo avere…non voglio dire “in gola” perché sarebbe troppo (così ce l’hanno gli psicotici) ma “in tasca”, a mano, (gli adolescenti sono così, peccato che poi tappino, dico io, per l’amor del cielo!), era certamente la tua ricchezza straordinaria, straordinaria a me che osservavo attenta, ma forse anche – dall’altro lato della moneta, quella che siamo tutti, anche se detto così è troppo meccanico, ma per capirsi- proprio quel fiume di emozioni fortissime (passioni, si direbbe) poi ti rendevano così difficile “gestirti” nella vita reale. D’accordo, eri il classico adolescente “bello e tormentato” e l’adolescenza oggi è passata per tutti noi. Ma credo fortissimamente che tutto quello che abbiamo vissuto è registrato nei nostri nervi (vorrei pubblicare un pezzo di un articolo di Freud che lo dice …molto meglio!! anche se io preferisco usare un linguaggio neurologico (sia chiaro, a lui non affatto estraneo, è un assoluto pregiudizio che Freud abbia guardato alla psiche senza cercare costantemente un supporto neurologico alle sue scoperte: dalla prima all’ultima sua opera è espressa la speranza che nel futuro le sue teorie un giorno potessero essere tradotte fisiologicamente); allora, questo meraviglioso groviglio non può che essere dentro di te come un fuoco ahimé sotto la cenere, ma l’impressione che ho così da lontano (per questo uno di buon senso starebbe zitto) e che-forse per troppe sofferenze, per voler essere – giustissimamente- tranquillo e sereno dopo tante tempeste (parlo delle tue), ancor più che tutti noi ormai crediamo-erroneamente- che un giorno la nave arriverà in porto. /”Erroneamente” perché la mente, se possiamo accettare di fare quello che è un vero lavoro, non ha porti, se non in quell’attimo in cui ci addormentiamo alla vita: inutile aggiungere “a mio parere”, o almeno spero fortissimamente che, a questo punto del blog e ancor più della nostra amicizia, si chiaro! Dicevo, l’ impressione che ho così da lontano, e che esprimo invece di zittirmi, è che hai “dovuto” per sopravvivere e, forse dovrai ancora (penso ad Anna, per quel poco che mi hai detto l’ultima che ci siamo visti) è che il prezzo di questa serenità è aver messo (né potevi far altro) troppa cenere su quella fiamma adolescenziale, o- come preferisco dire- sul nostro “bambino” “tutto meraviglia e stupore” come i giganti del Vico, con cui da sempre mi sono identificata- creatività a parte- . Giganti o bambini, con i loro impulsi violenti nel bene e nel male e con la loro logica, che non è quella della luce del sole, e che, per brevità dirò “alla Walt Disney”. Solo per fare un esempio: questa straordinaria separazione tra bene e male ci permetteva, anche da ragazzi, degli straordinari innamoramenti (anche per personaggi, diciamo “pubblici”…a proposito ti ricordi il tuo “quasi delirio” per Carmelo Bene…che io non ero in grado di capire, o le tue risate, divertentissime anche per un altro, che più che del film rideva alla tua allegria, mentre vedevi “Provaci ancora Sam” di W.A.?) e paralleli rifiuti basati su un odio violento anche quando non manifesto. Allora, la nostra fatica immane era avvicinare quanto più possibile questi estremi ed arrivare ad una “integrazione” di noi stessi che ci era così necessaria per vivere e sopravvivere mentalmente, ma se negli anni “ripuliamo troppo le contraddizioni” e le affondiamo lontanissime nella mente dopo averle devitalizzate, a mio parere sentiamo freddo, un freddo mentale che “uccide” la creatività o quello che tu chiami “depressione” senza essere depresso. “La vita non può essere che ricchezza di contraddizioni”: cito, “senza memoria”, un articolo del vecchio Mao-adesso Zé Dong…mi pare- articolo che, sempre senza memoria, dovrebbe essere quello “Sulla prassi”, uno dei suoi testi filosofici che conoscerai. Un aneddoto forse più chiaro: una volta mia madre (il lavoro impazzante dei fiori, per lei dalle 5 alle 24, e la bambina-Pia appena nata- e la casa e la vita senza svaghi – tua mamma capirebbe benissimo) va dalla sua dicendo che non ce la faceva più di tanto lottare…e lei, mia nonna Chiara, in onore della quale mi chiamo così sul blog, ha risposto “figlia, pregati sempre di lottare perché quando non lotti più vuol dire che parti” per l’aldilà sottinteso. Ma la lotta cui alludeva lei era …quella sul ring della vita…da cui alla nostra età rifuggiamo come il diavolo dall’acqua santa! Sai cosa c’è: per troppo aver sofferto, ad un certo momento, ci rifiutamo di soffrire fino in fondo sia gioie e dolori, sia le nostre ma soprattutto quelle che riguardano gli altri, ci rifiutamo di fare quel lavoro che è “immedesimarci” nell’altro e poi tornare a noi “rifacendoci dopo l’assimilazione”. Sto adattando per farmi capire – ignorantemente, però, e fuori contesto- due parole di Piaget chiarissime per dire quello che cerco di dire: “assimilazione e accomodamento” (rimarco di nuovo che non ho la più pallida idea in questo momento di cosa intendesse lui!). Ma questo lavoro mentale è quasi impossibile o totalmente impossibile, quando, l’altro, ci è estremamente vicino come forse può essere per te Anna, tua moglie, così martoriata (questo il sentimento che ho provato io).

