31-07-2012 ore 16:21 A me, davvero, non sembra male, io non sono attenta alla scrittura, ma certo ad un insieme che veicola un contenuto per me molto difficile da passare ad altro. Chi se la sente, auguri!, è lungo ma molto spaziato, ma del resto un’autoanalisi di anni, come fai a metterla in un telegramma? Se qualcuno riuscirà ad affrontare lo sforzo di leggere, mi dirà se comunica qualcosa della mia esperienza. Se, ancor più, dice qualcosa alla sua, anche umanamente, senza bisogno di essere stati malati. Se no, pazienza: mi sparo! buona serata, io parto per Bordighera la bella!

 

 

 

 

luglio 1998

 

Verifica dell’autoanalisi

 

 

I

 

 

 

Al termine di questo lungo periodo di lavoro, quello che avevo ottenuto erano più che altro delle aperture.

 

Un grosso anello della stufa di mia nonna era saltato.

 

Quegli schemi che rendono il nostro sguardo sempre così circoscritto, un cerchio di ferro che ci stringe e ci rende limitati, continuamente ciechi per tutto quello che non vogliamo vedere.

 

E’ una forma di pensiero che assolutizza invece di formare legami e interdipendenze tra elementi che sembrano opposti.

 

Una messa a fuoco statica che impedisce di guardare le cose in tutta la loro complessità e nel loro modificarsi in un processo.

 

Come quando uno si guarda un vestito allo specchio, non può mai vederlo da tutti i lati e, soprattutto, non si vede in movimento.

 

 

 

La mia testa, da un tutto pieno era diventata mezza piena e mezza vuota, povertà, tensione a quello che non le assomigliava.

 

Forse ero uscita un po’ dal tunnel dell’egocentrismo perché ora mi sembrava di vedere ed accettare gli altri nella loro diversità anche quando mi si opponevano.

 

Scoprivo di avere fame di questo loro essere così lontano dal mio.

 

Ma c’era una lunga strada da percorrere, un tessuto di esperienze da  acquisire, una cultura da riformulare, il bisogno di stabilire connessioni in un universo che avevo vissuto irrelato.

 

Era semplice pensare il giorno e la notte come un intero, più difficile era estendere questo modello a tutto quello che conoscevo.

 

Quello che avevo imparato non mi aiutava.

Tutto era diviso in blocchi, ciascuno con leggi proprie e opposte.

 

Ma senza vagare nella cultura, avevo sperimentato sulla mia pelle la divisione tra mente e corpo.

 

In Brasile, la mia analista si rifiutava di parlare con lo psichiatra, nonostante le mie ripetute richieste di una loro collaborazione, probabilmente per non contaminarsi.

 

Mi ero rassegnata a fare io da tramite tra loro, senza però vederne alcun vantaggio.

Che mi sentissi una e indivisibile non aveva alcuna importanza.

 

Anche prendere le medicine era visto come un’incapacità a metabolizzare i conflitti psichici, un buco che avevo nella mente, una zona cieca.

 

 

Adesso non potevo più vivere così e anche il mondo intorno a me era cambiato.

E mi disponevo con energia a cambiare anch’io.

 

 

Il progetto era molto bello, addirittura esaltante, ma farlo era un’altra cosa.

 

Già immaginavo di avere davanti un cammino senza fine…

 

Davanti ad un comportamento che mi rifiutavo di capire, e questo succedeva spesso, per il quale avevo già gli schemi pronti che me l’avrebbero fatto inquadrare e magari rigettare, dovevo fermarmi.

 

Guardare quelle due o tre coordinate rabberciate che avevo in testa ed esaminarle bene.

Immaginare altri significati non immediatamente percepibili, ingoiare tutta quella zona d’ombra nella quale a fatica vedevo delinearsi delle nuove figure di senso.

 

Non tutto poteva essere accolto, questo mi era chiaro, mi chiedevo solo di esaminare bene gli strumenti che mi permettevano di formare un giudizio.

 

Il dubbio di non vedere bene, di avere uno sguardo sempre troppo ristretto, mi sembrava già importante.

 

Nelle questioni più ampie, la coscienza della mia ignoranza mi aiutava.

 

 

Più difficile era accompagnare le emozioni di questo esercizio.

 

Il bisogno dell’identico, qualcuno o qualcosa con cui fondersi, è connaturato alla nostra natura e al nostro egocentrismo.

 

Tutto quello che è consono a noi, ci rafforza, il diverso e l’opposto ci rendono incerti, vacillanti.

 

La mia parte granitica aveva cominciato a frantumarsi, ma ancora resisteva.

