31-07-12 ore 16: 10 LA DOMADA DEL MIO TERAPEUTA, IL PROF. GIAN CARLO ZAPPAROLI, QUANDO GIA’ LAVORAVO NEL SUO STUDIO FINITA DA PARECCHI ANNI LA TERAPIA, ERA STATA: “QUALI STRUMENTI DELLA TERAPIA HA USATO PER USCIRE DALLA CRISI?”

 

 

 

Questa e’ la mia risposta di allora che vi porgo senza leggerla, ho invece intra-letto il testo seguente che avevo chiamato “Verifica dell’autoanalisi”:  mi ha stupito per la sua freschezza e anche precisione. Penso di metterlo subito dopo questo: sta a voi saltarlo!

 

 

 

 

Febbraio ‘98

 

 

 

 

I

 

 

 

 

Mi hanno chiesto quali strumenti della terapia avevo usato durante la crisi.

 

Un rapporto terapeutico è una trama complessa, da cui non è facile separare alcuni fili.

La sua storia di dieci anni, la sua evoluzione fino alla conclusione.

 

Anche perché molte delle cose apprese, molte delle piccole modificazioni avvenute, rimangono impalpabili.

 

L’osservatorio di un paziente è forzatamente limitato.

Il suo stato di paziente, qualcuno che chiede aiuto perché non sa trovarlo in se stesso e nell’ambiente in cui vive, lo racchiude in una nicchia.

 

Il tipo di lavoro richiesto, essere – nella relazione – più vicino a dei movimenti inconsci che ad una parte lucida che osserva, registra e ricorda, lo limita.

 

Una buona seduta è sempre una seduta che non si ricorda.

 

 

Ero stata instradata all’analisi fin dalle medie.

L’insegnate, una suora, mi aveva dato l’idea che la verità deve sempre essere cercata, ma che è nascosta nelle profondità del nostro essere come Dio si cela nelle bellezze della natura.

Mi aveva insegnato a fare meditazione e mi aveva abituato a non accontentarmi delle prime risposte che trovavo, quando mi provavo a scrutare in me stessa.

Avevo anche bisogno di avermi in mano e di esercitare la mia volontà, bisognava essere puri di cuore e puri nel corpo, ma capivo che, per fare questo, dovevo essere tranquilla dentro.

Anche se, al ginnasio, mi sono allontanata da questo tipo di educazione, aver imparato ad appellarmi alla volontà di fronte alle difficoltà che incontravo, così come aver appreso a interrogarmi molto presto, mi è servito in seguito durante la lunga malattia.

 

Dare una continuità ordinata alla mia mente sempre in subbuglio e reagire alle situazioni con un atteggiamento attivo, è diventato l’ impegno di tutta la vita. I quaderni erano la mia terapia quotidiana, anche per fare un bilancio del mio comportamento, e questo lavoro è continuato anche dopo aver incontrato il mio primo psicoanalista.

 

Avevo passato dieci anni di terapia in Brasile per acquisire l’idea di madre e di figlia, qualcuno generato da un altro, cui era debitore della vita.

Non generatosi da solo.

 

Avevo imparato a stare con qualcuno in una relazione, ad avere un tu che mi costituisse come io.

 

Avevo acquisito una presenza buona dentro di me con la quale stare e sulla quale appoggiarmi.

 

Costituirmi come figlia di una madre accettante e amorevole, mi aveva permesso di riprendere un rapporto con mia madre che nel frattempo aveva cominciato ad occuparsi di me.

 

 

 

 

Ero stata mandata in Brasile con una diagnosi di simbiosi con mia mamma e mia sorella.

 

La mia analista aveva lavorato all’interno di questo tipo di rapporto senza volerlo eliminare.

Aveva soprattutto cercato di rimettere insieme i pezzi di una me stessa che si era sfasciata nella prima crisi in Italia.