      Come vedi, nonostante l’ottimo proposito di meditarci un po’, ho preferito riflettere con te, però al mio modo, forse impossibile a seguire, che è costruire un discorso “per associazione libera”, che è però anche l’unico modo di intuire qualcosa, specie di un altro perché si lavora con entrambi i pedali (conscio-inconscio) come suonando un piano, diciamo così. Con questo non voglio assolutamente dire di aver potuto intuire qualcosa di te dopo “quasi” quarant’anni che non ci parliamo intimamente, a non essere quella volta al “bar bello”, quello sull’angolo Indipendenza-Castel Morrone, che chiamiamo così per distinguerlo dal “bar brutto” dove andiamo al mattino a prendere il cappuccio). Quella volta ci siamo parlati, ma quasi solo di me e del libro…- ti erano piaciuti gli spazi bianchi che M. invece odiava dandomi un bel conforto- perché tu-benedetto sotto tutti i cieli-eri riuscito a leggere quei due “tomi” tutti scritti così come questo commento!

      Ecco, vorrei però dirti (e questa era “l’unica” ragione per cui ho iniziato a scrivere!) che credo tu abbia sottovalutato le parole (fiducia…) citate da quel famoso psicoanalista a proposito dell’età matura: non erano scritte a caso. Certo questi termini necessiterebbe di una “meditazione” approfondita sulla propria vita attuale ammesso che uno possa farlo in questo momento e che, anche, ne abbia voglia, o meglio, sia spinto a farlo da un bisogno suo o disagio anche vago, che sempre da lontanissimo, ti parlo immersa nella Via Lattea che ho tutta per me in questo momento, alla mia sensibilità c’era, magari un po’ nascosta nei tuoi scritti. Mi auguro che si possa capire qualcosa. Non mi dimentico che sono su un blog per cui scrivo a te con tutta la passione esclusiva necessaria a capire e parlare, ma ci terrei molto (scopo del blog) che anche altri trovassero qualcosa, anche un filo storto, di utile personale. Mah! Qui c’è un assoluto sole e anche con le mie ossa reumatiche credo di poter uscire a prendere un po’ d’aria. baci baci e buona giornata e una buona notte anche migliore per quando mi leggerai. ciao ch.