E, per lei, esisteva un’unica verità, la sua.

 

Ma quel mondo intravisto, quell’aria più ricca che avevo respirato, adesso, mi era necessaria.

Come quando ci si abitua ad abitare in un grande spazio, poi, nel piccolo, si soffre di claustrofobia.

 

Mi obbligava, però, ad un gigantesco adattamento, non solo mentale ed emotivo, ma del comportamento.

 

Tanti gesti, tante espressioni, tanti toni di voce dovevano cadere.

 

Sentivo uscire dalla mia bocca un diverso linguaggio, fatto di “mi pare”

“ per quel poco che vedo” “ magari mi sbaglio”…

 

Ero diventata timida, anche se non lo ero mai stata.

 

Osservavo tante persone che sembravano essere nate con questo tipo di mente, ma vedevo anche che tutti mantenevano un’area che si rifiutavano di mettere in discussione.

La passionalità lasciava sempre un cortile incontaminato.

 

Mi chiedevo qual era il mio senza poterlo scoprire.

 

Vedevo anche che per molti era solo un esercizio di buona educazione.

 

 

 

II

 

 

Adesso, mi dicevo, dovevo mettere insieme i piedi con la testa, il mio intestino col cervello.

 

Era il mio modo di dirmi che dovevo imparare a stabilire delle relazioni.

 

Abbastanza improvvisamente avevo cominciato a guardare gli esseri umani come tanti animali che si affacendavano nel loro habitat cittadino.

 

Anche se sapevo che la loro mente si era evoluta.

 

Questo sguardo mi aveva liberato dal mito dell’uomo fatto ad immagine di Dio, ed era stata un vero sollievo.

 

Tanto male che avevo visto nella storia recente, e nel presente, contro il quale mi rivoltavo, e su cui mi ero accanita senza riuscire a capire, diventava ora più comprensibile.

 

Un cervello che si era evoluto per creare cose meravigliose ed aberrazioni tremende di cui gli animali erano incapaci.

 

L’Universo mi appariva come uno sconfinato organismo che mi lasciava palpitare insieme alle stelle.

 

Un’amica mi aveva raccontato che anche le piante impazziscono quando qualcosa impedisce lo scorrere naturale della linfa.

 

Scoprivo una nuova amicizia che mi guidava verso le cose del mondo.

 

Andavo avanti con difficoltà, ma l’avventura mi attraeva.

 

Spiegavo la facilità che avevo di essere buona e generosa come una reazione ad una forza contraria che era in me e che mi avrebbe guidato da tutt’altra parte.

 

Doveva essere una spinta molto violenta se mi aveva portato ad una reazione che non mi lasciava provare nessuna cattiveria.

 

Cercavo di immaginare questo male in me anche se non lo vedevo.

 

Guardavo interessata le piccole cattiverie, quelli che avevo considerato interessi meschini, le invidie, anche le piccole crudeltà, e sentivo che mi appartenevano, anche se da tempo erano sotterrate.

 

Non mi sentivo più una diversa, anche se non avevo ancora il coraggio di provare invidia, di sentirmi meschina, cattiva.

 

Non era però della cattiveria che avevo bisogno, ma della debolezza.

 

Non avevo mai potuto sentire quella cordialità così umana verso le persone deboli e se adesso imparavo a sentirla era perché la vedevo in persone amate.

 

Mi ero sempre trincerata dietro la forza con cui combattevo la malattia, tagliando gli infiniti momenti di fragilità e di confusione.

 

Dovevo far così per non soccombere, un’immagine idealizzata mi aveva sostenuto, ma adesso non ne avevo più bisogno e tutta la mia forza mi appariva come una minuscola rete in un mare di cedimenti.

 

 

Da tempo sapevo che il mio altruismo era una forma di egoismo, mi identificavo molto facilmente nelle persone e in loro soccorrevo me stessa.

 

 

Ero anche avida di conoscenza e il mondo degli altri mi forniva questa opportunità.

 

Avevo però imparato a stare nella periferia, in attesa, e, se mi chiedevano di varcare la soglia, lo facevo in punta di piedi mostrando bene la parzialità del mio punto di vista.

 

Mi ero così liberata di una missione che mi veniva dall’educazione cattolica, che era anche un modo di non apprendere a stare nei propri confini.

Una specie di bisogno di travasare, proprio di chi non ha pelle.

 

Scoprivo che occuparmi degli altri, era stato anche un modo di dimenticare me stessa.

Quella me stessa sempre così pesante da sopportare.

 

I doveri che avevo verso di me erano sempre stati lasciati per ultimi e, per lo più, trascurati per mancanza di fiato.

