FAMIGLIE — UN RACCONTO D’ANTAN DI DONATELLA D’IMPORZANO

FAMIGLIE

 

 

 

E’ da quando ho l’uso della ragione, ma forse anche da prima, che considero la famiglia come qualcosa di eterno, senza il quale non potremmo esistere, la base stessa non solo del vivere sociale, ma della vita tout court. Sono stato un figlio modello, ho sempre amato e rispettato mia madre, mio padre purtroppo lo ricordo appena. Con i miei fratelli e sorelle (la nostra era una famiglia numerosa) ci siamo divertiti molto quando eravamo piccoli: ricordo i giochi, le corse sfrenate, anche i dispetti e le liti che all’improvviso sorgevano e che rischiavano di degenerare se non ci fosse stata lì nostra madre, sempre vigile e attenta. Dopo l’esaltazione del gioco, magari della lotta, c’era poi il tepore della casa, il sapore tiepido del latte, la consapevolezza di essere al sicuro in un mondo fatto apposta per noi. Io avevo una specie di  passione esclusiva per mia  sorella Zoe: la ricordo come un essere dorato, dolce e vitale allo stesso tempo. Se ne andò presto di casa, lasciando il nostro caldo nido per la grande città. Spero che si sia trovata bene e che non abbia dovuto rimpiangere la semplicità della sua origine. Mi viene ora da pensare che stranamente, per quanto fossimo legati tra noi, nessuno ha più cercato di incontrarsi, una volta lasciata la casa materna. Forse eravamo troppo impegnati a costruirci una famiglia nostra, a farci strada in un ambiente inizialmente estraneo. Solo mio fratello Oscar è rimasto al paese con mia madre, ma lui è sempre stato il più cucciolone di tutti e penso che l’idea di separarsi dalla mamma non gli sia mai passata per la testa. Io invece, raggiunta una certa età, non vedevo l’ora di uscire nel vasto mondo e appena si presentò l’occasione buona non me la feci scappare. Ricordo come se fosse oggi il paese che si allontanava ai miei occhi dietro il finestrino dell’auto che mi portava in città. Un po’ rabbrividivo di paura e un po’ di gioia, insomma, non stavo più nella pelle pensando alle novità che mi aspettavano.

 

 

 

Devo dire, a distanza di qualche anno, che mi sono inserito bene: ho una famiglia tutta mia, una bella casa con un bel giardino, dei vicini simpatici con cui sovente ci troviamo. Con loro a volte mi sembra di ritrovare l’ambiente dell’infanzia, l’odore stesso della spensierata fanciullezza. Mentre il barbecue spande nell’aria la sua promessa di cibo, ci divertiamo a ripetere i giochi di un tempo. Se qualche estraneo ci osservasse con poca benevolenza, potrebbe anche criticarci per la nostra spensieratezza. Ma in fondo, che male c’è nel ritrovare le proprie  radici nel profumo dell’ erba fresca, nel sapore penetrante della terra  dove crolliamo sfiniti dopo una  fanciullesca cagnara, nel pregustare il buon cibo che ci attende ed una sana bevuta? A questi momenti di  gioia intima e collettiva partecipa naturalmente tutta la famiglia.