      Ecco, devi avere pazienza con me, se puoi, perché come immagini benissimo, ho fatto anche un po’ di più di quello che posso nel cercare di “seguirti” in questo scritto come nell’altro anche se in quello non volendo invadere, mi sono limitato ad un suggerimento che a mio modo di vedere forse avrebbe potuto dirti molte cose, ma è come per gli schemi, lo sai, servono solo a chi li ha fatti, non ad altri, così le mie parole e la mia esperienza. Ahimé dovrai leggere e non ti sarà magari simpatetica neanche una virgola, al massimo una virgola e mezza che è davvero troppo poco, abbi pazienza “ma crescerò” (è vero) e se ci parliamo un po’ assieme, se vuoi, un minuto solo, crescere insieme attraverso anche degli scritti, sono sicura che ci capiremo meglio: a parte il passato, davvero lunghissimo, vissuto assieme, ma sul presente, anzi dal ’76 (Brasile)…oggi cercare di capirti è stato un po’ come leggere in una palla di cristallo senza avere dati e purtroppo (anche meglio così) non sono nata indovina. Ricordati soltanto il mio grande affetto in così tanti anni, quasi un familiare, affetto che ha anche “accelerato” in un certo periodo, durato tre anni, in cui tutti e due eravamo troppo bambini e assai sprovveduti su come sarebbe andata la vita…che è poi andata. Abbi fiducia che riuscirò a capire qualcosa come del resto, mi permetto di dire, forse sbaglio, ti-mi-ci siamo sempre capiti! b-chiara

  2. Salvatore scrive:

    Scusami per il ritardo. Una risposta un minimo sensata richiederebbe altro che il tempo che ho lasciato passare! Così magari mi affido anche io al metodo delle libere associazioni, forse mi rende meno gravoso il compito di organizzare le frasi. La prima osservazione che mi viene da fare è la seguente. Tu di me conosci tutto e niente allo stesso tempo. Io di te altrettanto. Tutto: perché ci siamo frequentati troppo a lungo per non aver sviscerato i nostri più reconditi pensieri, le nostre più palpitanti emozioni, le nostre speranze e i nostri desideri. Niente: non tanto perché siamo rimasti troppo a lungo silenziosi l’uno rispetto all’altra, quindi non tanto per motivi estrinseci, diciamo contingenti, ma per un motivo molto più profondo, un motivo che ha che fare con il processo di conoscenza/riconoscimento dell’altro. Mi rendo conto solo ora che in tale processo l’identità dell’altro (quindi non solo la mia nei tuoi confronti ma anche la tua nei miei) viene in qualche modo “piegata” ai bisogni e/o alle attese e/o alle proiezioni di chi si mette in relazione, in uno scambio di ruoli del tutto paritetico. Sicché la persona che abbiamo sempre creduto di conoscere risulta per metà un prodotto di una rielaborazione interiore. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la sincerità o con la comunicazione, ha invece a che fare, a mio parere, con le strutture profonde della nostra psiche. Vedi? da presuntuoso quale sono sempre stato mi improvviso perfino psicologo adesso! Il fatto è che ci sono cose che noi non abbiamo il coraggio di confessare neanche a noi stessi, figuriamoci alla persona di cui vogliamo conquistare l’affetto o l’amicizia. Tutto quello che tu rievochi nel tuo discorso qui sopra è del tutto e definitivamente vero, ma ciononostante non esaurisce e forse neanche fotografa esattamente la mia personalità, ma per tranquillizzarti, ti dirò che neanche io saprei fare un discorso su me stesso che mi fotografi meglio di come hai fatto tu. E’ veramente deludente constatare come all’incremento degli anni anni che porto sul groppone non corrisponda un pari incremento della conoscenza di me su me stesso. Il che lascia ben capire quanto, a maggior ragione, sia lontana anni luce da me la capacità di cogliere o semplicemente di entrare in contatto con una personalità diversa da me. Troppi sono gli strati di cui siamo composti, troppe le variabili che casualmente sono entrate nella costruzione della nostra identità. Mi viene quasi da fare le pulci a Freud e dichiarare presuntuosamente che i livelli della psiche sono ben più di tre, forse trecento se non tremila… e a questo punto se fossi si Facebook ci mettere un “emoticon” o “faccina” sorridente (ironica).
    Solo dei giovani romantici e sprovveduti, quali eravamo noi, potevano aspirare a penetrare disinvoltamente tutti gli strati di cui siamo fatti, mettendo in “non cale” tutte le difficoltà che possono frapporsi ad un viaggio al centro della terra. Per quello che mi riguarda, ricordo con sgomento il mio senso di impotenza difronte a certi tuoi atteggiamenti di cui non riuscivo a capire né l’origine né il motivo. Allora non mi rendevo conto che in ogni rapporto interpersonale di una certa importanza questo senso di impotenza prima o poi fa capolino. Non si tratta di buona o cattiva volontà, si tratta di impodsibilità di identificarsi fino in fondo l’uno nell’altro. In ogni rapporto, secondo me, è inevitabile una forma di proiezione narcisistica, che è resa necessaria dall’esigenza di avvicinare l’altro a me, di rendermelo familiare e amato, ma che allo stesso tempo costituisce e sancisce la distanza dall’altro. Sai che cosa trovo misterioso e degno di studi e indagini? Trovo misterioso il motivo della scelta della persona a cui rivolgere le nostre attenzioni. Perché Tizio/a mi attrae e Tizio/a mi repelle? Qual è il motivo profondo dell’attrazione/repulsone? C’è solo un motivo o ce ne sono tanti? Queste, secondo me, sono le domande su cui un bravo psicologo dovrebbe dirigere l’attenzione, perché è rispondendo a queste domande che si individua quel nodo nascosto che tiene unita la nostra persona. A mo di conclusione provvisoria, perché in qualche modo bisogna ben concludere, ritorno a sottolineare che un rapporto si costruisce più sulla base del nostro soggettivo investimento affettivo che non sulla base di oggettive convergenze scaturite da una “corrispondenza di amorosi sensi”.

