21:06 MGP ——– UNA MINI-INTRODUZIONE AI RACCONTI DA RACCOGLIERE PER VOI—E IL PRIMO RACCONTO: “LA FARAONA, ovvero il diritto di mangiare il cuore dell’altro quando è ancora caldo”. MA SCRIVETEMI NEL BENE E NEL MALE: CI TENGO AL VOSTRO GIUDIZIO: E’ PER ME UNA MANIERA DI “MISURARMI CON ME STESSA”—MARIBELLA- MARISTELLA COME VUOLE CHIARA!

 

La scrittura.

 

Mini-introduzione ai racconti da me scritti cento anni fa…+ UNO. Questo: il migliore!

 

 

l’autrice in un bar a Nizza dove ogni tanto risiede—-mariobardelli /photos

 

 


Da tempo desidero riordinare i miei racconti e forse è giunto il momento. Sono racconti brevi, mi piace la storia che non si dilunga a raccontare, che non dice tutto, ma in quel poco nasconde molto.  Nasce da una necessità, da una costrizione, da una mancanza, ma anche da una sovrabbondanza. Prende vita in un luogo stretto e chiuso, in un angolo dove mi siedo per cercare ciò che non si vede. In questo modo si delinea un piccolo progetto che diventa così potente da non poter essere abbandonato.

 

Una gran confusione affolla quel luogo e io devo entrare nel disordine e devo amarlo. Fatti, pensieri e sentimenti si accalcano sparpagliati. Con calma prendo in mano un oggetto alla volta lo guardo e lo riconosco, provo ad avvicinarlo ad altri e trovo che molti hanno simpatia tra loro, altri hanno un punto di incastro o una calamita che li tiene uniti. Ecco la prima trama e poi un’ altra e un’ altra ancora. La bellezza dell’ordine che nasce è grande così quanto era insopportabile lo scompiglio precedente.

Posso ricombinare il mondo in un altro posto, in un altro modo, iniziare e concludere, aprire e chiudere, semplificare. Faccio una capriola e sorrido di fronte ai miei tormenti, anche l’evento più tragico mi sorprende.  Scrivendo scopro che per una volta il mondo è in mano mia.

 

 

 

 

LA FARAONA, ovvero il diritto di mangiare il cuore dell’altro quando è ancora caldo.

 


Arnold-Schönberg-A-Survivor-from-Warsaw-Op.-46.

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Una bella gallina dorata con due cosce piene, il petto sodo, le alette ripiegate ai lati e la testa appoggiata alla spalla in posizione di supplica.

«Ti ho preparato la faraona arrosto» gli disse e si sedette davanti a lui, dall’altra parte del tavolo.

La forchetta continuava a punzecchiare l’animale cercando la parte morbida da trafiggere e proprio nel momento dell’attacco la donna sentì una fitta acuta trapassarle il cuore, un pensiero strano, un brivido e subito strinse le braccia sul petto.

Il coltello affilato nelle carni bianche e neppure un lamento.

Lo guardava mangiare. Si era sempre stupita della sua voracità, di come assaliva il cibo pur rimanendo composto, di come riusciva a dimenticare tutto, con lo sguardo perso nel vuoto della stanza e il piacere goduto per intero dalla punta della forchetta fin dentro la bocca.

Ancora un brivido e un’altra lama dentro il costato.

Eppure non aveva niente a che fare con l’orco, né peli, né denti aguzzi, ma ugualmente quell’uomo portava con sé la paura lontana di una bimba minuta con le gambe secche di Pollicino. Ci era stata molte volte dietro l’armadio per nascondersi da quell’omaccione e poi chiusa dentro il bagno per ore, o nell’angolo del letto a rischio di cadere e sulla sedia in fondo al tavolo, così come ora e lui in mezzo, col respiro di un orso e l’appetito di un leone.

Fissava la coscia completamente ripulita e abbandonata sul piatto. Le sembrava di essere dimagrita improvvisamente, spolpata fino all’osso. Si guardò le gambe, i muscoli, la pelle liscia, si era divorato anche le sue forze così come si accaniva a spolpare quel pollo. Da quanti anni aveva quel pensiero? Si era nascosto dietro un calendario di giorni feriali, neppure uno spiraglio tra una notte e l’altra, da quanto durava? Da sempre, ed ora era chiarissimo non c’erano più ragioni dietro, le giustificazioni si erano scollate dai fatti e rimaneva spoglia l’arroganza del gesto, l’indifferenza, anzi la soddisfazione di vederla così impedita, costretta, incapace di prendere iniziative ormai, di pensare. Era sufficiente per lui non muoversi, non rispondere e lasciarla là, in attesa, perché gli piaceva molto tenerla in sospeso.

La forchetta rovistava nella pancia per recuperare le parti interne imbevute di olio e rosmarino: il fegato, il cuore, il durello; un boccone, un altro, un altro ancora, con la bocca infilata dentro le viscere della sua preda e quella con le gambe per aria senza potergli nemmeno chiedere “mordi adagio” o almeno “solleva la testa ogni tanto”.

 

Dal buco del ventre introdusse il coltello per sezionare definitivamente la carcassa che girata di schiena offriva le costole e le ali piccole e spelacchiate per i voli a bassa quota dal trespolo al ramo, andata e ritorno e lui fuori come un vero visitatore dello zoo.

Sì, con le ali mozzate sarebbe annegata proprio vicino alla riva, mentre lui con la barca le girava intorno e urlava “sali presto che aspetti?” Erano troppo grandi e sempre aperte, bisognava tagliarle, avrebbe risposto, sporgevano dal mio letto. Dal letto del brigante Procuste che ancora si aggira in città.

Teneva fermo il collo inforcato alla base sopra lo sterno e cercava di raddrizzare la testa per poterla staccare dalla colonna con un colpo secco.

«La testa no!» urlò la donna alzandosi di scatto, con le mani ai lati, sulle orecchie. Poi prese a tastarsi la nuca, la fronte, il collo, si guardò le mani, i piedi, si accarezzò le braccia e d’istinto girò la testa indietro per rassicurarsi di non avere penne sparse per il corpo. Tirò un gran sospiro.

 

MGP


 

 

 

 

 

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