26 DICEMBRE 2013 ORE 23:05 DA NEMO: +++++++ RENZO PIANO SENATORE /// NON PERDETEVELO!

 

I.     REPUBBLICA 20 SETTEMBRE 2013   P.40

 

 

 

LA STORIA
L’architetto ha messo un bando anonimo su Internet Poi ha scelto sei trentenni. “Non raccomandati”
RenzoPiano “Con il mio stipendio da senatore a vita farò lavorare i giovani”
CURZIO MALTESE

Questo è un racconto di Natale della politica. Ci voleva, in fondo a un altro anno di storiacce e scandali. Sembrava impossibile a molti e ancor di più ai sei architetti di trent’anni, tre donne e tre uomini, che da oggi e per un anno potranno lavorare a rendere più belle le periferie grazie allo stipendio da senatore a vita di Renzo Piano. Con tanti cari saluti agli eroi dell’antipolitica a Cinque Stelle che, dopo aver menato vanto di una riduzione dello stipendio del dieci per cento, avevano polemizzato a lungo contro la scelta di «buttare via soldi pubblici per dare un vitalizio ad altri senatori a vita».
Li abbiamo incontrati ieri gli eletti, nello studio dell’architetto a Genova. Avevano le facce di bambini convocati nella fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Ecco l’elenco: Francesco Giuliano Corbia, 29 anni, di Alghero, laurea a Firenze e master a Barcellona in urbanistica; Eloisa Susanna, 32 anni, Cosenza, laureata alla Sapienza e collaborazione nello studio di Massimiliano Fuksas; Michele Bondanelli, 38 anni, Argenta (Ferrara), studi a Venezia e specializzato nel restauro di centri storici; Federica Ravazzi, 29 anni, Alessandria, esperta in progettazione di scuole; Francesco Lorenzi, 29 anni, romano, laureato alla Sapienza, con esperienze in Spagna, Argentina e Polonia; Roberta Pastore, 32 anni, di Salerno, laureata a Napoli e ora impegnata nel nuovo auditorium di Salerno.
Sei magnifici giovani italiani di talento, quasi tutti con la valigia pronta per tornare all’estero, dove hanno già studiato e lavorato. Finché non è arrivato questo strano bando anonimo su Internet «per un progetto sulle carceri», senza la firma di Piano, per evitare troppa pubblicità. «Non mi aspettavo davvero di finire qui oggi», dice Roberta, «era soltanto uno dei cento curriculum che mandi in automatico e in genere rimangono senza risposta». «O ancora peggio – aggiunge Francesco – che ottengono soltanto proposte indecenti di sfruttamento selvaggio per progetti orrendi. Quando una domenica sera ha telefonato lo studio Piano per fissare l’incontro ho pensato come tutti a uno scherzo». Era invece l’occasione che ti cambia la vita e forse anche il futuro di un pezzo di Paese. Perché i lavori dei sei giovani (coordinati da tre tutor, l’ingegnere Maurizio Milan e gli architetti Mario Cucinella e Massimo Alvisi) diventeranno proposte di legge, materiale per interrogazioni parlamentari, magariprogetti concreti per le disastrate periferie di Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova.
L’idea era maturata in Renzo Piano un’ora dopo la telefonata del 30 agosto nella quale il presidente Napolitano gli annunciava la nomina. «Era l’occasione per completare un percorso», dice Piano, «prima la nomina ad ambasciatore dell’Unesco per le periferie, poi la Fondazione, dove ogni anno accogliamo decine di giovani architetti da tutto il mondo. È anche un modo per dare un segnale di controtendenza a una generazione d’italiani ricchi di qualità, ma ormai rassegnati a non vedere riconosciuti i propri meriti. Ormai l’Italia è l’unico paese d’Europa dove i concorsi, quelli veri, non si fanno più. Qui nessuno ha avuto bisognodi conoscere nessuno, di farsi raccomandare, sono stati selezionati fra oltre seicento candidati e quasi tutti con curriculum notevolissimi » .
Il rapporto fra città e periferia è l’argomento della vita perPiano. «Fin dalla nascita, sono nato a Pegli, periferia occidentale di Genova. Da studente sessantottino a Milano andavo rigorosamente in periferia per fare politica e anche per divertirmi, ad ascoltare il jazz al Capolinea, in fondo ai Navigli. E in fondo anche oggi i miei progetti più importanti sono la riqualificazione di ghetti o periferie urbane, dall’università di New York ad Harlem, al nuovo palazzo di giustizia di Parigi nella banlieue ». Senza contare la concorrenza. Nei centri storici italiani hanno lavorato Michelangelo, Bernini, Brunelleschi, Filarete e così via, piuttosto bene. «Appunto, quella bellezza non è merito nostro, ce l’hanno lasciata in eredità. E per fortuna abbiamo smesso di distruggerla negli anniSettanta. Il nostro compito è lasciare a chi viene belle periferie. Le cose da fare sono tante e meravigliose, se soltanto ci fosse la volontà politica. Si potrebbero ridurre in pochi anni i consumi energetici degli edifici del 70-80 per cento, consolidare le 60mila scuole a rischio sparse per l’Italia, rivoluzionare e rendere sostenibile il trasporto pubblico, fecondare le periferie con migliaia di luoghi d’incontro come piazze, mercati, ma anche auditorium, musei, palazzi pubblici. Non è possibile che l’unico luogo d’incontro delle periferie siano i centri commerciali. Sono tutti interventi che creerebbero lavoro, ricchezza, risparmio. E proietterebbero l’Italia all’avanguardia della green economy mondiale».
È un libro dei sogni che da oggi sei giovani architetti italiani proveranno a tradurre in materiale concreto di lavoro per una nuova politica. L’anno prossimo il progetto si rinnoverà con altri sei e così ogni anno. Per questo e molto altro, lunga vita a Renzo Piano.
‘‘