 

Adesso emergevano in primo piano e ponevano dei limiti alla mia disponibilità.

 

Mi sentivo finalmente una persona a tutti gli effetti, che aveva diritti oltre che doveri, e questa percezione mi rendeva felice oltre che più sicura.

 

Era stato questo lavoro a darmi uno spazio mio, anche se non riuscivo a spiegarmi bene la nuova immagine acquisita.

Ero più compatta, mi dicevo, il mio perimetro si era rafforzato.

 

Ma non era solo questo, era la mia messa a fuoco sull’universo che era cambiata.

Un po’ oscuramente, mi dicevo che avevo fatto presa.

Forse stavo scoprendo l’appartenenza al mondo.

 

 

 

III

 

 

Quando mi ero, più o meno, composta, in un dialogo con l’essere di M., di D., di M., di mia sorella e mio cognato, è arrivata la violenza dello scontro con mia figlia adolescente.

 

La sua diversità mi si imponeva con odio e mi obbligava a retrocedere.

 

Ero sbagliata dalla testa ai piedi, tutto quello che ero suscitava opposizione e rivolta.

 

Per due anni ho subito un vero e proprio lavaggio del cervello, ormai nella cucina di mia nonna non rimaneva neanche la stufa, altro che anelli…

 

Mi sembrava di essere diventata sottile come un foglio di carta che si poteva stampare su una parete.

 

Il figlio di un’amica molto amata era morto nella galleria della metropolitana in circostanze non verificabili.

Aveva l’età di mia figlia.

 

Sapevo che da tempo non stava bene, che era in delirio, e questo mi aveva portato ad una identificazione con lui che mi faceva rivivere i suoi ultimi momenti.

 

Questa esperienza mi aveva reso tremula davanti al mondo adolescente, attenta ad omettermi, a sospendere ogni giudizio, bisognosa solo di osservare, anche un po’ da distante, in attesa che il tempo mi permettesse di comprendere.

 

Ricordavo mia mamma che, negli ultimi anni, aveva sofferto di non poter più capire il mondo in cui viveva.

 

Ma, per me, si trattava di una vivenza in casa e con la persona che amavo  più al mondo.

 

La mia sofferenza era uno strazio, non potrei usare un’altra parola.

 

Mi sembrava di non avere più un io né una coscienza morale, una persona senza spessore, senza più un passato utile.

Vivevo come sospesa, senza più terreno.

 

Mi rifugiavo in quell’area comune che avevo costruito con mio marito, adesso eravamo “io e te, tu e me”, come con mia mamma.

 

Anche lui era in crisi, ma non viveva le situazioni con quella radicalità che mi caratterizzava.

Il suo senso di identità era molto forte e lo proteggeva.

 

Questo periodo lo sto ancora vivendo e non so quando né come finirà.

 

Sono aperta a ogni accadere, senza più desideri né ricordi che mi guidino.

 

Se dovessi riassumere il mio stato d’animo, direi che sono “ attenta”.

Amorevolmente attenta.

 

Ci vuole molta energia per fermarsi in questo stato di mente, anche se dall’esterno possiamo apparire addirittura passivi.

 

Potevo sopportarlo perché ora che esistevo così, in punta di piedi, per così dire, mia figlia mi voleva bene.

 

 

 

 

IV

 

 

 

Anche la mia coscienza morale non era molto cambiata in quei due anni, ma qualche passo l’avevo fatto.

 

Ero riuscita a vedere mio padre e mia madre, davanti a me, come avessi fatto la fotografia di un’immagine interna.

 

Avevo capito che passavo il tempo a riprodurli, senza essere in grado di guadagnare un mio spazio.

 

Il mio io si era, però, sviluppato… come un muscolo che acquista volume… non ero più incollata ai piedi di una montagna con la realtà sempre troppo addosso.

 

Quella bambina con il viso perennemente sui vetri di una vetrina di giocattoli, era cresciuta.

 

 

Ero riuscita, nella terapia, a salire fino in cima a quel monte, e finalmente vedevo il paesaggio, sentivo l’aria intorno al mio corpo, e tutto era bellissimo per il solo fatto che lo vedevo.

 

Ma per distanziarmi dalle mie figure genitoriali dovevo darmi tempo.

 

Era soprattutto difficile portare in primo piano l’immagine di mio padre dallo sfondo in cui si era annebbiata.

 

Avevo bisogno di lui, dei suoi valori, ma soprattutto dovevo porlo accanto a mio madre per ridimensionarla.

 

Per fare questo dovevo ricorrere alla figura del terapeuta.

