22:16 ” SAREMO PIU’ ELEGANTI DI COME E’ LA VITA ” —UN EPISTOLARIO MOLTO SPECIALE (1892-1895) —LETTERE AL GUARDIAMARINA EDGAR KARS (E. K. ) —AUTORE : HUGO VON HOFMANNSTHAL

 

 

 

 

 

 

Le parole non sono di questo mondo
Lettere al guardiamarina E. K. 1892-1895

A cura di Marco Rispoli—EDITORE QUODLIBET

 

Lo scambio epistolare tra il giovane uffi ciale e il giovane intellettuale, maestro non solo culturale ma anche morale («Penso che diecimila ore difficili non possono disfare ciò che viene intessuto in un’ora felice») svela, con una misura e una delicatezza d’animo che escludono qualunque effusione, un’amicizia virile di grande intensità. Al centro del dialogo c’è il grande compito della maturazione, che entrambi sentono impegnativo e rischioso: il difficile passaggio dalle promesse indistinte della giovinezza alla piena responsabilità dell’adulto, nel quale il guardiamarina è condotto per mano.
Sono lettere straordinarie, in cui Hofmannsthal parla con totale libertà della vita e dell’arte («l’essenza dell’arte è l’immediatezza, la capacità di guardare l’esistenza senza timore, senza pigrizia e senza menzogna») a un animo partecipe e avido di apprendere. Il titolo viene dalla stupenda lettera del 18 giugno 1895, in cui, traducendo in prosa la visione espressa nella Ballata della vita esteriore, Hugo scrive che «la gran parte degli uomini non vivono nella vita, ma in una pura apparenza dove nulla è e tutto soltanto signifi .ca». La vita «non si lascia riprodurre per mezzo delle parole, ma parla alle nostre anime… Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni… Perciò vedi, io penso questo: non vi è nulla di scritto a cui si possa credere».

Andrea Casalegno, «Il Sole 24 Ore»

