ore 17:03 PROF. ROMOLO ROSSI DI GENOVA — ” EDIPO A COLONO: IL VECCHIO E LA SUA PERDITA ” — secondo chiara è un bel racconto, e come tale ho preferito leggerlo, lasciando da parte certe “definizioni”, o almeno che così appaiono, senza badarci…perché esserne discorde, mi rovinava la storia—” Je prends mon bien où je le trouve” —fosse una minuscola cosa!

 

 

 

LETTURA MAGISTRALE:

” Edipo a Colono: il vecchio e la sua perdita “

3 dicembre, 2012 – 17:39

 

Siccome il discorso riguarda in generale l’anziano, ho preferito impostare le cose in modo da fare una specie di introduzione, visto che è questo è il primo intervento del convegno, sul piano teorico, cercando di capire un po’ quale è il problema generale del funzionamento mentale dell’anziano, e quindi le ricadute psicopatologiche. Per questo è necessario fare alcune premesse, che ci portano apparentemente a qualche distanza dal problema, ma che sono necessarie, inevitabili.

Il concetto di anziano, o se volete di vecchiaia, comporta l’idea della perdita, il concetto di perdita. Perdita della mente e perdita del corpo, due realtà che io qui ho tenute distinte, ma che in realtà sono la stessa cosa. In realtà la perdita è quella del corpo: qualcuno di voi ricorderà una famosa poesia di Anacreonte, che fa una specie di elenco: la mia andatura non è quella di prima, la mia pelle non è quella di prima: fa tutto un elenco fino ad arrivare anche a qualcosa di abbastanza imbarazzante sulla decadenza del corpo. Voi sapete che, ad un certo punto, nell’invecchiare esiste il “coup de vieux”, il colpo di vecchiaia, per cui una persona prima camminava ancora elasticamente, poi non cammina più elasticamente, l’andatura si fa a piccoli passi, qualcosa cambia, il linguaggio non è più quello di prima, la parola diventa abburattata, e voi vi accorgete che la perdita si fa più evidente.

Ma attenzione, c’era già prima. Quindi il problema è quello della perdita. Ma la perdita più complicata, più complessa e, direi, più invalidante è quella che riguarda la mente. A questo proposito è necessario fare una piccola annotazione sul concetto di “coscienza dell’Io”: intanto cos’è la coscienza, cos’è la coscienza dell’Io. La coscienza è una strana attività, molto strana, che consiste in una attività mentale sopra ad una attività mentale: una sorta di attività mentale al quadrato. Qui bisogna che ognuno pensi un attimo a sé, e che rifletta sul fatto che il nostro pensiero è costituito da una base di funzionamento operativo e da un’attività mentale che ci sta sopra e lo osserva, che guarda e dice: adesso stai dicendo questo, adesso stai facendo questo…

E’ per questo poi che il termine di coscienza travalica e diventa sinonimo di coscienza morale; non è di per se una questione di etica, è solo una questione di osservazione sull’attività mentale.

Vedete quindi come la coscienza dell’Io è quella che dà il sentimento di proprietà degli atti di conoscenza, è quella del “cogito ergo sum”, che in qualche modo attribuisce la proprietà degli atti mentali all’individuo come se fosse qualcosa di sdoppiato, come se una altra specie di attività mentale fosse al di sopra dell’attività mentale. Il termine “riflettere” non a caso deriva dall’ottica: riflettere significa tornare indietro, in quanto questa attività mentale rispecchia l’attività mentale che viene vista. Il verbo riflessivo, in termini grammaticali, significa verbo che ha come complemento oggetto se stesso. Ecco che la coscienza dell’Io, come la riflessione, è un’attività mentale al quadrato, sopra un’altra attività mentale, che comporta il ritorno del pensiero e l’esame del pensiero che si sta pensando. E’ una situazione che sul piano teorico è estremamente complicata, una vera e propria situazione di attività mentale al quadrato.