Vi ho già detto all’inizio  in quale considerazione io tengo la famiglia e da tutto quello che vi ho raccontato  penso che vi siate fatta di me l’idea che non sono uno di quei tipi che vanno in giro cercando sempre il meglio per perdere il buono che hanno. Insomma, la mia famiglia è di tipo patriarcale, forse proprio perché io, per mia disgrazia, non ho conosciuto bene mio padre e ho bisogno di certezze assolute, come solo un padre può dare. Io intendo proprio il padre, il capofamiglia, la fonte stessa della legge e dell’ordine, non un qualsiasi papà o babbo, per quanto caro possa essere.  Ebbene, da qualche tempo c’è qualcosa  che mi rode dentro, come un tarlo, una zecca che avvelena la bella  costruzione della mia vita.  Tutto è iniziato qualche mese fa, da quando sono stato poco bene, una leggera indisposizione, forse causata dall’avere mangiato troppo in uno di quei momenti di ritrovo di cui vi parlavo prima. Mi ero fatto trasportare dall’allegria del momento e mi ero rimpinzato di salsicce di maiale. Lo sapevo che il maiale è per me indigesto, ma anche a voi sarà capitato di uscire dalle regole per il piacere della compagnia. E’ quello che accadde a me. Io non avrei fatto troppe storie, sarei stato in riposo un giorno, aspettando che mi passasse l’indigestione, ma quei noiosi della mia famiglia (lo dico in fondo con un certo orgoglio), non mi lasciavano in pace, venivano tutti i momenti a controllare come stavo, chiamarono anche il dottore che non fece che dire quanto già io avevo pensato: indigestione e quindi dieta assoluta. C’era bisogno di fare venire un laureato, con spesa  conseguente, per sentenziare una diagnosi così complicata! Pazienza per questo, ma il brutto venne dopo.  Stetti un po’ di giorni nei miei stracci, come si dice dalle mie parti, e devo dire che ci stavo bene: calma assoluta, possibilità di pensare ai fatti miei come da anni non riuscivo più a fare, nessun senso di colpa perché ero giustificato dall’indisposizione. Insomma  un beato ritorno all’infanzia, uno stadio di esistenza prenatale. Le visite dei miei si erano diradate, proprio per permettermi di stare più tranquillo, così almeno pensavo. Da mangiare mi portavano dei brodini con dei pezzetti di pollo che galleggiavano dentro. Non che mi piacessero, ma li mandavo giù insieme all’amore della mia famiglia che mi proteggeva così accuratamente. Appena mi sentii di nuovo in forze, ripresi la vita normale, ma mi accorsi subito che qualcosa era cambiato, quella famosa, fastidiosissima pulce di cui vi parlavo prima. Pur dimostrando affetto e rispetto per me, notavo che tutti avevano sempre cose importanti da fare. Entravano ed uscivano da casa liberamente, senza  nemmeno dirmi dove andavano, senza specificarmi quando sarebbero tornati. Anche le ore dei pasti, che prima erano sacre, si erano fatte abbastanza casuali. Le bambine, che prima erano sempre appiccicate a me quando non erano a scuola, adesso andavano sempre più spesso a giocare dalle amiche. Certo, sapevo dove erano, ero  sicuro che se fossi stato male mi avrebbero curato con la medesima abnegazione, ma quel bell’amore gratuito, fatto di gioia al solo vedersi, beh, quello mi pareva un tantino andato, almeno da parte loro.  Ed io, che, come già mia madre e mio padre, ho sempre pensato che la passione possa essere eterna! Io non ho mai pensato che i sentimenti possano cambiare, se mai rinsaldarsi, ma non affievolirsi, diventare più tenaci, non sfaldarsi. Ero talmente annichilito da quella frana che stava aprendosi sotto di me che rivelai la mia pena ad uno dei miei vicini, uno un po’ più anziano di me, che mi ispirava fiducia per il carattere posato e riflessivo. Lui, che già c’era passato, mi suggerì alcune cose semplici ma efficaci che aveva sentite da uno psicologo, conosciuto in vacanza in Sardegna.

 

Si trattava di far fare dei semplici esercizi ai propri familiari; attraverso dei gesti, ripetuti  quotidianamente, si sarebbero ristabiliti l’ordine e l’armonia in famiglia. A dirlo è facile, ma in realtà non c’è niente di più tremendo che volere far fare delle cose agli altri sia pure ai propri cari: cominciano a dire che hanno altro da fare, che loro non sono lì per giocare oppure si ricordano di una telefonata urgente o di una pentola sul fuoco se si tratta di donne. La cosa che più vi fa male è vedere che tra voi e loro c’è come una lastra invisibile che non vi permette più di comunicare come una volta. Quelli che rispondono di più ai miei tentativi sono i maschi della famiglia: c’è di buono che ho recuperato una certa solidarietà di genere, che prima non conoscevo. Le femmine hanno imparato meglio a  defilarsi, con la scusa di qualche faccenda domestica, mentre i maschi sono più disponibili, più giocherelloni, forse anche perché non possono dire: devo andare a preparare il pranzo. Ad ogni modo adesso sto insistendo con loro: tutti i giorni io butto un cerchio o una pallina e loro devono riportarmela. Certo, come mi diceva Billi, quel mio vicino così ricco di esperienza, occorre avere molta pazienza perché gli umani non hanno la nostra bella prontezza di riflessi e poi si stancano subito, ma mi ha assicurato che, dopo qualche settimana di questi esercizi, lui, che era passato come me in queste angustie, era riuscito a stabilire di nuovo  chi era il capo branco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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1 risposta a FAMIGLIE — UN RACCONTO D’ANTAN DI DONATELLA D’IMPORZANO

  1. Roberto scrive:

    ci ho messo un po’ a capire che è una vita da cani.
    Come al solito: bello e arguto.

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