INTERVISTA AL PROF. LUCA SERIANNI ::: ” L’ITALIA DOVREBBE AVERE UNA POLITICA LINGUISTICA ? “

 

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Pubblicato in Politica ed economia

L’Italia dovrebbe avere una politica linguistica? Risponde il professor Luca Serianni

Lunedì, 06 Marzo 2017 17:42 Scritto da 

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Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana all'Università Sapienza di Roma.

Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana all’Università Sapienza di Roma.Università di Roma La Sapienza

L’Italia dispone di una politica linguistica? Il governo dovrebbe intervenire in maniera più incisiva sulle principali questioni linguistiche del nostro paese? Qual è il ruolo di organismi come l’Accademia della Crusca e la Società Dante Alighieri? A queste e altre domande ha risposto il celebre linguista e storico della lingua italiana Luca Serianni, con il quale abbiamo anche parlato della questione dell’italiano nei corsi magistrali del Politecnico di Milano, di scuola e dell’appello dei 600, dell’italiano nella pubblica amministrazione, dell’affermazione della lingua di genere e del declino presunto o reale della nostra lingua.

Professor Serianni, l’Italia ha oggi una politica linguistica?

Naturalmente no. Bisogna però chiedersi che tipo di politica linguistica possa avere un paese democratico. Un tipo di politica linguistica che si può fare è ovviamente l’investimento sulla scuola. Tutte le polemiche che si stanno svolgendo in questi giorni fanno proprio riferimento alla scuola. Una politica linguistica ufficiale, tuttavia, non può esserci perché anche i tentativi che sono stati fatti in passato come ad esempio in Francia, che ha una tradizione dirigistica ben diversa dalla nostra, non hanno funzionato. Penso alla legge Toubon, che imponeva che le scritte dei negozi fossero unicamente in francese e che vi fosse una quota obbligatoria consistente di canzoni trasmesse da ogni stazione radiofonica. Questa legge è stata bocciata dalla Corte Costituzionale francese. Nei paesi democratici ci devono essere delle regole condivise. Quindi sarebbe meglio che l’Italia non avesse una politica linguistica, quanto piuttosto una buona politica scolastica.

Quindi, i governi dovrebbero tenersi alla larga da qualsiasi forma di interventismo in campo linguistico?

Sì, se parliamo di governo. Se penso però al recente intervento della Corte Costituionale relativamente alla difesa dell’italiano come lingua della comunicazione superiore nella vicenda del Politecnico di Milano, questo tipo di interventismo mi sembra molto opportuno. Ma qui, appunto, non è stato il governo a prendere posizione e l’intervento procede da un organismo terzo per definizione. L’intervento è importante non perché si voglia inibire la circolazione dell’inglese come lingua veicolare, ma semplicemente perché il proposito del Politecnico era quello di eliminare completamente l’offerta dei corsi in italiano per lauree magistrali e dottorati.

Il MIUR o anche il Ministero dei Beni Culturali (MIBACT) non dovrebbero mai avere voce in capitolo?

Non devono avere un ruolo operativo. Naturalmente possono manifestare l’interesse al problema. Una cosa che si dovrebbe fare, ad esempio, è potenziare l’investimento per l’italiano all’estero. L’Italia investe per la sua lingua all’estero molto meno di quanto investano Spagna e Francia. Il confronto con l’Instituto Cervantes è particolarmente significativo. Gli spagnoli, che pure partono da una posizione di maggiore forza, hanno investito molto nella lingua. Noi lo facciamo pochissimo e questo certo sarebbe compito del governo. Se vogliamo considerare questo in termini di politica linguistica, allora sì: auspicherei un intervento diretto del governo.

Dal dopoguerra ad oggi ci sono stati governi che hanno applicato qualche forma di politica linguistica o governi che sono stati più attenti di altri alle questioni linguistiche?