Questa è una cosa ben strana, perché la coscienza dell’Io , questa strana attività, è probabilmente un incidente evolutivo. Esiste nell’uomo, esiste pochissimo in qualche animale superiore: per esempio un po’ di coscienza dell’Io ce l’ha il cane. Attenzione a non confondere la coscienza dell’Io con la memoria, che sono due cose diverse: il cane ricorderà per sempre un calcio nel sedere che gli viene dato, ma se voi lo sgridate la sera perché ha rubato la bistecca al mattino sarà totalmente inutile, e questo lo sanno gli ammaestratori di animali; dovete sgridarlo subito, perché manca la continuità temporale, in altre parole manca la ricostruzione storica del proprio comportamento e della propria attività, manca la coscienza dell’Io. Mentre un bambino o un uomo, se lo sgridate la sera perché ha fatto qualcosa di male al mattino, eccome se sa il perché; può sbagliare, ma certo tende a ricostruire. Quindi un incidente evolutivo, qualcosa di strano, che tra l’altro non è neanche necessario per la conservazione della specie; per esempio le formiche, che non hanno affatto coscienza dell’Io, vivono da molti milioni di anni prima di noi, e molti animali sostituiscono la coscienza dell’Io con altre attività e funzioni specifiche, e gli va benissimo. Per l’uomo c’è invece questa realtà, che è stato sicuramente uno strumento evolutivo: ha fatto sì che l’uomo cominciasse a scrivere la storia, e a dire, per esempio, “vediamo chi era il faraone prima di questo, vediamo cosa è successo prima”. L’uomo ha cominciato a dire: “le persone morte non abbandoniamole lì”, come fanno gli animali, ha cominciato a bruciarle, a pensare che lui c’è ancora o ci sarà ancora, e in altre parole ha creato tutto un sistema e ha portato alle stelle la capacità di adattamento che ha fatto dell’uomo la specie fondamentale sulla terra, rivaleggiando con il topo, che ha invece capacità di adattamento lontane dalla coscienza dell’Io e fondate sulla sua adattabilità genetica e sulla sua velocità riproduttiva. Quindi nell’uomo c’è questa specie di “optional”, un lusso scomodissimo, perché ci informa che dobbiamo morire, ci fa collegare ad esempio l’attività sessuale con la riproduzione, cosa che gli animali non fanno: gli animali non si accoppiano perché avranno i bambini, non se lo sognano nemmeno, non lo sanno neppure. Per l’uomo esiste tutta questa scomodissima realtà, che però, essendo scomoda da un lato, dall’altro ci fa scrivere la storia, scrivere la poesia, ci fa godere di certe cose ecc., ecc. Ma soprattutto ci informa che dobbiamo morire, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Quelli che si interessano di cibernetica direbbero che si tratta di un software di sistema ipertrofico, che comporta una grande estensione, e che naturalmente necessita di un hardware sempre più potente, e quindi dello sviluppo di quel Sistema Nervoso Centrale che conosciamo bene, e che comporta un peso del cervello maggiore rispetto agli altri animali in percentuale.

Tra l’altro la coscienza dell’Io non è nemmeno così antica, è qualcosa che probabilmente si è costituita di recente. J. Janes in “Il crollo della mente bicamerale” sostiene che la coscienza dell’Io è assai recente: sono teorie che lui prende, essendo sia neurofisiologo che psicologo, non dalla neurofisiologia, ma addirittura dai linguisti e dai letterati. Prendiamo per esempio Bruno Steiner, che ha scritto un famoso libro intitolato “La cultura greca”: ebbene lui sostiene che gli antichi non avevano un termine per dire mente, e quando si dice antichi si dice Omero. Poi c’è stato Platone, che è stato il responsabile sciagurato della distinzione corpo-mente, e quindi idee-realtà: è stato proprio Platone che ha costruito la grande malattia della civiltà occidentale. Ma vedete come in realtà questi termini non indicano la mente: psiche nell’Odissea vuol dire il respiro, o l’aria che esce dal corpo della persona quando la lancia la trafigge, e la psiche quindi è il respiro, che vuol dire poi la vita. Noos, da cui deriva il nostro “paranoia”, “noetico”, ecc., non indica la mente ma indica la visione: neomai vuol dire in greco “guardare”. Infatti Omero racconta che Giove dall’alto del monte Ida, con il suo noos poteva vedere tutto dall’alto appunto, con una visione d’assieme.

