ADULTING, DIVENTARE ADULTI — DITELO COME VOLETE, MA CERCHIAMO UN MODO DI FARLO!

leggenda, ragazzi, leggenda! Leyenda!

carina eh?

RCULT

Un neologismo inglese che potrebbe tradursi con “rendersi adulti” spiega perché è ormai più importante mostrarsi cresciuti che esserlo davvero. E così, nella società dei giovani per sempre, si moltiplicano vademecum e istruzioni per apparire, finalmente, maturi
Adulting
Quando si diventa grandi ? Con la fine dei riti di passaggio e il prolungarsi dell’adolescenza è più difficile stabilirlo

ANDREA BAJANI

La solitudine delle istruzioni per l’uso lascia giusto la consolazione del risultato: anche se nessuno ti aiuterà, alla fine ce la farai. Sei solo, ma non per questo sei finito. È per questa ragione che prima di partire per una vacanza, tappezziamo la casa di post-it per i figli. Perché se la cavino con qualche indicazione: mettere il brillantante, premere qui, questo è il contatore. Ogni foglietto illustrativo è l’evidenza di un vuoto e delle strategie messe in atto per colmarlo. Ma si tratta del terreno sicuro della pratica, dove la ripetizione garantisce la riuscita. Cosa succede quando il terreno è quello più accidentato della crescita? Come si fa, quando il problema è diventare grande e chi lo deve risolvere non sono i figli ma i genitori?

Negli Stati Uniti è diventato un verbo,

adulting, adultizzarsi, che solo erroneamente si potrebbe confondere con il più tradizionale “crescere”. Il magazine The Atlantic gli ha dedicato di recente un’inchiesta, che è al tempo stesso un SOS lanciato a un Occidente adolescentizzato. Abbiamo bisogno di adulti – sembra dire lo studio –, ma sono tutti vuoti i posti in prima fila. Fatevi avanti. È una vera e propria chiamata ai lettori, la loro. Che qualcuno spieghi come si diventa grandi, dal momento che l’anagrafe non è più garante se non di un invecchiamento fisico. Le strade sono popolate di adolescenti con corpi compromessi e con le stesse paure dei quindici anni, diventate nel frattempo patologiche. I lettori cosiddetti grandi hanno risposto in massa alla chiamata. Si diventa grandi – azzardano – quando: nasce il primo figlio, con il matrimonio, quando ci si accetta per davvero, quando si esce di casa, quando ci si sente liberi. Sembra un grande balbettio. In fondo nessuno lo sa. Un anonimo rompe il vetro con una sassata: il dolore rende adulti. La morte di una persona cara spacca il carapace. Fuori c’è il mondo, ma dentro il mondo come ci si sta? C’è qualcuno – sembra dire l’anonimo – che ha una soluzione diversa dal solito rimedio commerciale con un’obsolescenza programmata? Diventare adulti non è anche insegnare a qualcuno cosa fare col dolore? La domanda poi però viene travolta dalla slavina del chiacchiericcio generalizzato.

Al centro dell’inchiesta di

The Atlantic sta il blog di Kelly Williams Brown, autrice del libro Adulting. How to become a grown- up in 468 easy( ish) steps (Hachette), che è diventato in pochi anni un punto di riferimento per persone anagraficamente adulte ma poco convinte di esserlo. Kelly Williams Brown, trentenne giornalista di Portland, parte dal presupposto di non essere la sola, a sentirsi inadatta al mondo dei grandi. Per questo pensa sia un servizio utile, quello di fornire istruzioni pratiche, e per questo invita gli utenti a contribuire. Step 261: capire quando andare in ospedale. Step 221: portarsi dietro almeno dieci dollari. Step 245: chiudere l’armadio quando hai finito di usarlo. Tra i tanti suggerimenti: evitare tostapane rumorosi, aprire una bottiglia di champagne, avere una fornitura di spazzolini da denti per gli ospiti, gestire il passaggio da un vecchio a un nuovo lavoro. L’importante non è come diventare adulti, ma come sembrarlo. Attrezzarsi perché non si veda, sotto la pelle originaria, quella dell’adolescente.

Quella che vedono i figli e da cui capiscono che dagli adulti che li circondano non possono aspettarsi troppo. Perché, rimuginano guardando i goffi coetanei travestiti da genitori, gli adolescenti li sappiamo fare meglio noi (è carina, non vi pare? –il blog).

