ALFREDO REICHLIN, ULTIMO ARTICOLO SULL’UNITA’ DEL 14 MARZO 2017

 

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L’UNITA’, 14 marzo
UN LUNGO SILENZIO A SINISTRA

di Alfredo Reichlin

L’ultimo articolo, quando finalmente scrive: Matteo, ora basta

Sono afflitto da mesi da una malattia che mi rende faticoso perfino scrivere queste righe. Mi sento di dover dire che è necessario un vero e proprio cambio di passo per la sinistra e per l’intero campo democratico. Se non lo faremo non saremo credibili nell’indicare una strada nuova al paese. Non ci sono più rendite di posizione da sfruttare in una politica così screditata la quale si rivela impotente quando deve affrontare non i giochi di potere ma la cruda realtà delle ingiustizie sociali, quando deve garantire diritti, quando deve vigilare sul mercato affinché non prevalga la legge del più forte. Stiamo spazzando via una intera generazione.

Sono quindi arrivato alla conclusione che è arrivato il momento di ripensare gli equilibri fondamentali del paese, la sua architettura dopo l’unità, quando l’Italia non era una nazione. Fare in sostanza ciò che bene o male fece la destra storica e fece l’antifascismo con le grandi riforme come quella agraria o lo “statuto dei lavoratori”. Dedicammo metà della nostra vita al Mezzogiorno. Non bastarono le cosiddette riforme economiche. E’ l’Italia nel mondo con tutta la sua civiltà che va ripensata. Noi non facemmo questo al Lingotto. Con un magnifico discorso ci allineammo al liberismo allora imperante senza prevedere la grande crisi catastrofica mondiale cominciata solo qualche mese dopo.

Anch’io avverto il rischio di Weimar. Ma non dò la colpa alla legge elettorale né cerco la soluzione nell’ennesima ingegneria istituzionale: è ora di liberarsi dalle gabbie ideologiche della cosiddetta seconda Repubblica. Crisi sociale e crisi democratica si alimentano a vicenda e sono le fratture profonde nella società italiana a delegittimare le istituzioni rappresentative. Per spezzare questa spirale perversa occorre generare un nuovo equilibrio tra costituzione e popolo, tra etica ed economia, tra capacità diffuse e competitività del sistema. Non sarà una logica oligarchica a salvare l’Italia. E’ il popolo che dirà la parola decisiva. Questa è la riforma delle riforme che Renzi non sa fare.

La sinistra rischia di restare sotto le macerie. Non possiamo consentirlo. Non si tratta di un interesse di parte ma della tenuta del sistema democratico e della possibilità che questo resti aperto, agibile dalle nuove generazioni.

Quando parlai del Pd come di un “Partito della nazione” intendevo proprio questo, ma le mie parole sono state piegate nel loro contrario: il “Partito della nazione” è diventato uno strumento per l’occupazione del potere, un ombrello per trasformismi di ogni genere. Derubato del significato di ciò che dicevo, ho preferito tacere. Tuttavia oggi mi pare ancora più evidente il nesso tra la ricostruzione di un’idea di comunità e di paese e la costruzione di una soggettività politica in grado di accogliere, di organizzare la partecipazione popolare e insieme di dialogare, di comporre alleanze, di lottare per obiettivi concreti e ideali, rafforzando il patto costituzionale, quello cioè di una Repubblica fondata sul lavoro.

Sono convinto che questi sentimenti, questa cultura siano ancora vivi nel popolo del centro sinistra e mi pare che questi sentimenti non sono negati dal percorso nuovo avviato da chi ha invece deciso di uscire dal Pd. Costoro devono difendere le loro ragioni che sono grandi (la giustizia sociale) ma devono farlo in un percorso aperto intento ricostruttivo e in uno spirito inclusivo. Solo a questa condizione i miei vecchi compagni hanno come sempre la mia solidarietà.

Il manifesto, 23 marzo
LA MORTE DI ALFREDO REICHLIN.
RAGAZZI, PARTIGIANI, COMPAGNI FELICI IN MEZZO AL POPOLO

di Valentino Parlato

«Il ricordo. Nel libro Il midollo del leone, il lungo sodalizio con Luigi Pintor, compagno di banco e di lotta».