No. I governi che si sono succeduti dal dopoguerra ad oggi hanno manifestato interesse solo per le questioni che riguardano la scuola. Nessun governo è mai intervenuto direttamente sulla lingua. Ci fu solo una proposta che poi abortì. Fu durante uno dei governi Berlusconi. La proposta riguardava la creazione di una sorta di centro di sorveglianza e di controllo della lingua, il “Consiglio Superiore della lingua italiana”. La proposta era stata formulata in un primo tempo in un modo un po’ ingenuo. Una sua successiva riformulazione (2005) era però diventata accettabile, almeno a mio giudizio, ma le proteste erano state numerose e per questo l’iniziativa non proseguì. Era stata proposta da un parlamentare di Forza Italia, il senatore Andrea Pastore. A parte questo caso molto circoscritto, non mi pare che i governi siano mai intervenuti.

Quindi lei trova positivo che i governi si astengano sempre dall’occuparsi di questioni linguistiche? Può esistere una via di mezzo tra il dirigismo e l’assenza assoluta di invertenti?

Ritengo che l’interventismo debba esercitarsi potenziando quelle istituzioni che sono deputate alla lingua. Penso alla Società Dante Alighieri che si occupa della rappresentanza dell’italiano all’estero. Penso poi all’Accademia della Crusca o alla rete degli Istituti di cultura. Insomma, investire sullo sviluppo dell’italiano all’estero è senz’altro un compito del governo. Pensare però che un governo possa agire sullo sviluppo della lingua e su come si parla non è possibile e neanche auspicabile.

Nella pubblica amministrazione ci sono spesso testi di indubbia qualità e poco chiari o strabordanti di anglicismi. Come si può intervenire per ridurre la portata di questo fenomeno?

Questo è un ambito nel quale certamente lo Stato potrebbe intervenire, poiché si tratta di documenti che esso stesso produce e che devono essere chiari, lineari e comprensibili a tutti. È ovviamente ridicolo il ricorso all’inglese per nozioni che possono essere espresse in italiano, quando appartengano a settori che riguardano l’attività dello Stato. Qui, naturalmente, c’è spazio per un intervento di politica linguistica.

Come si potrebbe intervenire, con manuali di stile, linee-guida?

Linee-guida come quelle che sono state suggerite alla fine degli anni novanta dal grande giurista Sabino Cassese. Il suo manuale di stile ha avuto un certo seguito. So che molte amministrazioni comunali negli anni successivi sono intervenute per razionalizzare la comunicazione linguistica con i cittadini. Sicuramente e sono degli interventi da salutare con favore. L’iniziativa di Cassese si svolgeva appunto in un alveo istituzionale. Era un’iniziativa governativa non in senso stretto ma comunque legata alla pubblica amministrazione.

Tornando alla questione dell’italiano all’estero. L’Italia è in grado di esercitare quello che in geopolitica si definisce come softpower?

Una maggiore presenza della lingua italiana all’estero potenzierebbe indubbiamente anche il turismo. E sappiamo quanto il nostro comparto turistico soffra attualmente. Un investimento economico sulla lingua avrebbe ripercussioni positive anche in termini economici per il nostro paese. Questo tema dovrebbe essere nell’agenda di qualsiasi governo. Gli investimenti dovrebbero poi puntare ai paesi che hanno recentemente mostrato maggiore interesse per la nostra lingua. Penso agli Stati Uniti, ai paesi dell’Europa dell’est o alla Cina con il suo immenso mercato, anche turistico.

Che consigli darebbe al prossimo Presidente del Consiglio in tema di lingua?

Gli consiglierei di intervenire in due direzioni. La prima sarebbe proprio la diffusione dell’italiano all’estero, intervenendo in tutti i canali in cui questo è possibile. La seconda, ovviamente, è rafforzare la presenza della lingua italiana a scuola. In particolare, cosa questa abbastanza facile, rinnovando un po’ certi aspetti della didattica. Andrebbero potenziate le prove che riguardano le abilità di comprensione di un testo. Queste prove instaurano un circolo virtuoso assolutamente fondamentale. Non possiamo solo accontentarci di verificare se si conoscono le subordinate, che ovviamente mi stanno molto a cuore, sia chiaro. Ma l’aspetto centrale è leggere un testo, che può essere anche un testo di giornale o un saggio di divulgazione scientifica, e vedere che cosa si è capito attraverso il meccanismo dell’inferenza. Cioè formulando una serie di affermazioni relative agli argomenti toccati nel testo e chiedendo all’alunno se si tratta di deduzioni corrette, cioè ricavabili effettivamente dal testo, oppure no.Questo è un meccanismo di forte valore educativo,per quanto riguarda il possesso della lingua ma anche i diritti di cittadinanza che vuol dire assicurarsi della capacità di un diciottenne scolarizzato di affacciarsi sul mondo con consapevolezza partendo da un corretto, ampio e approfondito della sua lingua materna.