 

 

 

Aveva ridestato il mio io, sempre troppo passivo, e l’avevo disposto a lavorare.

Il suo differenziare costantemente il mio sentire dal suo aveva cominciato a disegnarmi un perimetro nel quale abitare.

 

 

L’ultima crisi sembrava però aver distrutto tutto.

 

Lei non aveva creduto che il supervisore mi avesse baciato.

MI aveva detto che io ero in delirio.

 

Il supervisore era stato suo analizzando e lo stimava moltissimo.

 

Aveva scelto lui invece di me.

Lo stigma mi perseguitava ancora.

 

E questo io non lo avevo tollerato.

Me ne ero voluta andare e tornare in Italia.

 

Qui, avevo cominciato una terapia con la stessa persona che mi aveva fatto una diagnosi e mi aveva mandato in Brasile.

Ero ripartita da zero.

 

Solo dopo molto tempo mi ero accorta che non tutto era andato perduto.

 

L’idea di madre e di figlia si era mantenuta anche perché mia madre mi stava vicina e mi soccorreva come di più non sarebbe stato possibile.

 

Il mio io  si era mosso e rafforzato nel lavoro, aveva dilatato la sua capacità di reggere l’angoscia e lo smarrimento.

 

Questo mi ha permesso di sopportare quattro anni di regressione e di confusione.

Il terapeuta mi aveva lasciata sola.

Sola, in sua compagnia.

La sua frase era : “ Io posso fare tutto per lei meno che cagare”.

 

Questa sua espressione, abbastanza colorita, si era impressa in me in modo indelebile, un’immagine così evidente che aveva funzionato più di tanti discorsi.

 

E’ stata una scuola dura.

Ma ho potuto così star sola durante la crisi.

 

 

Lavorare con una mente che per me era inaccessibile, mi aveva obbligato ad acquisire la nozione di me stessa intera.

Non si lasciava invadere, e non invadeva.

Il mio perimetro si era disegnato più saldo.

 

Questo mi è stato utile verso la fine del delirio quando dovevo separare il mondo da me e riportarlo fuori.

Quel lungo lavoro di discriminazione che avevo dovuto fare era stato possibile perché io avevo un terreno mio nel quale mi riconoscevo.

 

 

L’ultimo anno di terapia avevo fatto autoanalisi sotto la supervisione del terapeuta.

Nell’estate avevo passato tre mesi a fare autoanalisi da sola incidendo dei nastri.

Avevo anche un retroterra che mi facilitava avendo sempre tenuto dei diari dall’età di dodici anni.

 

Questa capacità di osservarsi e modificarsi, che si era andata sviluppandosi a poco a poco, è stato lo strumento che mi ha permesso di capire, anche con chiarezza, che quei pensieri, così certi, così reali, li vedevo nella realtà, mille conferme, erano delirio, malattia.

 

Individuarli come malattia mi ha permesso di rifiutarli, ero io, ma non li volevo.

Combattevo il loro invadermi.

Dovevo emarginarli a poco a poco.

 

 

 

 

 

La mia analista in Brasile mi aveva detto che alla mia nascita molte fate malefiche mi avevano lasciato i loro doni, ma che ero stata salvata da un numero più grande di fate buone.

 

Non potevo mantenere una realizzazione buona per più di tre anni perché poi dovevo distruggerla.

In Brasile avevo uno studio e avevo dovuto chiuderlo.

Anche la storia con il supervisore era stato uno strumento per la mia distruzione.

 

Non ho avuto coscienza di aver lavorato questa mia parte che non tollerava di riuscire nella terapia in Italia.

Il lavoro fatto era subliminale.

 

Ma nella relazione con mia madre la mia parte costruttiva si era enormemente rafforzata.

Mia mamma stava con me ad ogni istante.

Ad ogni istante la sua parte positiva, che era fortissima, mi faceva da modello.

 

 

Nella mia mente legavo l’origine di questa parte distruttiva alla storia del rapporto con mia madre.

