ore 22:39 …chiara : qualche chiacchiera dal suo ” famoso libro che non c’è “—

 

( Al prof. Zapparoli, mio analista in Italia )

 

Gli ho spedito i primi due capitoli del libro per leggerli e lui mi ha chiesto:

 

“Cosa vuol dimostrare?”

 

Risposta pronta:

 

“Voglio mostrare che un paziente può vivere ed elaborare”.

 

“Dimostrato”

 

Io continuo balbettando: ”Se altri pazienti scrivessero, allora forse…”

 

Non ho potuto continuare: di fronte ai poteri forti, io balbetto: sono un paziente, sono stato abituato a subire e ad obbedire, ho paura.

 

Questo mio caro analista mi ha trattato due volte, come si può dire: “decisive” è molto debole, voglio dire, se riesco ad esprimermi, quando nel percorso, nel tragitto di una vita angosciante, fatta di immagini di sé sempre depressive, non dico neanche di sconfitte perché la parola “sconfitta”, di per sé, ha già un tono allegro!, ecco diciamo così perché mi viene più facile: quando il principe nelle fiabe parte alla ricerca di sé e dell’uccello di fuoco da consegnare al re suo padre come testimonianza della sua fedeltà, negando nei fatti quanto hanno spergiurato i fratelli suoi nemici, arriva ad un certo momento, andando nella foresta fitta, ad un bivio mortale: da una parte sta la strada giusta, dall’altra la perdizione per sempre di tutta la sua ricerca.

Si sente giustamente perduto.

Presso la fontana, posta lì al bivio, gli appare una bella fanciulla che gli canta una canzone e gli porge un biglietto.

 

Ecco, in un certo senso, il Professore era questa fanciulla…”In un certo senso” che andrebbe spiegato

.

“Ma ci sarà tempo..ci sarà tempo…”

 

 

 

Mi pare di averne parlato nell’introduzione, ma sempre in quel modo sommesso, accennante, di chi ha paura di distrurbare, come tutti gli psicotici: gli psicotici hanno sempre paura di disturbare il mondo della normalità perché – di fatto – anche “da risanati” sono un gran disturbo per la normalità.

 

Io me ne accorgo ogni giorno: è un po’ come quando escono dal carcere i carcerati per buona condotta e cercano di riinserirsi in un lavoro.

Dopo tanti anni passati nelle patrie galere hanno un’idea del giusto e dell’ingiusto estremamente diversa dai normali, quindi tutto il loro universo è diverso: dovrebbero essere “ascoltati” dai legislatori e in particolare da chi somministra le pene e organizza il significato della vita in carcere, da chi costruisce le carceri, proprio nell’architettura, nell’arredo interno ecc.

 

Ricordo che nella mia prima internazione in Brasile, allora ero giovane, bella e spensierata, insieme al mio compagno, che è architetto, avevamo progettato un ospedale psichiatrico con degli spazi pensati in funzione del malato e della malattia mentale: allora ero in delirio e, nello stesso tempo, lucida, oggi non ne sarei più capace.

 

Forse potrei pensarci, ma questi spazi non sono più necessari perché pensiamo che situare un malato mentale direttamente in uno spazio sano,  “accogliente “

 

sia già una cura.

 

Su questo i dati che posseggo non mi permettono di fornire opinioni. In qualunque internazione (in clinica) sono stata malissimo in modo non raccontabile se non quando la polizia mi ha internato a Parabiago in un vero manicomio perché nel ’75 non erano ancora stati aboliti.

 

Ho vissuto bene la pazzia solo in compagnia di mia mamma che mi ha fatto da mamma più  che da infermiera. Mia mamma aveva già passato gli ottanta e ha avuto il coraggio di tenermi con sé sapendo che per me ogni internazione era una violenza terribile, al di là del sopportabile, anche se poi sopportare si sopporta sempre diventando ogni volta più pacchetto e meno persona.

 

E’ questo che gli psichiatri e gli psicoanalisti che ci prendono in cura dovrebbero sapere: è la malattia “ e il contorno”, diciamo così, l’ambiente, tutto l’ambiente che ci rende non-persone.

Trattarci da persone è già andare contro la malattia e contro l’ambiente che senza volere, “non sapendo” si è alleato con la malattia contro di noi.

 

Tutto è scusato, tutto è perdonato, tutto è stato fatto per “non sapere”:

 

ma lasciatemi dire che dentro ” il pacchetto “;

 

noi c’eravamo

noi vedevamo

registravamo

soffrivamo come bestie

sentivamo la comprensione un diritto!

E dentro ribolliva la ribellione, anche se muta.


A trent’anni sono partita da lì!

 

Ho capito poi di non avere diritti

neanche alla vita.

Che anche questo dovevo guadagnarmelo sul campo

centimetro dopo centimetro:

a me la vita non avrebbe regalato nulla,

neanche un sorriso.

Questo mi è stato chiaro dalla prima crisi:

avevo perso tutto, ma proprio tutto.

 

Si trattava di lottare per il diritto di vivere,

per sconfiggere la morte

con gli occhi sempre balenanti.

L’ultimo ad essere raggiunto,

dopo trenta-quarant’anni

di medicine, di analisi

sarebbe stato il diritto di

essere persona.


Riconosciuta tale dagli altri.

Dai cosiddetti normali.

Che non ti accetteranno mai “se non produci”:

io vorrei “produrre” questo libro

per lottare contro il loro “non sapere”.

Ma chi leggerà?

Chi già sa.

 

 

 

edoardo  bennato –l’isola che non c’è —non me la ricordavo “così trascinante” :  mi sento pronta ad andare verso l’isola che non c’è –proprio come il libro di chiara!

https://www.youtube.com/watch?v=hL8JaSH9EP8

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2 risposte a ore 22:39 …chiara : qualche chiacchiera dal suo ” famoso libro che non c’è “—

  1. Donatella scrive:

    L’isola che non c’è deve diventare l’isola che c’è: devi assolutamente pubblicare il tuo libro, per te e per tutti quanti noi ( dico noi per dire tutti quelli che non hanno potere ).

  2. nemo scrive:

    ‘ … situare un malato mentale direttamente in uno spazio sano, ”accogliente “ sia già una cura.” Chi ha amato e vissuto con un ammalato mentale (come tua mamma, da quel che racconti ) capisce che questa è una verità fondamentale, anche senza avere una conoscenza ‘scientifica’ della psiche.

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