    • Chiara Salvini scrive:

      caro Salvatore, mi scuso per il ritardo con cui risponderò, sono alle prese tutte le mattine con esami all’ospedale, niente di grave, mi hanno assicurato che per ora non morirò per cui avrò abbastanza calma e tempo da dedicare alla tua…come dire? non trovo parole non fruste, ma ti dò un abbraccio grande come il cielo…lo vuoi stellato? chiara

  3. Salvatore scrive:

    Prenditi tutto il tempo che vuoi. Mi dispiace solo per il motivo: la salute. Fai bene a non trascurarla, come non la trascuro io. La nostra età richiede attenzione e riguardo per noi stessi. A proposito: hai sentito la tristissima notizia della morte di Lucio Dalla? A me ha fatto veramente tristezza, come se il tempo mi confermasse che la maggior parte della mia vita è definitvamente archiviata. Certi personaggi pubblici (anche un cantante importante come Dalla lo è) finiscono col marcare un’epoca, dandole le connotazioni che ha nel nostro vissuto. Chi di noi non ha una canzone in cui identifica una parte importante della propria vita? Sicuramente dal repertorio di Dalla potrei pescarne più di una, di queste canzoni.

    • Chiara Salvini scrive:

      sai che io non è particolari canzoni legati ad una storia d’amore, qualunque essa sia: tu ricordi cosa suonavano alla Grotta del Drago quando hai visto per la prima volta Lauretta? Ti confesso, anche se non è affatto gentile, che negli ultimi anni non riuscivo più a guardare Dalla in televisione perché era ridotto in una maniera che mi faceva senso, probabilmente una persona disperata che si aggrappava alla religione e a qualche fuggevole amore; credo anche il palco non si sopporti senza droga, l’impatto con il pubblico, cioè con un giudice senza pietà, deve essere terrificante e ci vuole un coraggio .. che forse l’essere umano da solo non trova. Lo sai senz’altra che la Magnani, tutte le volte che doveva entrare in scena faceva delle scenate tremende per non salire sul palco. Deve essere proprio quel “mi tremano le vene e i polsi”… perché “qui si parrà la mia dignitade” (o simile). A cominciare dalla terza liceo sono stata-fino alla fine dell’università-terrorizzata dagli esami ed ero più terrorizzata quanto più avevo studiato. Non è il tuo caso: tu hai fatto filosofia come navigare in barchetta su un mare che “teneva per te”.
      Ma mi è venuta in mente una cosa sulle canzoni: ho due canzoni, forse direi tre, che sono state indispensabili alla mia “sopravvivenza”, ma sempre in ospedali psichiatri. La prima volta a Parabiago mi pareva di stare in un’enorme città recintata, alla mensa non riuscivo a trangugiare niente, se era carne, quella cosa nel piatto, diventava di colpo “viva”, ma ad un certo momento gironzolando in quel labirinto come facevo da bambina intorno a casa mia, una bella mattina di sole (era aprile o maggio) ho imboccato la strada del bar (sono sempre stata una persona “da bar”): lì c’era una signora che serviva al banco, che mi ha preso in grande simpatia e rideva dolcemente, sempre con simpatia, delle mie battute (in mania si diventa spiritosi perché le associazioni si elettrizzano), mi dava-certo perché lo chiedevo-un bel panino fresco ripieno di mortadella: così questo era diventato l’appuntamento d’amore di ogni mattina, la signora e la mortadella; ma c’era un terzo che era tutto: il juke box, la grande passione di quella macchina da cui uscivano canzoni che amavo e che potevo ballare (da sola, si capisce) .