Quindi avere una visione d’assieme coordinata è un’attività mentale ma che deriva dal vedere, così come il tumos, da cui deriva il nostro “timico”, vuol dire soltanto il principio del movimento: l’uomo, il cadavere, il soma, non ha il movimento, e diventa antropos nel momento in cui ha la possibilità di muoversi. Vedete che non sono termini che vogliono dire mente, tanto è vero che, se voi ricordate la più famosa poesia d’amore di tutti i tempi, che è quella “Davanti a me seduto… ecc.” di Saffo, tradotta in tutte le lingue del mondo a partire da Catullo (“Ille mi par esse deo videtur…”)e andate fino in fondo alla poesia, vi accorgerete di aver goduto di una bellissima poesia d’amore in cui non c’è un accenno alla psiche: “mi ronzano le orecchie, mi batte forte il cuore, mi si arrossa la pelle, ecc,”, vi accorgerete che alla fine parla solo di corpo, ed è venuta fuori una poesia d’amore. E’ vero che il nostro poeta moderno, il povero Quasimodo, che ha cercato di tradurla, non ha potuto fare a meno di finire dicendo “…a me smarrita di mente”, ma se andate a vedere sul testo greco la frase “a me smarrita di mente” non la trovate proprio. Il moderno ha bisogno di questo concetto di mente, che è la coscienza dell’Io, non l’attività operativa, ma l’osservazione che sta al di sopra dell’attività operativa. Così come non c’è coscienza dell’Io nell’Iliade, per esempio, quando ad un certo punto Agamennone porta via Briseide ad Achille. Achille è più forte, farebbe presto a tirar fuori la spada e a trafiggerlo, ma una sorta di coscienza sociale, come forse diremmo oggi, gli dice che non si può ammazzare il capo, bisogna in qualche modo discutere, venire a patti…Ma credete che sia Achille a pensare questo? Non se lo sogna neppure, ha già la spada in mano quando Atena, dall’esterno, lo tira per i capelli e gli dice che non lo può fare. Vedete come la coscienza dell’Io è ancora a quel punto spostata all’esterno, e comincia ad esserci soltanto nell’Odissea, quando Ulisse comincia a parlare del suo caro cuore e dice “caro cuore, non ti arrabbiare”; parla con se stesso e la voce è ancora mezza esterna e mezza interna.

Secondo Janes a quei tempi c’erano l’emisfero destro e l’emisfero sinistro indipendenti: quello sinistro era quello operativo e motorio, quello destro diceva le voci a quello sinistro (gli diceva: fai, non fare, ecc.). Quindi non c’era propriamente una coscienza dell’Io, ma due attività cerebrali che si informavano l’una con l’altra, e oggi ci sono ancora dei residui, allora c’erano le voci, le voci interne, gli oracoli (i Greci erano pieni di oracoli). La mente bicamerale ad un certo punto e per motivi ignoti è crollata, nel II millennio a.c., e i residui di oggi potrebbero essere la Schizofrenia, lo spaltung, la dissociazione, la voce che parla, la voce imperativa e così via.

Ne consegue che l’attività mentale, che è questo optional così lussuoso, così straordinario, e che di fatto consiste in questi elementi così sottili e così strani nella evoluzione, questa specie di incidente darwiniano che è accaduto nell’uomo e che sicuramente lo ha cambiato e lo ha reso diverso dagli altri animali, si basa in realtà su un situazione fragilissima: ecco perché l’invecchiamento mentale dell’uomo è ben diverso dall’invecchiamento mentale degli altri animali della scala zoologica. Gli animali sono praticamente gli stessi fino a tardissima età sul piano mentale mentre l’uomo, avendo a che fare con una struttura così fragile e così complessa ed elaborata, è soggetto a cadute, e basta un minimo che improvvisamente viene perduta questa facoltà riflessiva così delicata. Ne consegue che è inevitabile che andando avanti comincia il deterioramento, e sappiamo tutti che inizia in tempi precoci: sappiamo bene che applicando il Wechsler si deve cominciare a tenere conto del principio di deterioramento dai ventiquattro anni di età, e il deterioramento corretto va dai ventiquattro anni in su. E’ chiaro che quello che si perde sul piano del funzionamento di coscienza dell’Io si riguadagna con l’esperienza, e che c’è poi un equilibrio tale per cui il momento ottimale si raggiunge ad una determinata età; ma in realtà, se voi prendete un matematico, il teorema lo inventa prima dei 25 anni oppure non lo inventa più; se voi prendete un musicista, è sui 20 anni che compare la capacità di elaborare questi elementi numerici che costituiscono la musica, e poi l’esperienza supplisce, per cui la ricerca una persona deve farla dai 20 anni ai 30, poi deve mettersi a scrivere trattati, ma sono due cose totalmente diverse. Naturalmente di fronte a questo c’è un problema: come facciamo noi che ad un certo punto, diventando vecchi, ci accorgiamo che questi elementi sottili vengono perduti e ci accorgiamo che, come ci informa la coscienza dell’Io, procediamo verso la morte, prima le varie perdite, poi l’ultima grande perdita che è la morte? Non possiamo che fare una cosa: negare.

Quindi entra in gioco la negazione, ed è per questo che il titolo della mia relazione era “EDIPO A COLONO”.