«Perché è così importante evidenziare le differenze tra giovani e adulti?», si chiedeva qualche tempo fa l’antropologo Marco Aime ragionando insieme a Gustavo Pietropolli Charmet sulla scomparsa dei riti di passaggio in La fatica di diventare grandi (Einaudi). «Perché l’adolescenza, che è lo stato di transizione tra le condizione del bambino e quella di adulto è una fase molto difficile e delicata, in cui l’individuo inizia a costruirsi la “sua” identità personale. Affinché questo accada, occorre che la comunità, in cui si vive e si cresce, ponga limiti, fissi punti fermi ». È questa la differenza tra adultizzarsi e crescere, tra l’educazione e le istruzioni per l’uso. Se crescere, come ci hanno insegnato millenni di pedagogia, da Socrate a Montessori, è cercare la piena realizzazione di sé in un contesto sociale, contribuire alla comunità sociale che sta oltre la famiglia, adultizzarsi è il deserto, con coppie di vecchi genitori felici di riprendersi in casa figli sconfitti, abbracciati tutti dentro lo stesso fallimento sociale. Lo scenario è beckettiano. Nessuno sa dove si va, ma lo sgomento di fronte al mancato arrivo di Godot si è trasformato in un’euforia triste. Il non arrivo di Godot è la condizione necessaria per trovare qualche passatempo a pagamento. Aspettiamo la fine. Intanto consumiamo. I progetti di società, le domande sull’uomo? La data di scadenza è già passata, non ve ne curate troppo. Così anche diventare grandi, in fondo, è un passatempo. I video in cui Kelly Williams Brown fornisce istruzioni in maniera semiseria su come far finta di essere grandi, sono immalinconenti. È l’evidenza di una cosa: che non c’è più una comunità sociale che aspetta o che si aspetta nulla, ma c’è la voglia di far finta che ci sia, però puntando sul tostapane, imparando a fare i regali di Natale (Step 267). La voce e il volto di Williams Brown sono quelli di una persona sola che nel deserto prova a dire tre cose pratiche che ha imparato. Si aggiunge ai milioni di persone che sulla rete accendono la spia del registratore per poi divulgare soluzioni per essere un po’ meno disperati, a metà strada tra bricolage gratuito e new age a pagamento. Alimentando così il mercato sorto intorno alle domande che prevedono soluzioni pratiche, perché sono quelle che generano profitto.

Quello di Kelly Williams Brown in fondo non è altro che ciò che succede quando la comunità di riferimento scompare. La società – quella che da sempre ha regolato la scansione dei riti di passaggio – è partita per una vacanza e ha lasciato una manciata di post-it e una bacheca su cui aggiungerne di nuovi. Ha lasciato numeri verdi, call center, app, manuali da comprare. In fondo ce la si può cavare anche da soli se si impara ad affinare le ricerche. E così facciamo: ci facciamo il nodo alla cravatta imitando un tizio che lo fa dentro lo schermo, cambiamo la gomma all’automobile seguendo la procedura sullo smartphone. Ci convinciamo che diventare grandi sia cavarsi d’impaccio, aprire lo champagne, fingere quel tanto che serve per sembrare adulti, modellare il proprio mondo su un modello fornito dal mercato. “Come vivere? – mi ha scritto qualcuno / a cui io intendevo fare ?/la stessa domanda”, scriveva Wislawa Szymborska in Scorcio di secolo. E rispondeva così: “Da capo e allo stesso modo di sempre, / ?comesi è visto sopra, /?nonci sono domande più pressanti /?delledomande ingenue”. Ovvero: fare domande grandi, pretendere risposte grandi e non solo procedure pratiche d’emergenza. Che non consola dall’essere stati abbandonati, ma evita di farci passare il tempo a esercitarsi sul tappo di una bottiglia mentre i nostri figli digitano sul computer domande ingenue. Perché hanno smesso di aspettarsi anche soltanto l’ipotesi di una risposta.

 

 

 Andrea Bajani (1975), se si tratta di lui che scrive l’articolo, o chiunque sia, va bene lo stesso, prima di tutti quei meriti, è un gran figo…oggi non so come si dica,    MA NON VI PARE DONNE E UOMINI DEL MONDO?

Andrea Bajani è nato a Roma nel 1975 e vive a Torino. Presso Einaudi ha pubblicato Cordiali saluti (2005 e 2008), Se consideri le colpe (2007 e 2009), il reportage sul lavoro precario Mi spezzo ma non m’impiego(2006), Domani niente scuola (2008), Ogni promessa(2010) e Presente (2012, con Michela Murgia, Paolo Nori e Giorgio Vasta). Per il teatro è coautore di Miserabili, uno spettacolo di Marco Paolini. Collabora con Rai Radio 2, con i quotidiani «La Stampa», «l’Unità», «Il Sole-24 ore» e con la rivista «Lo straniero».

Se consideri le colpe ha vinto il Premio Super Mondello, il Premio Recanati e il Premio Brancati. Ogni promessa ha vinto il Premio Bagutta 2011.

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