Si tratta in sostanza di adattare la didattica linguistica della scuola alle indicazioni sviluppate dal mondo scientifico negli ultimi trent’anni e all’idea che la lingua sia soprattutto un veicolo per il successo sociale delle persone.

Proprio così.

Cosa pensa a proposito della questione linguistica relativa ai brevetti? Oggi per registrarli in Europa lo si può fare solo in inglese, francese e tedesco. Su questa decisione delle autorità di Bruxelles il governo Renzi non ha battuto ciglio.

Questo è stato effettivamente grave, perché è anche un fatto banalmente di identità nazionale, che viene messa in dubbio. L’Europa nasce sul presupposto della parità di tutte le lingue. O resta una unica lingua veicolare e strumentale come l’inglese oppure sono tutte sullo stesso piano. Nel momento in cui anche francese e tedesco diventano di fatto lingue sovraordinate dell’Unione europea, l’Italia, che ne è stata uno dei suoi soci fondatori, non può rimanere indietro. Nella politica estera ha una grande importanza la dignità con cui una nazione si presenta nel consesso internazionale. Ovviamente trovo deplorevole che non sia stato fatto nulla per affermare il ruolo dell’italiano nell’Europa e nelle istituzioni europee.

Il governo Renzi, però, ha fatto qualcosa per la lingua di genere.

Direi di sì. Anche se la parità di genere sul piano linguistico non può essere decisa dall’alto. Personalmente sono favorevolissimo a dire ministra o sindaca. Ci sono però molte donne che non amano affatto farsi chiamare al femminile. Penso, ad esempio, al fatto che non ci sono avvocati donna che si facciano chiamare avvocata, perché questa forma può sembrare ridicola, mentre avvocatessa è avvertita come una deminutio. Le donne che svolgono questa professione si fanno chiamare avvocato. Allora è chiaro che non si può imporre in generale men che meno alle stesse donne di definirsi in un modo o nell’altro dal punto di vista professionale. Questo della parità di genere da un punto di vista linguistico è un tipico caso in cui conta l’esempio. E quindi certo se i grandi giornali e le emittenti televisive cominciano a dire sindaca e ministra (ma anche avvocata, perché no?), alla fine queste forme hanno ottime possibilità di diffondersi. Ci sono, tuttavia, molte resistenze. Penso a una persona autorevole come l’ex presidente Giorgio Napolitano, il quale ha preso posizione anche vivacemente contro questi femminili

Ci sono del resto molte forzature anche in tema di politicamente corretto.

Le forme della lingua di genere e del politicamente corretto non possono essere scelte e imposte. Nell’uso si possono affermare, tuttavia, anche forme molto innovative. Quello che si può fare è favorire, nel caso in cui le condividamo, l’uso di queste innovazioni.

Nel caso della grammatica della parità, ci sono problemi di tipo morfosintattico o è solo un problema culturale?

È un problema culturale, che ha un risvolto linguistico non facilmente superabile. Penso soprattutto agli articoli di legge, in cui si debba ricorrere sempre a nomi non marcati. Caso tipico è l’espressione il cittadino o la cittadina. Se io sono costretto ogni volta a dire il cittadino o la cittadina ho una serie di difficoltà, non fosse altro per il richiamo pronominale gli o le. E poi anche perché se per caso mi scappa una volta il nome non differenziato per genere, come ad esempio “il pensionato dovrà rivolgersi al funzionario”, allora si potrebbe interpretare per assurdo in modo letterale come se il funzionario debba essere di sesso maschile. Ci vuole in tutte le cose, e qui più che mai un po’ di buon senso. Quando si parla di articoli di legge, il maschile vale ovviamente per tutti i generi. Pensiamo alla Costituzione: dove si afferma che “tutti i cittadini sono uguali”, si capisce che si sta parlando di maschi e femmine, non c’è bisogno neanche di dirlo.

