ore 10:40 NON SO SE AVRETE VOGLIA E TEMPO DI LEGGERE QUESTO TESTO DI VITTORIO SERENI (DEL 1976) CHE NON CI PARLA DI TRADUZIONE, MA DEL SUO PARTICOLARE RAPPORTO CON RENE’ CHAR : ” Proprio, se volevo continuare a leggere quel poeta che mi indicava territori sconosciuti in un’aria non più asfittica, non c’era che un modo: tradurlo.”

 

 

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Corriere della sera—–PERCORSI

 


Vittorio Sereni: tradurre è un’ispirazione ma al servizio del testo

Sentivo nell’opera di Char un’ampiezza impenetrabile che mi faceva soggezione e al tempo stesso mi sfidava

Il testo qui pubblicato è il discorso che Sereni pronunciò nel 1976 quando gli venne assegnato il premio Monselice per la traduzione. Questo testo viene ora pubblicato nel volume René Char e Vittorio Sereni «Due rive ci vogliono» (Donzelli, pagine 142, € 14, in libreria da mercoledì 12) con una presentazione di Pier Vincenzo Mengaldo, e l’eccellente cura di Elisa Donzelli, sostenuta nel lavoro critico da Barbara Colli. Il libro, raccoglie 47 testi poetici di Char tradotti da Sereni, e rimasti fino a oggi inediti.

 

 

VITTORIO SERENI:


” Tengo a dire subito che non ho da esporre teorie generali sul tradurre e forse nemmeno semplici punti di vista che non siano connessi con l’esperienza diretta compiuta su questo o quel testo. Di sicuro so che tra le traduzioni in cui mi sono impegnato alcune se non tutte hanno corrisposto a precisi momenti della mia esistenza e che questi nel mio ricordo ne hanno appunto il tono e il colore. Il mio lavoro su Char, che ha avuto due tempi distinti, l’uno sui Feuillets d’Hypnos, l’altro sui testi per cui mi viene oggi dato questo riconoscimento che ricorderò con estrema gratitudine verso chi me ne ha ritenuto degno, è decisamente uno di questi casi. Aggiungo che non mi considero uno specialista in René Char, né tanto meno suo unico rappresentante in Italia: basta pensare al volume Poesia e Prosa dovuto in larghissima parte a Giorgio Caproni e solo in parte a me, edito da Feltrinelli nel ’62.

Dicevo che non ho teorie generali da esporre, ma mi piace leggervi due dichiarazioni che riguardano questo tema perché le trovo entrambe appropriate e sicuramente pertinenti al tipo di lavoro.

La prima è di Sergio Solmi: «La traduzione nasce, a contatto col testo straniero, con la forza, l’irresistibilità dell’ispirazione originale. Alla sua nascita presiede qualcosa come un moto di invidia, un rimpianto d’aver perduta l’occasione lirica irritornabile, di averla lasciata a un più fortunato confratello d’altra lingua».

La seconda è di Giovanni Giudici; ed è tolta dall’introduzione a una scelta di versi di Sylvia Plath apparsa di recente col titolo Lady Lazarus e altre poesie: «Non credo molto alla leggenda del traduttore che fa “proprio” il testo tradotto… credo piuttosto alla concreta possibilità del traduttore esperto nell’esercizio della poesia di mettere al servizio del testo la sua esperienza di facitore di versi, il suo essere in grado più di altri di capire quel che succede nella lingua poetica e pertanto di proiettare nella traduzione alcuni caratteri fondamentali del testo originale».