Qualcosa era successo quando mi aveva abbandonato a diciotto mesi e negli anni successivi quando non si era più occupata di me.

 

La mia parte costruttiva si era separata da quella distruttiva rendendola così molto più potente.

La suora si era occupata solo della mia parte responsabile, l’altra parte io non la volevo, e l’avevo relegata lontano sullo sfondo della mia mente.

 

 

 

 

 

 

Ma il rapporto con mia madre si era modificato.

 

Il nuovo rapporto era durato più di quindici anni prima che lei morisse.

 

L’avevo assistita minuto per minuto, notte e giorno, nell’ultimo mese di vita.

 

Il rapporto reale, e quest’ultima esperienza, mi avevano permesso di rifare la sua immagine dentro di me.

 

L’avevo perdonata per tutto il passato e mi ero perdonata l’odio che avevo nutrito per lei.

Adesso avevo una presenza buona dentro di me molto salda.

 

Essere madre di una bambina adorabile e adorata, aveva dato una vitalità nuova a questa presenza buona.

Un facile lavoro di restauro guidato dall’amore, una nuova riparazione.

 

 

 

Nella terapia, per emergere dalla regressione mi ero dovuta unificare : avevo bisogno dell’energia anche della parte distruttiva per farlo.

 

Inoltre il terapeuta non mi aveva mai rimandato un’immagine di me come persona distruttiva.

La mia parte nera non gli aveva fatto paura.

 

Non l’aveva mitizzata come era avvenuto in Brasile.

 

La mia analista era keiniana e il tema dell’invidia di me stessa era stato costante.

Questo mi aveva permesso di vederla, di lavorarla, ma separando un unico filo dalla complessità di un intero mondo, l’avevo ingigantita.

 

Il mio analista in Italia sapeva che la distruttività era una energia che si poteva convertire.

Obbligandomi a lavorare da sola, assistita da lui ad ogni passo, mi aveva fatto operare questa conversione.

 

 

 

Avevo una volta o due dovuto assistere all’esplodere della sua distruttività e non ne ero rimasta spaventata.

 

Una volta avevo portato uno scritto molto rabberciato e lui mi aveva detto : “ Cosa crede, che io mangi merda?”

 

L’aggressività esisteva, si poteva usare e non uccideva.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

 

 

 

 

Nella crisi avevo potuto accettare una parte sana che si mobilitava, anche al di là delle sue forze, contro la malattia.
Questa parte era emersa, per me, improvvisamente.

“Lei ha una parte sana e consistente”.

 

L’avevo guardata con felicità, ma anche con terrore, con diffidenza.

Avevo senz’altro più familiarità con la mia parte malata, al punto di conviverci come con un’amica da cui non potevo separarmi.

 

Mi obbligava a liberarmi di troppi cappotti in cui mi ero rannicchiata, troppe fittizie identità che mi proteggevano.

Tanti schemi falsi cui mi ero aggrappata, tanti malintesi in cui mi ero irretita.

 

Mi obbligava a liberarmi dal dolore cui mi ero aggrappata per vivere.

 

Nella crisi dei sedici anni, quando ero crollata dentro, tutte le mie parti buone se ne erano andate.

 

Avevo potuto ricostituirmi, e sopravvivere, rannicchiata nel mio dolore, facendo di questo il perno intorno a cui far ruotare tutta la mia vita.

 

Per potermene liberare, e non volevo, mi ribellavo con tutte le mie forze, avevo dovuto nella terapia costituire un nuovo aggancio, un nuovo perno che prendesse e organizzasse l’infinito fluire del mio mondo interno.

“ Lei ha una parte sana e consistente”.

 

Un’immagine di me sconosciuta che mi obbligava ad accettare delle responsabilità per le quali mi sentivo troppo fragile.

 

Nonostante le continue oscillazioni, il ricadere nel delirio, crederci, questa parte sana si è mantenuta salda.