- da ragazzina ripetevo la stessa scena alla Botte, al porto vecchio, se te la ricodi: lì, a Parabiago, sentivo sempre sempre una canzone che era “Sai che bevo sai che fumo sai che gioco anche con l’amor”, di un cantautore mi pare pugliese famoso a quei tempi, la cantavo con il disco e credevo di vedere l’immagine del mio terapeuta (negato per il mestiere al punto che dico tranquillamente che senza di lui non sarei mai riuscita da sola ad ammalarmi) a cui cantavo il mio amore, ma so che in verità cantavo ad un’immagine di me stessa molto meno derelitta di come mi sentivo io. Pare strano, ma queste immagini di sé sognanti del delirio, ti mostrano come solo un film può fare, cosa vorresti essere senza averlo mai saputo e anche eventuali potenzialità che potresti lavorare. Ripetendosi questa esperienza di identità virtuale nelle varie crisi, nell’ultima a Milano, era già intorno al ’94 (la prima è del’ 76), quasi vent’anni di incubo ininterrotto, dicevo, nell’ultima a Milano sono riuscita ad afferrare “una soluzione” di tanti tentativi ripetutisi sempre uguali, che in qualche modo mi ha guidato, negli anni, ad essere quella che più o meno sono diventata e ancora sto diventando…quasi altri vent’anni…non dimostro certamente rapidità di apprendimento perché in fondo tutta la malattia ha avuto questo significato: riapprendere una serie di schemi mentali, che al contrario di quelli originari che mi portavano al suicidio, erano fatti per farmi sopravvivere e anche godere la vita per quello che è, per quello che dà-e toglie-ridà. Stante questo quadretto più una certa infanzia, da anni sono una persona felice e per questo stupisco il mio amico Nemo, cui la felicità pare “una parola grossa”. La mia vita invecchiando è “magnifica” al confronto e mi illudo che migliorerà: credo che avesse ragione il tristissimo Leopardi che cantava la felicità alla vigilia della festa e, nel mio caso, la felicità come venir meno di un incubo, anche se lui diceva di un dolore. In questo ultimo anno e mezzo la mia tanto decantata (da me) felicità è stata tormentata da tante cose al punto da trovare “troppo pesante” la vita. Ma so che è un momento ulteriore di costruzione di me stessa, o se vuoi di preparami alla morte senza rimpianti di non aver vissuto, o meglio di non aver realizzato me stessa che, a quanto pare, è l’impulso più imperioso che ho da sempre, che mi darà e dà una nuova felicità che è anche una speciale “solitudine” , così tipica degli psicotici che hanno vissuto “senza potersi identificare con gli altri, imitarli e tutto quello che ti succede nell’apprendimento a convivere”, da cui discendono tanti scontri ed equivoci di comunicazione anche con le persone che hai più vicine e più care. Ma questo riguarda ogni specie di “diverso”: credo che capirai perché anche tu sei stato un adolescente “diverso” e poi, forse anche un uomo abbastanza diverso anche se ben adattato. I classici “che la realtà lavedono, sono anche capaci di fare due e più due quattro ma gli dà un gran fastidio. Adesso so che non sei così: sereno e saggio…”la serena disperazione di Umberto Saba”, o così pare a me. Tanti abbracci entusiasti, se puoi dimmi qualcosa di Anna, Ch.