Va detto che le due dichiarazioni riflettono due aspetti diversi o piuttosto due tempi diversi dell’operazione del tradurre: la prima è di natura essenzialmente psicologica, la seconda riguarda già la fase tecnico-operativa. Direi che sono l’una complementare all’altra e che mi sento di condividerle entrambe. A quanto detto da Giudici apporterei un correttivo personale che in qualche modo risale al discorso di Solmi e cioè: non tanto si tratta di «fare proprio», come vuole la leggenda, il testo tradotto quanto di sentirlo proprio, o meglio di pervenire a sentirlo proprio. Esiste insomma, o almeno è esistito nei casi che mi riguardano, un momento ulteriore nel quale non si traduce più, semplicemente, un testo, bensì si traduce l’eco, la ripercussione che quel testo ha avuto in noi. Può darsi benissimo che questo che qui riferisco sia un effetto illusorio, ma so anche che senza questa sorta di infatuazione, senza questa svolta squisitamente soggettiva, tradurre mi sarebbe stato impossibile o mi avrebbe annoiato. Non per niente qualcuno ha parlato a suo tempo, a proposito di tradurre, di una ispirazione di secondo grado…

Parliamo ora di René Char, poeta largamente tradotto un po’ dovunque nel mondo ma non proprio risaputo in Italia.

Vorrei però liberarmi di un possibile malinteso. Capita che uno che scrive versi traduca un poeta e che altri siano portati a cercare chissà quali affinità e corrispondenze tra il tradotto e il traduttore. Più prudente è chiedersi il perché della scelta. A parte quel tanto che va assegnato al caso e a volte persino a circostanze pratiche, debbo riportare il mio perché nei confronti di René Char essenzialmente a due ragioni. La prima è che essendomi stato chiesto in anni ormai lontani di condividere con altri la cura di un volume antologico di Char in Italia, avevo aderito a patto che fossi io a curare la parte dedicata ai Feuillets d’Hypnos, singolarissimo diario poetico della Resistenza francese. Il motivo è chiaro: ero stato prigioniero di guerra negli stessi anni, avevo fatto un’esperienza passiva e dunque mi attraeva l’esperienza opposta, a me ignota, quella del «maquis». In più ravvisavo nei Feuillets certi agganci al concreto che mi sfuggivano invece nella restante produzione di Char.

L’altra ragione è più complessa. Gli anni Cinquanta erano stati per me anni di inattività o piuttosto di aridità. Il brodetto postermetico mi aveva saziato. Dall’altra parte avevo visto non senza malessere crescere e declinare presto insane velleità di poesia «engagée» alimentata dalla moda neorealista, fruttifera in parte nel cinema e già molto meno nella narrativa. Mi ero buttato in tentativi di traduzione da William Carlos Williams e ora mi imbattevo in René Char. Ho scoperto più tardi che Williams amava la poesia di Char e che c’era stato un breve scambio di corrispondenza tra i due. Char al primo contatto mi respingeva. Mi appariva lontanissimo da qualunque idea io avessi della poesia. In sostanza non lo capivo. Il suo insistere aforisticamente sulla definizione del poème, la sua «audace d’être un istant soi-même la forme complie du poème», il suo «bien être d’avoir entrevu scintiller la matière-émotion instantanément reine» bucavano la pagina, mi lasciavano in dubbio come – da sempre – ogni affermazione di sacralità della poesia, oppure come ogni poesia che abbia a oggetto se stessa, cioè la sua origine e il suo sviluppo, il suo stesso farsi. Per altro verso la tensione che avvertivo in lui,l’ampiezza e la foltezza innegabili di un orizzonte poetico per me impenetrabile mi facevano soggezione e al tempo stesso mi sfidavano. Tentavo ogni volta di leggerlo a fondo e ogni volta venivo respinto. Mi riusciva impossibile isolare un’intera poesia e dirmene incondizionatamente preso. Eppure da quel crogiuolo in continua ebollizione di sostanze a me strane che era il tutto Char allora disponibile venivano lampeggiamenti e bagliori: mettiamo, detto della Resistenza, «il tempo dei momenti furenti e dell’amicizia fantastica», oppure – con mia buona pace – della poesia: «di tutte le acque chiare quella che meno si attarda al riflesso dei suoi ponti». Proprio, se volevo continuare a leggere quel poeta che mi indicava territori sconosciuti in un’aria non più asfittica, non c’era che un modo: tradurlo.