Potevo appoggiarmici con abbastanza fiducia, forse per necessità, spinta dall’emergenza.

 

Mi offriva una solidità che la parte malata non aveva più.

 

E’ venuta fuori abbastanza consistente.

Non mi ha evitato la pazzia, ma mi ha impedito di distruggere quello che avevo costruito in tanti anni.

Ho mantenuto i legami che avevo, i rapporti sociali.

 

Questo è stato possibile perché sapevo con certezza che l’altra parte era malata.

Era malata e io non la volevo.

Non era più un’alternativa vivibile.

 

Molti schermi in cui mi nascondevo erano caduti, molte responsabilità erano state accettate.

Troppo cammino era stato fatto per tornare indietro.

 

Questo non è stato solo frutto dell’autoanalisi.

Individuare le due parti con chiarezza era stato fondamentale.

 

Ma potermi scindere, separarmi dalla malattia e combatterla è stata una forza, una decisione di tutta la mia mente, inconscia e conscia.

 

Ho dovuto spaccare un sistema chiuso che tratteneva, assimilava il buono e il nocivo, perché non poteva perdere nulla.

Espellere era l’ equivalente di un fluire ininterrotto fino a sparire.

 

Il mio essere aveva la consistenza di un liquido che scorreva senza potersi raggrumare in una piccola isola.

Ma la mia parte sana aveva formato quest’isola.

 

Se non posso espellere la mia parte malata la ridurrò ad esistere sullo sfondo.

 

La mia mente, sfinita da tanti conflitti, ha trovato l’energia della disperazione, la forza risolutiva della crisi.

 

Si è compattata in se stessa e nei rapporti buoni che avevo con mio marito e mia figlia.

 

Credere in una vita sana è stato più forte.

 

Non offrire una madre completamente distrutta a mia figlia è stata una molla potente.

 

Mio marito non si meritava che ridiventassi un pacchetto.

 

Durante la crisi stava con me continuamente.

Mi aiutava nel prendere le medicine, mi ascoltava parlare in delirio.

 

Mi diceva solo : “ Ma sarà così?”

 

E questo dubbio, avanzato con discrezione, con rispetto, detto dolcemente, si è insinuato in me a poco a poco.

 

Gli chiedevo dove era l’uscita dal labirinto e lui mi diceva : “ Non lo so”.

Questo mi ha fatto capire che spettava solo a me trovare una soluzione.

 

Anche mia sorella e mio cognato non si meritavano questo brutto regalo.

 

 

La violenza con cui la mia amica Donatella mi riportava alla realtà era una scarica elettrica sul mio sistema nervoso.

 

In quell’attimo la vedevo.

Anche se poi tornavo al delirio.

 

Brevi illuminazioni che lavoravano come un tarlo.

 

E intanto la mia amica stava con me, mi faceva compagnia, mi assisteva senza alcun spavento della mia parte pazza.

L’accoglieva per eliminarla.

Ma intanto l’accoglieva.

 

 

Uscire dalla crisi era stato un lavoro di gruppo.

Un gruppo che si era costituito spontaneamente quando il mio analista era andato in ferie.

 

Era una rete di affetti, priva di ansia, in cui potevo esistere.

Questo habitat sereno, privo di conflitti, accettante e impegnato a lavorare con me, è stato decisivo.

 

 

 

 

III

 

 

 

 

Altrettanto decisiva è stata la fiducia che sentivo per il terapeuta e la fiducia che lui aveva in me.

 

Il bisogno di fargli un dono ha prevalso sul bisogno di restituirgli malamente quello che mi aveva donato, farglielo ringoiare.

 

Questa è stata forse la molla più forte per vincere il bisogno di distruggere.

 

Bisogna dire che questa fiducia se l’era regalmente conquistata, non potrei usare altri termini.