      PS ma sai che in così tanti anni non abbiamo mai ballato una volta insieme…alt! abbiamo delle foto, non me lo ricordavo più, allora sei l’unico tra fidanzato e fidanzatini con cui ho fatto almeno “un” ballo, e pensare che nella vita avrei voluto 1. ballare; 2. cantare…se avessi avuto un “vero” amore mi avrebbe portato a ballare e poi avrebbe cantato con me, non credi che un vero amore avrebbe capito “anche” le mie esigenze?

  4. Salvatore scrive:

    L’intervallo per la risposta è dovuto alla mia assenza da Milano. Sono stato al mare, a Calambrone, dal 2 al 6 marzo. Là non avevo il pc.
    Non è facile seguire il tuo “flusso di coscienza”, anche se ogni tanto mi balena qualche parola chiave da cui mi illudevo di partire… prima di rendermi conto che tu più che una strada disegni un labirinto. Partiamo dal rapporto musica/vita. A riguardarla a ritroso, la vita appare (certo ingannevolmente) come un film. Dico ingannevolmente, perché la vita è solo apparentemente lineare, in realtà procede in modo, appunto, labirintico o se vuoi discontinuo. Troppe sono le accelerazioni, le deviazioni, i vicoli ciechi, i salti, le svolte che abbiamo dovuto affrontare per non rendersi conto che non c’è un senso univoco nel nostro vivere. Nonostante questo, ti chiedo di accettare per un momento la finzione che la nostra vita sia come un film. Ecco, allora in questo film gioca un ruolo essenziale la colonna sonora, e lo gioca, a mio modo di vedere, perché è nella musica che si depositano i sentimenti allo stato puro, o se non vuoi chiamarli sentimenti, gli stati d’animo. E, bada bene, non si tratta di un depositare per archiviare, ma per ri-prendere, riattualizzare, rivivere. Quando dico che ci sono canzoni che hanno segnato intere fasi della mia vita, non intendo riferirmi unicamente alle esperienze sentimentali, ma alla totalità e direi all’integrità degli stati d’animo che in quella fase costituivano il mio modo di rapprotarmi al mondo. Risentire “il cielo in una stanza”, per esempio, provoca in me una reale attualizzazione della parte di me adolescente, mi rimette in quella disposizione d’animo, mi fa in un certo senso annullare lo spazio e il tempo. Alcune canzoni brasiliane che tu mi hai fatto conoscere, se le risento, mi fanno ridiventare il giovane mezzo complessato e mezzo arrogante che ero ai tempi del nostro rapporto. Si tratta, come avrai capito, del ben noto fenomeno descritto magistralmente da Proust a proposito delle famose “madelaines”, solo che invece delle madelaines c’è la musica. E’ chiaro poi che se una particolare canzone ha connotato non solo un periodo ma anche un rapporto, allora il “viaggio” in quel rapporto quando senti quella canzone diventa istantaneo. Tutto ciò non ha niente a che vedere né con la bellezza delle canzoni che ti hanno segnato né tantomeno dalla maestria o peggio ancora dall’aspetto degli esecutori. Per questo a me dell’aspetto di Dalla non importava niente, come non mi importa niente dell’aspetto materiale di un simbolo, perché quello che contava era il “rimando ad altro” tipico di ogni simbolo. Ma forse su questo argomento ho indugiato fin troppo, e me ne scuso.