L’Edipo a Colono è l’Edipo Re, il quale fa tutti quei disastri che voi sapete bene, e come psichiatri li sapete meglio degli altri: quando Edipo diventa vecchio viene fuori l’altra tragedia di Sofocle, Edipo a Colono. Cosa succede? Succede che Edipo va a finire nel demo attico di Colono, dove Teseo lo riceve e gli dice: “qui sei a posto, non c’è più niente da fare, non c’è più niente da dire, sei felice”. Ed Edipo lì rifiuta tutte le attività politiche e sociali; arrivano i figli, Eteocle e Polinice, e sta per succedere la catastrofe dei sette contro Tebe; arriva Creonte e cercano di fargli fare da mediatore per evitare questo disastro, questa guerra mondiale di allora; arriva la figlia Antigone, che tra un po’ sarà anche lei seppellita viva per la colpa di aver voluto rendere gli onori funebri ad uno dei suoi fratelli uccisi contro la ragione di stato, ma Edipo rifiuta tutto, non vuole più sapere niente, mentre Teseo gli garantisce che li c’è la perfezione. A questo punto nulla è più negativo, lì ci sono boschi meravigliosi, cantano gli uccellini, il cielo è sempre terso, acque limpide sgorgano dai ruscelli, ed Edipo muore, muore felice, ma in mezzo alla negazione. Sofocle ambienta la vicenda a Colono, nella sua città, dove è nato; e non dimentichiamoci che Sofocle fu chiamato in giudizio dai figli che gli intentarono giudizio per incapacità di intendere e volere, e che volevano interdirlo; e Sofocle di fronte ai giudici dice, secondo la tradizione, come recita il brano finale di Edipo, che rifiuta ogni incombenza e chiede se forse è questa la persona che non è in grado di intendere e volere, nella traduzione di oggi del termine, e i giudici gli danno ragione.

E allora che cosa possiamo dire? Che cosa resta da fare al vecchio se non negare e quindi costruire una micromaniacalità? Ma non è forse cosa comune, non sappiamo noi che in tutta la vita la normalità forse è una micromaniacalità, che per essere veramente normali noi dobbiamo negare certe cose che non ci fanno piacere, e certi scacchi che abbiamo, e certi sentimenti di impossibilità, e sostituire alla vera norma, che se dovesse essere vera sarebbe depressiva, una micromaniacalità che ci porta in una normalità tranquilla attraverso negazioni, trionfalismi, eliminazioni di cose sgradevoli e sostituzioni con cose che ci vanno più bene? Questa è forse la norma sempre, ma raggiunge il massimo nella vecchiaia, quando la perdita diventa una realtà che non si può sostenere.

Torniamo un momento a questo delicato problema della mente, che contiene il corpo. La mente è un contenitore del corpo. Noi possiamo dire che la coscienza dell’Io contiene il corpo, omnia mea mecum porto. Noi crediamo di avere delle realtà, dei possedimenti, ma in realtà abbiamo solo la nostra mente che è una grande valigia dentro cui sta il nostro corpo. Quando la nostra mente funziona noi possediamo il nostro corpo: immaginate un momento di stare perfettamente bene sul piano fisico, del corpo, e di avere perso la coscienza dell’Io per uno stato confusionale, e vi accorgerete che non possedete più niente, perché in realtà voi possedete solo ciò che avete in questa grande valigia che è il contenitore, che è la coscienza dell’Io, che tiene dentro il corpo. Se volete una dimostrazione possiamo prendere l’agorafobia come esempio. Se qualche strano terrorista mi portasse via e mi rapisse, bendandomi, mettendomi in un aereo e calandomi in un piccolo paesino del Venezuela, lasciandomi lì nudo, cosa credete che mi possa succedere? Niente, perché nel giro di tre giorni ritorno a casa, perché comincio a dire: “vediamo dove sono, vediamo che lingua parlano”, chiamo una stazione di polizia, insomma perché la mia mente contiene il mio corpo. Ma colui che soffre di agorafobia, senza bisogno che lo portino in Venezuela, non può fare più di un isolato al di là della casa, perché la sua mente non contiene più il suo corpo, e ha bisogno quindi di qualcuno che gli presti la mente, che gli stia vicino e che lo contenga. Questo accade nella vecchiaia e soprattutto nelle malattie della vecchiaia: nell’Alzheimer questa perdita è reale. L’analogia tra agorafobia e Alzheimer è netta: in entrambi i casi la mente non contiene più il corpo. Nel primo caso per un complesso problema psicogeno, nel secondo caso per una perdita di sostanza. In realtà la coscienza dell’Io non riesce più ad essere il contenitore del corpo. Il corpo non è più contenuto e quindi è perduto.