 

Con lui ho dovuto rivivere tanti anni, tutta la mia vita, tanti anni di incomprensione che avevano formato un tunnel buio dal quale non potevo uscire.

 

La certezza di non poter essere capita davvero, si era andata gradualmente trasformando in una fiducia che mi sembrava ancora assurda.

 

Per questa fiducia ho accettato una parte sana e consistente senza vederla.

E’ venuta fuori nella crisi e l’ho vista.

 

La sua insistenza sul dolore e, in contrapposizione, sulla primavera, mi avevano permesso di intravedere dei germogli, piccoli, di un verde tenero, belli.

 

Lasciarmi sola in regressione, mentre annaspavo confusa, sola, ma insieme, aveva dilatato la capacità di sopportare l’angoscia, il panico.

 

Questa è una delle cose più difficili da apprendere, ci sono voluti anni, ma è una risorsa senza prezzo.

 

Credo di averla potuta acquisire perché, se chiedevo, se avevo bisogno, il terapeuta era lì, accogliente.

 

Ma era capace di lasciarmi sola, anche se vedeva che soffrivo disperata, dibattendomi come qualcuno che sta per naufragare.

 

 

Aver imparato che io esistevo, e che nessuno poteva esserci al mio posto, mi ha permesso di assumere la malattia come mia.

 

Ho potuto mobilitarmi per chiedere gli aiuti necessari, al terapeuta e allo psichiatria… io l’avevo fatto, spontaneamente e senza l’appoggio di nessuno.

 

Ero riuscita a non scaricare il mio malessere sulla famiglia.

 

In questo modo ho evitato quelle laceranti complicazioni che vengono dall’eccessivo coinvolgimento dei familiari.

 

Anche mia sorella non aveva interferito.

 

 

Ho vissuto la crisi un po’ isolata, isolamento di cui avevo bisogno, e in un ambiente familiare affettuoso, disponibile, ma relativamente sereno e normale.

 

Ero stata capace di chiedere un aiuto al terapeuta durante il delirio.

 

In genere non mi è difficile chiedere aiuto, ma durante una crisi ho sempre mal tollerato l’intervento dello psichiatra e delle medicine.

Forse per come è avvenuta la mia prima internazione.

 

E anche con l’analista, nelle precedenti crisi, mi ero trovata in difficoltà.

 

C’era in me come l’idea che uno specialista o fa star peggio, o non fa nulla se non compagnia.

 

Più forte è però il bisogno di tenersi appartato, non rivelare ad un altro, un normale, la nostra mente in delirio.

 

Una brutta vergogna, una diagnosi, da me, sempre vissuta come un giudizio divino: “ Separatela dalla comunità perché peggio che appestata”.

 

Un giudizio che prima di tutto era mio.

 

Pur avendo vissuto più di vent’anni di malattia, senza contare gli interminabili “esaurimenti nervosi” precedenti, non avevo mai avuto il coraggio di obiettivare questa parte malata, separarla da me e mettermela davanti:

“Quella è mia”.

 

Tanti anni di accettazione – e non accettazione in alcune cose – il terapeuta non aveva lo stampino del “sì” a tutto – mi hanno permesso di lasciargli osservare la mia mente in delirio e riceverne un saldo rinforzo per la mia parte sana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

 

 

 

 

 

Quando sono andata via da Milano, e il terapeuta è andato in ferie, mi ha comunicato implicitamente che potevo farcela anche senza di lui.

 

Ed è proprio per questa fiducia che ho potuto farcela.

 

In quel momento non ho pensato che aveva certamente fatto una diagnosi, che la sua era una fiducia calcolata, propria di chi sa fare previsioni.

 

Avevo bisogno di una fiducia emotiva e come tale l’ho usata.

 

 

 

Nella terapia, la sua fiducia in me, di potermi tirar fuori dalla malattia, è emersa  a tappe, come se, a tappe, rivedesse la diagnosi e modificasse la previsione.