Recensioni  

Roberta Ascarelli «Alias – il manifesto» 25-11-2012

Saremo più eleganti di come lo è la vita
Roberta Ascarelli «Alias – il manifesto» 25-11-2012
Nell’estate del 1892 Hugo von Hofmannsthal, fresco di maturità e delle baruffe con Stefan George, incontra durante una villeggiatura alle porte di Salisburgo, un giovane ufficiale in attesa del battesimo del mare. Edgar Karg von Bebenburg è un nobile della decadenza austriaca, impoverito, melanconico e solitario che ha scelto la vita militare come rimedio all’indigenza in cui si è ritrovata la famiglia dopo la morte del padre. Una vita difficile con un’unica vera missione, quella di mantenere il decoro, e tante altre incombenze sgradevoli e inopportune, senza passione per l’avventura e senza il sostegno di codici cavallereschi.
Ai parvenus il compito di sbraitare per le strade viennesi lungo il Ring i valori del germanesimo rinverdito a Parigi nell’era di Bismarck – inneggiando a onore, dignità, patria e difendendo a colpi di spada una autostima facile da ferire. Bebenburg, invece – come il principe Erwin, protagonista del romanzo-manifesto Il giardino della conoscenza di Leopold von Andrian – vorrebbe rinchiudersi in «serre calde», protetto da interni svuotati di senso sociale e aperti alla depressa e incerta, ma sempre benevola, contemplazione di sé. È di umore mutevole, sente l’influenza
di chi gli sta vicino, ma soprattutto sembra poco attrezzato per la vita militare, le lunghe distanze, gli ideali del comando e della prestazione. Non è colto, Karg von Bebenburg, non è creativo, ma sogna e cerca di dare un senso alla sua vita, che sarà breve e scontenta, facendo al suo amico domande talmente tristi e fiduciose da rendere obbligatorie – anche per chi, come Hofmannsthal, diffida delle parole – risposte, articolate, protettive e consolanti.
La loro è un’amicizia più intima di quelle sperimentate da Hofmannsthal con i compagni di scuola e con i giovani scrittori che avevano dato vita nel fumo dei caffè viennesi alla associazione della Giovane Vienna, ricca di sdegno e gioventù, come si addice a una costellazione da Jugendstil: «Non mi era ancora mai caduta dal cielo una gioia così inaspettata come quella della tua amicizia», gli scrive poco dopo averlo conosciuto rivolgendosi a lui con un tu che non userà mai nelle lettere a Schnitzler o a Beer-Hofmann.
Ci vuole un encomiabile coraggio a ripubblicare in edizione tascabile il frammento di un carteggio di Hofmannsthal, Le parole non sono di questo mondo. Lettere al guardiamarina E. K. 1892-1895 (cura di Marco Rispoli, Quodlibet, pp. 140, € 12) e per di più un carteggio considerato minore tra quelli con donne sapienti, intellettuali famosi, o meno famosi, ai quali il poeta austriaco regala notizie sulla sua vita e sulle sue opere. E farlo senza mettere l’accento sulle interpretazioni suggestive che nell’ultimo decennio hanno reso famoso questo Briefwechsel. Attento e filologico, con il rispetto che si deve alle lettere di due anime un po’ perse nella giovinezza e nella modernità, Marco Rispoli offre gli elementi necessari per orientarsi nei primi tre anni del loro rapporto, ma senza forzare il dialogo di un poeta e di un amico persi entrambi nella paura nel vuoto e della alienazione, e senza accentuare la prospettiva omoerotica su cui si sofferma la critica, soprattutto quella più recente (ricordo Ulrich Weinzierl nel 2005 e Ilija Dürhammer nel 2006); né mummifica le lettere, e soprattutto quella famosissima del 18 giugno 1895, in cui, anticipando i temi di Chandos, parla con matura consapevolezza di apparenza, sogni, libri e poesia, per dimostrare la centralità esclusiva in Hofmannsthal di una estetica della percezione.
La storia di un’amicizia tra il giovanissimo poeta e un ufficiale di marina ‘senza qualità’ (neppure quelle poco appariscenti che lo avrebbero integrato nella timida scapigliatura austriaca) scorre articolata e leggera, ricca di riflessioni sulla vita, sull’arte e la politica, stupefacente nella sua asimmetria e tutta da interrogareper proiezioni e rispecchiamenti.
Quel che attrae Hofmannsthal è l’impegno di Karg – il poeta idealizzerà tutta la vita uomini di azione, viaggiatori e solitari – che sceglie, sia pure riluttante, la vita attiva; di lui lo lusingano le buone maniere da ufficiale e forse anche il fatto che Bebenburg sia l’unico dei suoi amici a non avere nulla a che fare con l’ebraismo, essendo estraneo a quel ghetto culturale che egemonizzava la vita spirituale della capitale e che George aveva incominciato a mettere in discussione. Difficilmente si capisce, del resto, questo legame senza l’incubo rappresentato in quell’inverno da George, giunto a Vienna per reclamare devozione, collaborazione e, forse anche amore, da quel ragazzo prodigio che a diciassette anni scriveva poesie non solo perfette,ma anche proiettate verso quel sogno di grande magiache inseguivano i simbolisti e che George pensava di avere scoperto in Francia. «Ci siamo venuti incontro a metà strada in modo così piacevole. Non ci spacciamo per geni incompresi e non parleremo mai di un vincolo di anime». Quindi, a precisare le sue idee su amicizia e creanza, continua: «per il pathos non ho proprio alcuna propensione, lo considero un segno di cattiva educazione».
Le loro lettere rimarranno entro questi limiti di affettuosa civiltà evitando rigorosamente ogni tipo di esagerazione, saranno più eleganti di quelle che si scrivevano solitamente alle soglie del ’900 i giovani austriaci, e saranno graziose e accurate come quelle di un secolo prima. Malgrado Hofmannsthal e Bebenburg siano tormentati dall’incertezza, elimineranno invadenza o sciatteria dal loro rapporto epistolare; ognuno mostrerà attenzione per l’altro, anche nei momenti di maggiore amarezza o nel mezzo di resoconti avvincenti e si preoccuperà di essere di sollievo, ma con discrezione, nelle difficoltà della vita. Questa consolazione, che segna negli anni le lettere, non è certo di tipo libresco, né ha nulla di trasgressivo o di avventuroso, è semmai il sollievo delle buone forme, la solidarietà tra giovani dabbene, incerti, ma ancorati alle tradizioni e gelosi del loro profondo senso etico. Comune è la convinzione che la buona educazione e l’umana pietà siano ingredienti fondamentali di una vita degna di essere vissuta. «Non essere volgari è qualcosa di molto importante e … qualcosa di assai raro».
Il 12 dicembre del 1892, a un anno dall’incontro con George, Hofmannsthal scrive a Bebenburg il suo programma: «Vorrei diventare molto famoso, vorrei saper cavalcare bene; parlare bene italiano, muovermi e parlare con compostezza ed essere un vero gentleman». Poco cambia negli anni e, nel 1896, il loro obiettivo è ancora «Guadagnare, imparare, essere amati e essere quanto più possibile cavallereschi». Ma sarebbe sbagliato pensare a pose ridicole o affettate da gentiluomini fuori tempo. Il mito della buona forma che caratterizza il loro rapporto, e che si ripropone più volte nell’epistolario, è innanzitutto una scelta morale, convinti, come sono entrambi, che la correttezza sia uno strumento per creare ordine nel caos – nel caos della loro vita emotiva, ma anche nel caos della modernità.
Traspare nelle lettere l’abitudine cattolica all’esame di coscienza, sempre severo e accompagnato dalla contrizione, per tavole di valori sostanzialmente laiche nelle quali la compostezza prende il posto della trascendenza: «Ho commesso molte azioni sbagliate e disdicevoli – scrive Bebenburg – che considero disonorevoli: ma nonostante tutto sono stato sempre un uomo dal forte senso di giustizia e ho sempre preservato un altro paio di buone qualità». L’obiettivo è quello di essere migliori e più aristocratici della vita, di sopportare dignitosamente le difficoltà, perché, afferma Karg, «nel sopportare è radicato tutto quello che, al mondo, ha bellezza e valore».

 

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  1. Donatella scrive:

    Mi sembra interessantissima e piacevole questa corrispondenza. Anche la frase presa come titolo della raccolta di lettere: ” Le parole non sono di questo mondo”.

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