E veniamo ora alle perdite specifiche di questo complesso apparato. Cominciamo dalle perdite di memoria. E’ chiaro che io non vi annoierò qui con la perdita di memoria senile, ma vorrei farvi osservare un certo retroterra che si può vedere applicando una certa visione psicoanalitico-cognitiva, e cioè un orientamento moderno della psicoanalisi. Nella memoria noi abbiamo due codici di funzionamento: uno è il codice intrauterino, in cui il tempo non passa e in cui il tempo è una unità solida. Ricordate quello che diceva Platone del tempo? “Il tempo è l’immagine mobile dell’eternità”. Mai indicazione fu così precisa e luminosa come quella di Platone. Di fatto nel momento intrauterino per noi, immaginando la mente intrauterina, questi nove mesi sono un blocco unico, il tempo non passa, c’è un inizio e una fine. Mentre in seguito viene fuori un codice fallico, che comporta il calendario, l’orologio, le scadenze, e che comporta quindi l’intervento della coscienza dell’Io, che stabilisce scadenze, calendari, ecc. Se volete avere un esempio personale, lo potete cercare dentro di voi, e vi accorgerete di come, quando si passa dal codice intrauterino al codice fallico, il tempo si accorcia. Vi ricorderete quanto erano lunghe le giornate di vacanza quando facevate le elementari o le medie, non finiva più l’estate, il tempo non passava mai, e quanto invece è corto ora, e quanto più si va avanti negli anni, tanto più il tempo scorre veloce. E ci accorgiamo di essere completamente matti quando aspettiamo che venga il 14 di gennaio, per esempio, perché succeda qualcosa di bello e non ci accorgiamo che corriamo verso la morte.

E di fatto noi abbiamo queste due modalità: nel codice fallico esistono degli schemi temporali validi (calendario, orologio, ecc.), e di fatto la memoria segue gli schemi temporali validi. Nella vecchiaia quello che succede è soprattutto la difficoltà, l’incapacità di inserire dei contenuti mnesici in schemi temporali validi e abbiamo quindi delle visioni a cannocchiale, visioni sbagliate con accorciamenti ed allungamenti, in altre parole una regressione con il ripristino del codice antico. Solo che il codice antico invece di essere utilmente gioioso come è nell’infanzia, diventa invece non utilizzabile. Ormai non si può più tornare indietro, senza codice fallico non si può più utilizzare il tempo e questo genera confusione. Il secondo punto è l’alterazione del sistema comunicativo. Sono i due punti centrali dell’invecchiamento, normale e patologico. L’alterazione del sistema comunicativo comporta prima di tutto il pensiero concreto. Guardate che il pensiero concreto non è solo ontogenico, ma è anche filogenetico: i popoli primitivi avevano il pensiero concreto; quando l’egiziano antico diceva che morire significa passare dalla riva orientale alla riva occidentale del Nilo, non dovete credere che lo dicesse per fare della poesia, ma soltanto perché gli mancava il concetto astratto di morte. E il pensiero astratto indica la coscienza dell’Io, perché il pensiero astratto è un contenitore ed è quello che viene meno, per cui il pensiero ritorna concreto. Non si può più dire bello, ma solo “come Giovanni”, indicando che Giovanni mi piace; non si può più dire bello e chiaro, ma solo come il sole in una mattina d’estate. Si fa della poesia, ma si perde il concetto astratto. La dispersione della narrativa, la perdita dell’Io narrante, che comporta la capacità di riconoscere il nostro flusso temporale, il proprio flusso emotivo, portano alla perdita della continuità fino all’incoerenza: la presenza di un io narrante è quella che ci fa dire: “io sono quello di una volta, ma sono anche quello di oggi, e pur essendo molto diverso da quello di una volta mi riconosco in quello che ero; pur essendo oggi innamorato di Giovanna invece che di Enrica riconosco che sono sempre io che collego le due cose e sono in grado di stabilire un flusso narrativo. Ma nell’anziano questo flusso narrativo diventa balbettante, si inciampa e non riesce più a fluire, si perde la continuità fino all’incoerenza.Guardate come ricade tutto questo nelle indicazioni terapeutiche, guardate come, essendo perduto il flusso narrativo, noi, per curare sul piano emotivo e del linguaggio il vecchio, dobbiamo in realtà badare alla famiglia, nel senso di ripristinare la tecnica narrativa che è stata interrotta. Guardate come la fornitura di schemi solidi e semplici, un po’ come ai bambini si raccontano favole, possa essere utile, perché bisogna stare attenti a non confondere il paziente. Uno dei problemi principali è la chiarezza del flusso narrativo.

Il linguaggio con il vecchio, per essere terapeutico, deve essere chiaro, preciso, limpido. Ridare il flusso narrativo e avere una buona tecnica del narrare, attraverso dei contenuti non confusivi. Vedete come tutte queste cose hanno una ricaduta immediata nel comportamento terapeutico, che in questo caso, possiamo pomposamente definire cognitivo-comportamentale, ma è semplicemente legato alla conoscenza degli eventi che si creano.