 

Questa sua fiducia me l’ero conquistata lavorando duramente ( un lager, gli dicevo).

 

Tutte le cose che mi proponeva di fare, mi sembravano impossibili.

Ma poi ci riuscivo.

 

Forse, anche nel delirio, sapevo, in qualche angolo riposto, che se questa fiducia “mi chiedeva” di farcela, era perché potevo.

 

 

Gli anni passati in un’ amorfa regressione, uno stato nebuloso, fatto di angoscia e di incapacità, mi avevano convinto che così non potevo continuare.

Dovevo uscirne, anche se dovevo affrontare il rischio della pazzia.

 

Ma avevo imparato a sopportare uno stato di frustrazione totale di cui non vedevo la fine.

Sopportare un’indicibile sofferenza, e non sapere, mi è servito nella crisi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V

 

 

 

 

Dalle precedenti crisi avevo acquisito un solido realismo, quell’idea che, con tutta l’importanza che si vuole dare al mondo interno, quello esterno è una pietra, e se vogliamo andarci contro ci sfracelliamo.

 

In me la realtà interna ha sempre avuto più forza di quella esterna.

Se fosse completamente vero, non sarei viva.

 

Ma c’era comunque in me una forza che mi ovattava, mi nascondeva la realtà.

Un istinto di sopravvivenza sempre un po’ addormentato.

 

Ma nelle crisi mi svegliavo e lottavo per sopravvivere.

 

Il lasciarmi in depressione, annaspando angosciosamente, finché l’ha ritenuto necessario, e senza farmaci, ha funzionato come l’acquisizione di un mondo esterno più forte di me e, insieme, ha diminuito l’onnipotenza.

 

Quando è sopraggiunta la crisi, ho capito che il pericolo era reale e che dovevo chiedere aiuto.

 

Sapere che le realtà in cui ero inserita erano più forti del delirio, mi ha permesso di tenere aperte due piste, due linguaggi.

Non ho dimenticato il significato comune delle parole.

 

L’acquisizione di una pazzia privata mi ha permesso di sapere dove potevo delirare e dove no.

 

 

Durante la terapia, per il modo in cui il terapeuta ha ritenuto di lavorare con me, sono stata lasciata molto con i miei stracci, finché a poco a poco, ho potuto metterli insieme e riconoscere che quella ero io.

 

Ma il terapeuta, escluso alcune eccezioni, non ha mai agito al mio posto.

Questo accanto ad una grande capacità di farmi sentire che eravamo “insieme”.

 

Lo spingermi a cercare gratificazioni fuori, mi ha portato a muovermi nella realtà, a capire meglio come funziona, e come funzionano i rapporti.

 

Fino a poter trasformare la mia immagine in casa, da malata handicappata, ad una persona che poteva assumersi la responsabilità di una famiglia e di una eredità.

 

Per questa nuova immagine acquisita non sono stata oggetto di interferenze e di protezioni eccessive.

 

Ho potuto delirare e lottare contro il delirio liberamente, mossa appena da percorsi interni.

 

La colpa, in qualche modo che non so, si era attenuata nella terapia e si è decisamente abbassata alla fine della crisi quando mi sono resa conto che il bisogno di preservare aveva prevalso sul desiderio di distruggere.

 

Una colpa inconscia che mi veniva dai miei rapporti familiari e anche dall’essere nata sbagliata.

 

Ricordo di aver parlato poco di colpa nella terapia, forse è stata lavorata a poco a poco, non giudicandomi mai e accettandomi in tutte le forme in cui potevo lavorare.

L’ultimo anno avevo portato degli scritti.

 

A poco a poco un’immagine del terapeuta, protettiva e benevolente, si è affiancata al giudice terribile che avevo dentro io.

 

Senza questa immagine del terapeuta che, durante la crisi, sono diventata io, io ero la mia “guardia del corpo”, io volevo tutelare quanto avevamo costruito insieme, non avrebbero potuto prevalere le forze che volevano vivere.