Il compagno Alfredo Reichlin ci ha lasciato: è una seria perdita. E quando scrivo “compagno” ricordo l’epoca del protagonismo politico e culturale del Pci. Alfredo ne è stato uno dei migliori interpreti: uno straordinario compagno.

La sua vita è stata molto intrecciata a quella dei compagni che hanno fatto questo giornale. Innanzitutto a quella di Luigi Pintor. Erano compagni di banco, al liceo Tasso, ed è proprio grazie a Giaime che ambedue hanno preso la strada che poi li ha portati al Pci. Finirono la scuola nel ’43 ma nel grande edificio di via Sicilia tornarono assieme, armati di pistola, già universitari, per la loro prima azione temeraria: entrarono nella stanza del preside fascista, Amante, minacciandolo di rappresaglia se non avesse consentito lo sciopero degli studenti convocato per protestare per l’uccisione di Massimo Gizzio, studente antifascista in un altro liceo della capitale. Poi riuscirono a prendere contatto col Pci e furono arruolati, diciannovenni, nei Gap romani.

È sempre con Luigi che alla Liberazione decidono di fare il passo dell’iscrizione al Pci. «Eravamo comunisti?» – si è chiesto Alfredo nel bel libro scritto qualche anno fa (Il midollo del Leone, Laterza 2010). Lo siamo diventati dopo. E tuttavia se si vuole capire qualcosa della storia d’Italia e del perché il ruolo del Pci è stato così grande, tanti discorsi sul mito sovietico e sullo stalinismo servono ma fino a un certo punto. Non spiegano perché una generazione che dell’Urss non sapeva nulla (noi compresi) si gettava nella lotta. Non era Stalin ma la patria che ci chiamava. Può sembrare retorico, ma è la pura verità.

«Io non so se questo sentimento nazionale sarebbe scattato senza l’appello all’unità nazionale che ci arrivò da Napoli, dal capo dei comunisti, un certo Ercoli [nome di clandestinità di Palmiro Togliatti –n.d.r.] Dario Puccini, fratello del futuro regista Gianni, ci riunì a casa sua per spiegarci che l’obiettivo di questo Ercoli era la ’democrazia progressiva’.’Progressista’, cercai di correggerlo. No, ’progressiva’, mi rispose irritato, e mi spiegò il significato fondamentale di questa parola che alludeva a un processo in atto: a come, in certe condizioni, la democrazia poteva trasformarsi in socialismo.(Non ci sono barriere cinesi tra la democrazia portata fino in fondo e il socialismo). Lo aveva detto nientemeno che Lenin».

Fu di nuovo assieme a luigi che Alfredo approdò, già nel 1945, alla redazione dell’Unità. Togliatti, con grande coraggio, aveva capito che se voleva costruire un grande partito popolare doveva rendere protagonisti i giovani cresciuti nel paese durante il fascismo, non gli anziani, pur gloriosi compagni, tornati dall’esilio o usciti dalle carceri.

Di quel giornale – in cui io, più giovane di sei anni, entrai come correttore di bozze appena sbarcato dalla Libia – Alfredo divenne direttore, poco più che trentenne, succedendo a Pietro Ingrao. Ed è per “ingraismo” che ne fu allontanato nel ‘ 62 e spedito in Puglia dove era nato, ma non aveva mai vissuto (mentre Luigi per le stesse ragioni veniva spedito in Sardegna).

Segretario del partito in quella regione allora tutta bracciantile lo seguii poco dopo, perché anche io fui mandato «a conoscere l’Italia», e fui per alcuni anni il suo vice. Fu una straordinaria esperienza. Reichlin, sempre in quel libro in cui dà conto della sua vita, racconta il primo impatto con la Puglia, quando parla della felicità: l’immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia.

«La profonda emozione di riscoprire gli italiani, il paese vero:le borgate, le fabbriche, i braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera tanto tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza immensa e un mare di coppole. Gli zappatori. In Puglia incontrai una umanità: i compagni. Mi trovai immerso nella vita di un partito che era anche una straordinaria comunità umana».