Allora noi possiamo a questo punto stabilire il principio della “turpe senectus”, concetto oraziano: è vero che è cosa turpe la vecchiaia. Chiunque lo neghi fa il suo mestiere, se è vecchio deve negare, ci mancherebbe altro. Se noi vogliamo riconoscerne gli elementi, qui siamo di fronte al secondo grande mutamento corporeo dopo quello dell’adolescenza. Nell’adolescenza sappiamo che si passa da un rapporto onnipotente con la madre, con il padre, ecc. ad un rapporto contrattuale: la sessualità, che prima era soltanto eccitamento diventa sessualità orgastica, ma nasce la responsabilità generativa, che complica terribilmente le cose, sia nell’uomo che nella donna; cambia il corpo e il corpo cambiato si impone come cambiamento, ma quale ampiezza e grandiosità di prospettive nell’adolescente, il quale vede la possibilità di ristrutturazione della vita sulla base del suo cambiamento corporeo; molte cose di prima non gli sono più permesse, ma quante cose nuove gli sono permesse invece. Nel vecchio, che subisce il secondo cambiamento corporeo, le cose sono ben più tristi, perché quel che è perduto non si ripristina, e si ha un bel dire “quante cose può fare il vecchio adesso”. Non è vero, non può più fare le cose, le perde e basta. Noi dobbiamo riconoscere che il secondo cambiamento corporeo è depressivo, e questo ci spiega le nostre statistiche circa il suicidio nell’anziano, che tutti noi conosciamo bene. Il vantaggio è tutto nel preservare e nell’opporsi al movimento: è una posizione antinarrativa, non si narra con prospettive future, è proibita la fantascienza personale, che è spesso quella che ci tiene in vita; è proibita la prospettiva, per cui domina la perdita del corpo e delle funzioni, in particolare della memoria, dell’equilibrio pulsionale ed emotivo, perché manca la programmazione delle emozioni e l’inserimento in uno schema valido, a meno che non sia retorico o negatorio. La possibilità della negazione c’è sempre, la retorica dei vecchi la conosciamo bene, a volte c’è pure l’isteria dei vecchi: mi ricordo di un vecchio che si chiamava Giacomo, e che aveva 103 anni, che mi raccontava “ai miei tempi sui monti mi ricordo che son venuti sette metri di neve”, e i racconti erano tutti di questo tipo, chiaramente isterici, pseudologia fantastica del vecchio con la caduta della capacità di rievocazione emotiva. Ho citato anche Proust, perché è in Proust che vedete bene come in realtà la nostalgia è del giovane, perché è il giovane che è capace di ricreare nel proprio passato elementi emotivi e nostalgici che hanno sempre questo elemento positivo, di ricostruzione e di revisione. Nel vecchio la nostalgia cade miseramente, quella che noi chiamiamo nostalgia manca della vibrazione emozionale gioiosa, e c’è soltanto il ripristino di ricordi freddi e distanti in genere in opposizione alla situazione attuale. C’è la caduta della capacità di rivivere dinamicamente il passato nel presente, e quindi vedete che il problema non è come per una persona la cui coscienza dell’Io funziona bene, cioè la costruzione di narrative per il passato che servono come elemento per il futuro, ma è la perdita della prospettiva, e il passato è fine a se stesso e non ha più prospettiva.

La patologia riguarda la memoria, come attaccamento al futile e all’immobile, e carenza di una cernita mnesica; anche lasciando perdere l’aspetto organico, vi è la difficoltà di ricapitolare gli elementi mnesici che facciano agio al presente, che aiutino il presente e preparino la prospettiva del futuro, e c’è la regola melanconica che “ogni vecchio è potenzialmente depresso”. Perché c’è la perdita, e se la melanconia è perdita, nella vecchiaia c’è la più grande delle perdite, che è quella delle funzioni corporee, che è l’unica cosa che noi possediamo. Noi crediamo di possedere palazzi ed appartamenti, case o titoli nobiliari o di carriera, li possiamo anche depositare dal notaio, ma ci accorgiamo al momento opportuno che possediamo una cosa sola, che è questo povero corpo, e quando non abbiamo più questo non abbiamo più nulla; questa è la coscienza della regola melanconica, che si combatte con la micromaniacalità quotidiana.

Attenti a non dare interpretazioni troppo profonde ai vecchi, attenti a non andare loro a dire che ad esempio hanno una frustrazione edipica perché la mamma…ecc., dovremo piuttosto fornire elementi di supporto ai meccanismi di difesa negatori. Nel vecchio abbiamo il suicidio che è ed esprime la rinuncia alla progettazione. Tutto diverso dal suicidio adolescenziale, che è un suicidio “con” progettazione. Tutti gli adolescenti pensano di ritornare svolazzando indietro a vedere come piange quella persona che ha fatto loro del male e che non li ha capiti… Tutti gli adolescenti sono dei piccoli Tom Sawyer: c’è il ritorno nella chiesa e finalmente la zia cattiva sta piangendo perché teme che sia morto. Nel vecchio c’è invece la rinuncia alla progettazione, e gli antichi meccanismi vengono recuperati: Pseudodemenza di Wernicke, Isteria, Ganser, ecc.