    Però in questo momento mi viene a galla un’osservazione, e cioè che anche la musica può essere una strada per prendere coscienza di sé, una via di accesso non solo al nostro passato ma anche al nostro subconscio. Sai che cosa mi sta tornando in mente? non lo indovini? Mi sta tornando in mente il pianoforte. Ti ricordi? Il pianoforte! Ricordi i miei tentativi di imparare a leggere la musica? E tu che mi assecondavi, al punto che ti sei messa a ristudiare lo strumento per farmi sentire meno derelitto. Con la tua solita generosità. Ce l’hai ancora quel pianoforte? Non te ne sarai mica dimenticata? E te lo ricordi qual è stato uno dei tuoi ultimi regali, credo addirittura dopo la fine del nostro rapporto? Te lo ricordi il disco di Juan Manuel Serrat? Ecco, è quello uno dei tuoi ultimi regali. Buffo! Tutto ciò sta emergendo mentre scrivo, prima non mi rendevo neanche conto di quello che era depositato dentro di me… Scusa, mi sono dilungato veramente troppo.
    Vorrei poter parlare di te, di quello che ti è successo e, a quanto pare, ti continua a tratti ancora a succedere. Mi sento un verme, ma non so da che parte cominciare, come se mi trovassi di fronte a una fortezza da espugnare, a un enigma da risolvere. Per molti troppi anni ti ho perso di vista, anche perché sei andata a vivere in Brasile, e quando gli amici mi hanno dopo tanto tempo riportato notizie sul tuo conto, io mi sono sentito come uno che non aveva capito un beato cazzo (scusa il termine). Mi ero da tempo creato una corazza che mi metteva al riparo dagli effetti di notizie come quelle della tua malattia. Mi ero abituato a sopravvivere nella mia cittadella arroccata, fingendo di stare in ascolto del mondo. In realtà mi ero abbondantemente autoanestetizzato per evitare di affrontare sofferenze al di sopra della mia capacità di sopportazione. Ti avevo conosciuto come una persona vitale, generosa, divertente, profonda, sensibile, a volte rompiballe. Non potevo accettare l’idea che fossi diventata psicotica, che è come dire: indecifrabile. Non potevo rassegnarmi all’idea di avere convissuto con una persona che non conoscevo, che apparentemente mi aveva aperto tutta se stessa ma che in realtà mi aveva presentato solo una facciata al di là della quale covavano problemi e bisogni da me non colti. Di colpo, dopo la notizia della malattia, mi eri diventata estranea, ti eri rivelata un enigma, il mio enigma. Intanto avevo messo su famiglia, mi ero sposato, avevamo la nostra Martina, avevo il mio lavoro, mi ero, come si suol dire, sistemato. Calato fino in fondo nella prassi e nei problemi quotidiani, avevo più o meno consapevolemte cancellato il mio passato, ma mi illudevo di averlo cancellato. Ho cercato di recuperarlo intorno alla seconda metà degli anni 80, ti ricordi? Ma di questo, se vuoi, posso parlare in una seconda “puntata”. Solo se vuoi. Come vedi, continuo ad osservare la “fortezza” da fuori, senza neanche fare un tentativo di darle la scalata, per non dire di espugnarla.
    P.S. Per quanto riguarda Anna, non posso dire che stia attraversando il periodo pù felice della sua vita, per fortuna non tanto per motivi di salute (quelli sono superati) quanto per una serie di circostanze che qui sarebbe lungo elencare. Esaattamente un anno fa è morta la sua mamma, e questo, con mia meraviglia, ha determinato un abbattimento che ad un anno di distanza non è stato ancora del tutto superato. Dico con mia meraviglia, perché mia suocera è morta al suo centesimo anno di vita, quindi non ci poteva aspettare che potesse vivere chissà per quanto ancora. A questo aggiungi che uno dei fratelli dà un po’ i numeri, che un altro è un rompiballe ecc,, e puoi apire che i motivi di inquietudine sono diversi. Il rapporto con me… beh, non sarei il più adatto a parlarne, diciamo che procede con alti e bassi, molti bassi e pochi alti, ma comunque procede.

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