 

Non avrei potuto superare quella spinta che c’era in me di terremotarsi di nuovo.

 

 

 

 

 

 

VI

 

 

 

Il marchio di essere sbagliata, mi dibattevo, volevo essere come i sani, si è trasformato, alla fine della crisi, in un giudizio sereno.

 

Avevo una parte malata con cui avrei dovuto fare sempre i conti, ma avevo anche una parte sana decisa a identificarla e a combattere la sua invasione.

 

Nella terapia era stata lavorata a lungo la mia attitudine simbiotica con la vita, il mio aspettarmi che una soluzione venisse dal di fuori.

Il non poter camminare senza una stampella o usare la testa come mia. Un territorio proprio da difendere dalle invasioni, anche quando le invasioni – il delirio – siamo noi stessi.

 

 

Il terapeuta non mi ha mai offerto stampelle, se non in casi eccezionali.

 

Osservare una mente che lavorava con me senza invadermi, mi ha fatto capire che nella mia mente c’ero solo io e che un altro non poteva gestirla al mio posto, qualunque altro, perché io sola potevo sapere di che cosa avevo davvero bisogno.

 

Questo ha comportato imparare a pensare, a superare l’emozione catastrofica dell’abbandono, e abbandono poteva essere una piccola cosa, non essere capita in quel preciso momento.

 

Non essere accolta tutte le volte che ne sentivo il bisogno – mi riferisco più a fuori che alla terapia – mi ha insegnato ad usare dati di realtà.

 

Ho capito che le persone vanno e vengono, accolgono e non accolgono, sono con noi e, dopo un momento, possono non esserci più.

 

Ho potuto vedere che ci sono delle costanti nella realtà, che questa ha una stabilità anche nel suo fluire.

 

E questa possibilità di una costanza si è comunicata a me.

 

Solo a partire da questa acquisizione ho potuto immaginare il futuro.

VII

 

 

 

 

 

All’inizio del delirio la capacità di pensare si è mantenuta buona, ho potuto identificare che quello era delirio; in seguito si è mantenuta sola la capacità di discriminare gli ambienti dove potevo manifestare il delirio e dove no.

 

Delirare proprio lo facevo solo in compagnia degli invisibili apparecchi che pensavo mi stessero registrando e che mi facevano da culla, da struttura portante.

 

Verso la fine del delirio la capacità di differenziare il mondo esterno da quello che era solo nella mia testa è stata importantissima.

 

 

 

La crisi ha accelerato un lungo lavoro, iniziato in terapia, sull’immagine di me stessa.

 

Durante l’ultimo anno di terapia, da un insieme di ritagli contrastanti sono emerse alcune costanti.

 

Per poter lottare contro la malattia, questa immagine ha dovuto farsi più coesa e più definita nella sua realtà di malata–sana.

 

 

Questo ha significato, alla fine della crisi, l’acquisizione di un’identità più solida e l’acquisizione di un futuro.

Un’immagine più stabile si può proiettare nel futuro senza che si faccia a pezzi.

 

 

Quella nozione di gradualità, così faticosamente appresa nella terapia, in modo del tutto inconscio, sta cominciando ad affiorare al mio mondo cosciente.

Questo mi dà più sicurezza e più calma per affrontare i problemi che ancora mi rimangono.

 

 

 

 

Mi viene da chiedermi, a volte, se i segni premonitori della mania sono uguali per tutti.

Quelli della depressione credo di sì, ho parlato con molte persone che soffrivano di depressione, senza essere necessariamente psicotici, e tutti accusavano un rallentamento dei movimenti e dei pensieri, una fatica straordinaria a fare le cose, quasi fossero rimasti senza energia vitale, un depauperamento della propria immagine così da rendere quasi impossibile guardarsi allo specchio, una visione cupa della vita come una nube nera fosse evaporata dalla loro mente per spandersi sul mondo e su tutti gli esseri viventi.