Ed ecco qui infine una piccola rappresentazione scenica (diapositiva) che possiamo fare per concludere: c’è una persona inventata da me, una persona che applica diverse strategie mentali a diverse età della vita. Nell’infanzia noi potremmo applicare un disturbo istrionico, o meglio ancora l’ansia da separazione. Questa persona è un bambino che ha delle paure primarie di essere abbandonato, delle paure primordiali, e che dice come espressione centrale della sua patologia “non so nulla, so solo che non voglio essere lasciato solo”: ecco l’angoscia di separazione, ecco il male di tutti i bambini, ecco il male di tutti noi nell’infanzia, non sappiamo nulla, conosciamo solo l’angoscia che ci crea la separazione. Ma il nostro bambino cresce, diventa borderline, e il discorso diventa come essere e chi essere, costruire la propria identità che non sempre riesce; non sempre si trovano i modelli, non sempre si sa come si deve essere; gli elementi genetici, il DNA li ho lasciati volutamente da parte perché su questo non possiamo discutere. E ne conseguono malumore, inquietudine aggressiva, il fallimento della sublimazione e quindi la banalizzazione delle pulsioni sessuali che vengono deprivate degli elementi di tenerezza; il discorso diventa rancoroso. L’adolescente dice “maledetti, non mi lasciate essere come vorrei!”. Vedete il predominio della proiezione, mentre prima il predominio era quello della perdita. Adesso predomina la proiezione, c’è un “maledetti non mi lasciate essere come vorrei”. Finché poi questo diventa adulto e diventa un bipolare. Bipolare perché l’alterazione biologica centrale è al servizio dei sentimenti più estremi, perché i sentimenti sono stati categorizzati dalla mente adulta, dalla coscienza dell’Io adulta: o si è tristi o si è allegri, o si è melanconici o si è euforici. Il discorso è tutto qui: o sono disperato perché abbandonato, o sono completamente, gloriosamente, totalmente autosufficiente e non mi importa niente di nessuno.

Abbiamo così il bipolare. E infine questo signore diventa vecchio, gli viene la depressione con aspetti organici, e la Pseudodemenza di Wernicke, che vuol dire che le antiche difese primordiali ritornano, e che il “non so nulla” del bambino è ritornato fuori, solo che qui dice “non so nulla, so solo che non voglio contemplare la perdita”. Mentre nel bambino la perdita è risolvibile, perché con il suo pianto disperato mirava a non essere lasciato solo, il vecchio con chi piange, visto che la perdita viene dalla natura o dal Padre Eterno, o da Darwin, ma con quel qualcuno, chiunque sia non si può discutere?

E allora noi possiamo fare un piccolo passaggio a Shakespeare: tutta la nostra vita è una recita, in cui cerchiamo di dare espressione alle nostre pulsioni, ai nostri vantaggi, alle nostre perdite tramite un copione che rappresentiamo cercando di essere nella migliore posizione possibile. Per cui “la vita è un’ombra che cammina”, dice Shakespeare, e noi siamo “un povero guitto” e cerchiamo di aggiustarci continuamente, in diversi modi; siamo “poveri guitti che vanno avanti e indietro a petto rigonfio (chi più e chi meno), per la loro ora nel palcoscenico e poi nessuno ne sa più nulla. Un racconto raccontato da un idiota, pieno di rumore e di rabbia, che non significa niente, una recita. E noi abbiamo visto abbastanza bene questo elemento di recita.

E a questo punto l’ultima citazione dal “De Senectude” di Cicerone: “La vecchiaia mi è lieve, non solo non è molesta, ma anche gioconda…” Quale maggiore negazione di questa: anche io in questo momento sto negando, ma guai a voi se mi toccate la mia negazione, che mi va benissimo, con una terapia analitica!

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7 risposte a ore 17:03 PROF. ROMOLO ROSSI DI GENOVA — ” EDIPO A COLONO: IL VECCHIO E LA SUA PERDITA ” — secondo chiara è un bel racconto, e come tale ho preferito leggerlo, lasciando da parte certe “definizioni”, o almeno che così appaiono, senza badarci…perché esserne discorde, mi rovinava la storia—” Je prends mon bien où je le trouve” —fosse una minuscola cosa!