 

 

 

REPUBBLICA   12 MAGGIO 2011

II.   RENZO  PIANO DI CURZIO MALTESE

Di cosa parla il mondo quando parla d’Italia

All’estero l’italiano di cui più si scrive è Renzo Piano e non lo scoppiettante premier

CURZIO MALTESE
Dal nostro inviato
Nessuno come gli italiani capisce che la ventura o la sventura d’essere nati in una terra non significa appartenenza. Ma perché negare la gioia, dopo mesi di bunga bunga e altre vergogne, di vedere un’altra Italia conquistare le copertine dei media stranieri. Un’Italia bella e colta, negata in patria, ma ben presente nell’immaginario del mondo. Qui a Cannes monta l’attesa gravida di curiosità e rispetto per i due film italiani in concorso, Habemus Papam di Nanni Moretti e This must be the place di Paolo Sorrentino. Il più importante festival di cinema del mondo s’inaugura con una serata in onore del genio di Bernardo Bertolucci.
Su Variety campeggia la foto di Roberto Benigni, impegnato nel prossimo film di Woody Allen, Bop Decameron, su un set italiano e in omaggio ai maestri del nostro cinema, Fellini e Monicelli, Visconti e De Sica.
Le Monde tratta la mostra di Arcimboldo a Palazzo Reale a Milano come un evento da non perdere. Alla fine, sulla stampa straniera l’italiano di cui più si scrive è Renzo Piano e non lo scoppiettante premier, ormai affidato ai soli vignettisti.

Basta insomma varcare il fatidico confine di Chiasso o Ventimiglia per vedere rovesciato il rapporto fra Italia visibile e invisibile, dominante e dominata.
Siamo ormai abituati in patria al disprezzo della politica nei confronti della cultura, ai tagli quotidiani accompagnati dalla derisione per gli artisti scrocconi, i ricercatori parassiti, i cineasti mangiapane, gli intellettuali maleodoranti. Ma appena si mette fuori il naso dalle ossessioni nazionali, l’unica Italia che conta è nella cultura, nel cinema, nell’architettura, nel gusto per l’arte e la vita.
Di questo si parla quando si parla d’Italia nel mondo, con l’aggiunta di brevi e sempre più distratti resoconti sul livello di ridicolo e volgarità raggiunto dal teatrino politico.
Non si tratta naturalmente di trovare in un festival del cinema chissà quali consolazioni patriottiche, ma di constatare la forza ipnotica, quasi allucinatoria, dell’autarchia mediatica costruita in questi anni in Italia. Gli stessi due film italiani in concorso ne sono in qualche modo la prova. Sono due film molto diversi nello stile e nel linguaggio, ma con significativi tratti in comune. Per quello che dicono e ancor di più per ciò che non dicono. Non raccontano storie italiane, l’uno di Moretti ambientato in Vaticano e l’altro di Sorrentino fra Irlanda e Stati Uniti. Da parte di due autori che nel film precedente, rispettivamente Il Caimano e Il Divo, avevano indagato nel profondo il potere politico italiano. Come se non vi fosse, in questo, più nulla da comunicare oltre al personale sconforto. Eppure è molto attuale, guardando alle vicende nostrane, il tema centrale dei due film, l’incapacità degli individui di assumersi responsabilità di fronte alla storia, la regressione infantile e spaventata di piccoli uomini investiti dal ruolo di mito. Sono anche due opere ambiziose, con idee forti di sceneggiatura, visivamente molto belle, quasi una rivoluzione rispetto al minimalismo televisivo che ha afflitto per anni il nostro cinema. Poi non è detto che piacciano agli stessi e allo stesso modo. Senza contare che sono in corsa in due e all’estero e questo già sollecita da noi l’eterno clima da Coppi e Bartali, già visto due anni fa intorno alla bella avventura di Gomorra e Il Divo.
Si può invece scommettere che Moretti e Sorrentino verranno accolti dagli applausi di Cannes e dall’attenzione dei media internazionali. Magari più di quanta ne riescano ad attrarre in patria. Come accade ormai per i temi e i personaggi giudicati troppo intelligenti, quindi elitari, per essere ammessi agli onori quotidiani del Barnum televisivo nazionale. Tutta la paccottiglia che qui, beati loro, non intriga e non ferisce e ormai i commentatori liquidano con un toujors la clownerie, la solita pagliacciata.

 

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