 

Negli anni della terapia, queste due immagini si erano amalgamate, si capiva che ognuna aveva imprestato qualcosa all’altra… il terapeuta aveva acquistato umanità e debolezze, generosità e dolcezza, ma mio padre aveva ricevuto fermezza.

 

Era lui che aveva permesso all’immagine dell’analista di installarsi nel mio mondo interno perché l’aveva reso simile al mio retroterra, era diventato un familiare.

 

Ma il terapeuta aveva fatto decidere mio padre a non lasciarmi più in balia di mia madre, a tagliare il cordone ombelicale.

 

Adesso nella mia mente c’era una figura unica, che si situava al centro del mio essere,  e di cui mi sentivo figlia.

 

Anche il terapeuta aveva confermato questa mia sensazione.

 

Mi ero accorta di avere già da tempo due figure genitoriali in armonia, costituite dalla mia analista in Brasile e dal terapeuta di Milano.

 

Solo che queste erano figure costruite.

 

In quel Natale, in quella tremenda depressione, avevo rivisto la mia storia familiare scoprendo due genitori che mi avevano veramente amato.

 

La disponibilità a darmi dei soldi tutte le volte che li chiedevo, era diventata costante attenzione ai miei bisogni.

 

 

 

Avere una casa dentro è una speranza ed è diverso dall’avere una presenza buona dentro di noi.

 

Una casa è costituita da tanti oggetti che stanno bene tra di loro, che hanno una familiarità.

 

Così la mia casa non era più solo qualcosa che mi ero fabbricata curandomi, ma i miei genitori, mia sorella, la nostra storia vissuta, anche la bella casa in cui ero cresciuta, ne erano parte integrante.

 

 

 

 

 

 

Il terapeuta aveva parlato di risarcimento, ma non ero riuscita a capirlo.

 

Mi sentivo in pace con la mia storia, con quello che avevo ricevuto e con quello che non avevo ricevuto?

 

Non lo sapevo, perché neanche la domanda mi era chiara.

 

Quello che cambiava veramente tutto era che adesso i miei genitori facevano parte della mia casa con tutti gli onori, come i Penati nelle case romane.

 

Erano loro che mi custodivano, che mi avevano regalato un habitat in cui poter vivere.

 

Questo per me significava che tutto era stato perdonato, compresa me stessa.

 

Il risarcimento non annulla il danno, ti aiuta appena a sopportarlo meglio.

 

Riconciliarsi con noi stessi e con gli abitanti della nostra casa, vuol dire avere una famiglia.

 

Un luogo caldo di affetti e di ricordi che ti toglie dalla strada.

 

In strada puoi sempre tornare perché la piazza, gli incontri, sono una dimensione insostituibile.

 

Ma oggi capivo che altrettanto insostituibile era uno spazio privato in cui ri-crearsi, anche se la qualità di questo spazio dovevo ancora scoprirla.

 

Era una sensazione troppo nuova.

 

La mia casa, ancora troppo fragile, era costituita dal volto di tante persone amate e io era tra loro, come in una foto di famiglia.

 

La mia non poteva che essere un’identità corale, una tribù.

 

Immaginavo il mio mondo interno come una tela dai colori sgargianti, come certi tessuti indiani, fatta di fili  che si intrecciano in una trama complessa che non è mai finita.

 

Questo lavoro è la mia passione e un impegno costante, ma rilassato.

Avevo imparato ad accettare tante zone d’ombra e, potevo, adesso, lasciarmi vivere.

 

Questo abbandonarmi mi aveva anche insegnato a ridere… si ride anche per la semplice allegria di vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a 31-07-2012 ore 16:21 A me, davvero, non sembra male, io non sono attenta alla scrittura, ma certo ad un insieme che veicola un contenuto per me molto difficile da passare ad altro. Chi se la sente, auguri!, è lungo ma molto spaziato, ma del resto un’autoanalisi di anni, come fai a metterla in un telegramma? Se qualcuno riuscirà ad affrontare lo sforzo di leggere, mi dirà se comunica qualcosa della mia esperienza. Se, ancor più, dice qualcosa alla sua, anche umanamente, senza bisogno di essere stati malati. Se no, pazienza: mi sparo! buona serata, io parto per Bordighera la bella!

  1. diletta luna scrive:

    due infanzie, la mia e la tua, apparenteme diverse, ma credo che in fondo gioie o sofferenze si trovino in ognuno e differente sia solo il modo in cui le metabolizziamo. Io posso dire sicuramente che amo il periodo della mia infanzia e giovinezza, nonostante…tutto

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