  1. Massimo Locchi scrive:

    Sostanzialmente esatto in tutto, anche se un po’ troppo “erudito”.
    Tuttavia si può dire, semplificando e forse banalizzando, che la vita può essere bella fino all’ultimo,
    intendo dire goduta fino all’ultimo, senza ricorrere a negazioni, ecc.
    L’importante, a mio avviso, è accettare totalmente lo status immanente in cui ci si viene a trovare e cioè immergersi nella realtà assieme ai propri sogni: questa è la vera realtà.
    Come farebbe (anzi fa’) un animale qualsiasi.
    L’intelligenza sembra portare solo sofferenza.

    • Chiara Salvini scrive:

      caro Massimo,ti ringrazio molto del tuo bel contributo, spero che ritorni per ascoltarti ancora, ciao chiara per il blog. –ti do del tu perché sei senz’altro più giovane di me, a luglio ne ho 75…

  2. Massimo scrive:

    La consapevolezza del vecchio, che si sente vicino alla fine, gli si legge negli occhi e nel comportamento. Così come negli animali che fanno tanta tenerezza proprio per questo.Questa consapevolezza ci rende più vicini gli uni agli altri, ci si sorride di più come se “l’unione facesse la forza”. Vi sono due modi per reagire alla vecchiaia.
    Uno è quello di accettarla con tristezza, godendo comunque gli ultimi sprazzi di luce.
    L’altro è di negarla, vivendo nella fantasia e regredendo inevitabilmente ad atteggiamenti infantili.
    Oppure alternando i due modi bipolarmente.
    Il perché di tutto ha una sola risposta “non lo so” ed è questo “non lo so” che ha spinto migliaia di bravissimi scrittori ad esprimere idee di ogni genere ma tutte, proprio tutte, con un sottofondo comune: non lo so.

    • Chiara Salvini scrive:

      E’ bella la tua esaltazione del ” non so “…molto socratico ! Grazie del tuo contributo molto bello, speriamo di ri-vederci, chiara per il blog

  3. roberto scrive:

    Casualmente e giusto ieri sera o notte stavo leggendo , nel senso “preso in mano” un libretto di poesie di Cesare Pavese tra cui “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
    Sono versi che m’incantano da almeno sessant’anni e sempre un po’ di più, anche se Pavese non pensava alla vecchiaia in quella morte.
    Ma tutto questo non c’entra perchè come al solito divago. Divago perchè comincio ad essere vecchio ed a perdermi nei meandri che siano ricordi o semplici ritorni qua e là a passeggio?
    Non importa e non mi lascerò distrarre
    …… stavo leggendo Pavese e mi saltano agli occhi questi versi sulla vecchiaia:

    Il piacere del vecchio è sorprendere le ultime stelle
    Sotto l’alba, poi bere una volta e girare per strada.
    Uno ha sempre saputo che il mondo finisce così:
    ci si trova tra visi di gente inaudita,
    e non basta guardarli e pensarci con calma.
    C. Pavese

    E quindi cosa ci è sfuggito della vita mentre arrancavamo per arrivare? Forse , nella fretta, ci è sfuggita una parte della nostra vita. A me, Chiara, è sfuggita anche una parte della tua vita, ovviamente lontani e casualmente rincontrati. Ed è proprio ora che cominciamo a fare un po’ di conti, ora che sentiamo la fine che poi si chiama “morte”, sempre più vicina. Giochiamoci sopra ancora un pochino … e no, caro Massimo ( da quel che scrivi sembra tu abbia un’idea ancora romantica della morte mentre no, non lo è ). La morte è la fine è il disfacimento del corpo e l’anima, o quel che è, se c’è, che si sfila come un sospiro e …tutto è finito …ed ecco che anch’io l’ho romanticizzata! Forse è l’unico modo per esorcizzarla fino alla fine?
    Gli animali che fanno tanta tenerezza ..e poi li ammazzi per mangiarli in umido con patate?
    La consapevolezza della vecchiaia non ci rende più vicini gli uni agli altri, bensì più attenti agli acciacchi dell’amico che forse se ne va un po’ prima di te 🙂 e poi ti piangi addosso perchè …..gli amici se ne vanno.
    E per finire :

    Pallido, disfatto,fuggo tormentato dal lenzuolo,
    io che ho paura di morire quando dormo solo.
    (Stephane Mallarmé)

    … e poi c’è l’altro aspetto, quasi piacevole se si vuole: non abbiamo più fretta e possiamo anche sorridere delle nostre temporanee mancanze sempre più frequenti perchè sappiamo che la vita sfugge comunque e ci godiamo quel che resta senza rimpianti.
    sarà vero?

    …E così Edipo l’ho dimenticato a Colono!

  4. roberto scrive:

    Massimo Locchi, come al solito con la mia distrazione ti ho subito considerato un amico e ti ho dato del Tu, potrei citare Prevert sull’uso del “tu” ma non mi pare appropriato.
    Quindi perdonami e accettami.
    Oppure no 🙂

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