Quando io arrivai in Puglia Alfredo era riuscito ad aprire l’organizzazione anche a qualche giovane che bracciante non era. Stava crescendo un gruppo di intellettuali – Franco De Felice, Mario Santostasi, Giancarlo Aresta, Beppe Vacca, Felice Laudadio – formatisi fra l’università e la casa Editrice Laterza.

Vito Laterza, che ne era il direttore, divenne nostro amico e ci offrì la vecchia villa dove d’estate alloggiava Benedetto Croce, autore fondamentale della casa editrice. Lì andammo a vivere con Alfredo, l’abitazione era bellissima ma ormai a pezzi, in attesa di essere demolita, gelida d’inverno. Lì si svolsero discussioni infinite sulla questione meridionale, di cosa voleva dire – non in astratto, ma a partire da quel contesto concreto – una rivoluzione in occidente che non fosse una semplice variante del riformismo socialdemocratico né del marxismo-leninismo di tipo sovietico. Fu una bellissima stagione.

Anche dopo – per tutti gli anni ’60 – continuammo a incontrarci molto: a Roma, a dirigere la commissione culturale, era venuta Rossana, molto amica di Alfredo, e sebbene non sia mai diventata una corrente, visse in quegli anni pre-’68 un’area ingraiana che la pensava in modo analogo. Così come Ingrao anche Alfredo non ci seguì nell’avventura de Il Manifesto.

Le nostre strade politiche si separarono, non i rapporti umani, sebbene per un po’ di anni, i primi, le relazioni fra chi come Alfredo e Ingrao faceva parte del vertice del partito e chi come noi ne era stato radiato, furono anche tesi.

Alfredo accettò la scelta della maggioranza del Pci anche quando si arrivò allo scioglimento del partito nel gennaio ’91 e poi le successive trasformazioni in Pds, Ds, Pd.

Una rottura gli è sempre sembrata un arbitrio, quasi un atto di superbia. Fino all’ultimo ha continuato a riferirsi a quel che era restato come “il Partito”. Non riusciva nemmeno a immaginarsene un altro. Ma alla fine non ha più retto e ha scelto anche lui la strada del dissenso aperto: votando No al referendum e scrivendo, solo pochi giorni prima di morire, a commento del Lingotto, un feroce articolo contro il renzismo.

le ultime pagine de Il Midollo del Leone sono dedicate ai fratelli Pintor.

Si parte dalla foto della loro classe di liceo e Alfredo torna a guardare quei volti di loro ragazzi. «Sopratutto – scrive- il volto di Luigi, il mio compagno di banco e fratello di Giaime, insieme al quale scoprivo i libri, facevo i grandi pensieri, e poi combattei fianco a fianco tra i partigiani, e poi ancora ci ritrovammo nella redazione dell’Unità. Era un ragazzo davvero straordinario e ne parlo perché vorrei che lo avessero conosciuto i tanti simili a lui, che certamente esistono e che ormai devono decidersi a prendere la parola. Luigi era il nostro capo…..Passò solo un anno ed egli venne a casa da me in quella sera tristissima del dicembre 1943 per dirmi che Giaime era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava la linea sui monti dell’Alto Volturno. Noi avevamo 18 anni, Giaime 4 o 5 di più. E Giaime resta per me il simbolo di una generazione».

Rispetto agli intellettuali antifascisti delle generazioni precedenti, questa non si è fatta affascinare dall’intimismo, ha «lasciato ai vecchi intellettuali delusi la confusione dei loro propositi. L’ultima generazione non ha avuto tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito».

E poi ricorda le parole di Calvino su Giaime: «L’esempio di Pintor, una delle tempre umane più estranee al decadentismo che pure veniva da un’educazione letteraria che era quella del decadentismo europeo, ci testimonia come in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia».

il suo libro, Alfredo lo conclude con queste parole: «Di questo ’midollo del leone’ c’è un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di nuovo quella domanda – credevate nella rivoluzione? – io risponderei con questi pensieri».

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