Vittorio Sereni e, nella foto piccola, René Char
Vittorio Sereni e, nella foto piccola, René Char 

 

 

Questo caso è abbastanza frequente: un testo a prima vista enigmatico ci è posto davanti, ne conserviamo appena un segmento, una scaglia, ma è questo segmento, questa scaglia, a lavorare occultamente in noi. Un bel giorno l’esperienza individuale lo fa avvampare: una luce retroattiva si estende alla totalità del testo. Non dico sempre, ma con Char questo accade, o meglio è accaduto a me.

I tre libri su cui mi sono impegnato in questi ultimi anni sono L’âge cassantLe Nu perduLa nuit talismanique. Nell’insieme coprono il giro di una decina d’anni. Va aggiunto qualche mio timido approccio verso un gruppo di testi più recenti ora riuniti sotto il titolo di Aromates chasseurs, volume testé apparso da Gallimard. Ho puntato essenzialmente sul Nu perdu e all’interno di questo sulla sezione intitolata Retour amont che per certe ragioni ho preferito rendere in italiano con Ritorno Sopramonte. Di qui il volume a mia cura edito da Mondadori alla fine del ’74. Sopramonte, una parola sola. Il senso di tale titolo è illustrato dall’autore così: «Retour amontnon significa ritorno alle sorgenti… Bensì, salto, ritorno agli elementi non differiti della sorgente e al suo occhio, che sta a monte, cioè al luogo tra tutti il più spoglio».

Un paesaggio illimitato e in buona parte inesplorato mi stava davanti e non potevo che inoltrarmici per gradi. Portato per vecchia inclinazione a cercare oggetti, luoghi e volti prima di ogni altra cosa anche in un libro di versi, ho tentato da principio gli aditi a me più accessibili. Mi sono attaccato anzitutto a un paesaggio fisico, geografico e topografico, lo stesso in cui René Char vive, si muove e lavora: il Vaucluse.

Ma l’intero Nu perdu e particolarmente la sezione del Retour amont è una «via crucis». Preciso subito: una «via crucis» laica, di un laico che non ha smarrito il senso del sacro, che si batte con tutto se stesso per preservarne la traccia. Sta in ciò una delle ragioni per cui la figura di René Char si oppone con particolare risalto al panorama della poesia odierna, la cui ordinaria amministrazione è spartita tra demoralizzazione dissimulata e ostentazione di cinismo.

Raramente ho incontrato, in poesia e fuori di questa, una così eccezionale commistione e complementarità di introversione e estroversione, di generosità e rigore. Il punto più concreto e riconoscibile di questa tensione, che è anche equilibrio precario ma ricorrente, sta in queste parole che Char ha pronunciato in altri tempi: «Possiamo vivere solo sul semiaperto, esattamente sulla linea ermetica di spartizione tra l’ombra e la luce. Ma siamo irresistibilmente proiettati in avanti. A questa propulsione tutta la nostra persona presta aiuto e vertigine». Permettetemi ora di ripercorrere mediante la lettura diretta di alcuni testi tradotti il mio attraversamento del mondo poetico di René Char.

Vittorio Sereni
10 gennaio 2011 (ultima modifica: 13 gennaio 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Il critico – Pier Vincenzo Mengaldo, firma una presentazione al volume di René Char e Vittorio Sereni «Due rive ci vogliono» (Donzelli)

Gli autori e il volume
– Nato a Luino nel 1913, Vittorio Sereni si laurea in Lettere a Milano. Nel 1937 si dedica all’insegnamento. Dopo la Guerra lavora alla Pirelli e alla Mondadori. L’esordio poetico è del 1941 con «Frontiera» (edizioni Corrente), volume poi ampliato. Il successo è del ’65 con «Gli strumenti umani» (Einaudi). Seguiranno anni di silenzio fino all’ultima raccolta «Stella variabile» del 1981 (Garzanti). Sereni, scomparso nel 1983, ha lasciato anche opere critiche e narrative.

– René Char (1907 – 1988) è stato autore di diverse raccolte poetiche, tra le quali Il martello senza padrone (1934) e Fogli di Hypnos (1946), ispirata all’esperienza partigiana nella resistenza francese. La sua opera ha suscitato interesse anche in Paul Celan, che gli dedicò una delle sue poesie più celebri: «Argumentum e silentio».

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