Ma non so se c’è una così grande somiglianza tra le persone anche per  le prime avvisaglie della mania.

In me questi segni si sono mantenuti costanti in tutte le crisi, non so se è così anche per te : la prima cosa che mi salta è il sonno, comincio a svegliarmi varie volte, a dover andare in giro per la casa e faccio fatica a riaddormentarmi.

Se in questi intervalli, come avveniva nelle prime crisi, mi lascio andare a finire un lavoro, sono perduta, perché non mi riaddormento più e do avvio ad un circolo perverso che si rigenera e si moltiplica da solo, alla fine del quale non dormo più per niente.

Può succedere, a volte, che per stanchezza fisica eccessiva, abbia un crollo durante il quale mi appisolo una mezz’ora, svegliandomi sempre agitatissima come se in quel breve sonno ristoratore si fosse generato un eccesso di energie.

 

Adesso non è più così : il sonno è l’aspetto della malattia su cui punto tutti i riflettori possibili e al primo disturbo corro dallo psichiatra.

Non è stato per niente facile imparare a fare così.

Nei primi tempi della malattia, ero ancora giovane, con pochi anni di psicoanalisi alla spalle, ero molto infantile… credevo che vivere intensamente fosse l’unico modo di vivere veramente, sai quella storia di un giorno da leone piuttosto che cento da pecora…chi ha la nostra malattia ha il temperamento dell’eterno “bohémien”, l’ordine ci dà fastidio, per noi l’ordine e la costanza, il senso di organizzazione, sono segni di morte, invochiamo il caos come generatore di vitalità e creatività e, magari, creatività non ne abbiamo per niente. E poi la creatività non può nascere dal caos.

 

L’altro segno che appare dopo che il sonno è turbato è il bisogno di mangiare senza avere fame.

So che per altre persone avviene il contrario, non possono più mangiare, comunque, accanto alla sregolazione del sonno, avviene una alterazione del nostro ritmo alimentare, forse un unico disturbo del nostro sistema neurovegetativo, se si dice così.

Nel mio caso, il bisogno di mangiare si origina dal bisogno di mordere, forse morsico il cibo non potendo mordere l’ambiente e le persone che hanno contribuito alla stato di stress da cui si origina la malattia.

Questo secondo segnale è già accompagnato da un’energia oscura che mi circola nel sangue, prima a tratti, poi fin dal mattino, un’energia che mi fa male e che mi procura un caratteristico dolore alla testa, anche se, abitualmente non soffro di mal di testa. Questa energia vuole essere spesa e se tu l’accompagni in questa spinta, se ne genera sempre di più.

Quello che ho imparato a fare, con gli anni, con tanti anni, è contrastare questo suo bisogno di moltiplicarsi e di rigenerarsi da sola : mi dò un break e mi fermo, mi obbligo a non fare, a cancellare tutte le innumerevoli cose che dovrei fare che in quei momenti mi assalgono tutte insieme affannandomi, rifiuto anche di leggere e di studiare.

Esco, faccio delle passeggiate, guardo le vetrine dei negozi, mi svago, passo parecchie ore distesa a letto, con gli occhi chiusi, faccio il training autogeno.

E soprattutto chiedo aiuto alle persone che mi vogliono bene, spiego loro che si tratta di un’emergenza, che per un po’ devono mettere da parte i loro egoismi, non solo perché so che mi vogliono bene, ma anche perché se arriva una crisi in piena regola, anche loro finiscono per stare molto male perché tutto l’ambiente affettivo della casa si altera violentemente.

Sono una persona fortunata perché ho sempre vicino delle persone che si dispongono ad aiutarmi senza farmelo pesare.

Dopo aver chiamato lo psichiatra ricorro al terapeuta perché solo lui può capire quei movimenti della mente, decifrarli per me.

 

 

 

 

 

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