Del resto ciò sta avvenendo per la forma sindaca grazie alla recente elezione delle sindache Raggi e Appendino rispettivamente a Roma e Torino.

Il fatto che entrambe abbiano accettato da subito di farsi chiamare sindache ha contribuito al successo di questa forma.

Passiamo a parlare dell’appello dei 600, il declino dell’italiano a scuola è reale o percepito?

In parte c’è un declino percepito generazionalmente. Però c’è anche da dire che ci sono dei problemi reali di cui i Seicento si sono fatti in parte interpreti. Va detto che il problema dell’ortografia è un problema in genere gonfiato. L’ortografia è un aspetto non così centrale della lingua rispetto ad altre abilità. È pur vero, però, che dovrebbe essere risolto a livello di scuola primaria. L’italiano non ha un’ortografia molto difficile rispetto, ad esempio, a quella del francese e dell’inglese. È curioso che certi errori si trascinino nel tempo. L’errore ortografico andrebbe evitato perché va incontro a una forte sanzione sociale. Per questa ragione vari articolisti, nonché storici e politologi se trovano un errore di ortografia in uno scritto lanciano un grido d’allarme.

La cosa paradossale, tuttavia, che sono spesso i linguisti come lei ad essere percepiti come i pedanti del caso.

Quello che conta in linguistica è il testo. La capacità di produrre, interpretare e muoversi all’interno di un testo, anche con la necessaria ricchezza lessicale, è oggi centrale per noi linguisti interessati ai problemi della scuola. Sempre più giovani oggi sono lontani dal lessico intellettuale e astratto. Molti errori nello scritto dei nostri studenti sono anche e soprattutto di natura lessicale. Siamo sempre meno abituati a interagire con tutta la cultura scritta che ci circonda.

In questa censura degli ortografia non c’è anche il desiderio di denigrare e declassare il proprio interlocutore? Non si tratta, in fondo, di una forma di manipolazione della comunicazione?

Non c’è alcun dubbio che sia così. L’importante è non prestare il fianco a questo tipo di manipolazione o polemica. Se non ci fossero deviazioni vere o presunte della lingua, penso al dibattito politico, se ne troverebbero altre. Penso anche alle polemiche un po’ stucchevoli sul congiuntivo. Si potrebbe dire non c’è niente di meglio da criticare. Però a volte sarebbe giusto, in politica in particolare, che si parli in modo un po’ più controllato e che si rappresentino i cittadini in un modo un po’ più alto.

Quindi, un peggioramente dell’italiano dei giovani è un dato di fatto? Ci sono dati reali che lo dimostrano?

Il dato reale che veramente è sotto gli occhi di tutti è il declino per quanto riguarda la confidenza con l’italiano scritto. Questo si può verificare sottoponendo a dei giovani un editoriale giornalistico per vedere quante sono le parole che appartengono a un lessico colto che sfuggono o che non vengono proprio più percepite. Questo è indubbiamente un aspetto reale. C’è oggi una minore abitudine a leggere e, in particolare, a leggere con la necessaria lentezza che richiede la carta stampata. È un problema, tuttavia, che non riguarda solo l’Italia, ma tutto il mondo globalizzato.
Che, invece, l’italiano come lingua parlata sia in declino è una leggenda metropolitana. Non è così.

A proposito di bufale e leggende metropolitane, l’italiano rischia di scomparire?

La lingua non è mai in pericolo quando ci sono i parlanti che la usano. Noi siamo oltre sessanta milioni, non ci dobbiamo preoccupare che la nostra lingua possa scomparire. Rischiano di scomparire solo alcuni dei circa seimila idiomi nel mondo, soprattutto nell’Africa subsahariana e nell’Oceania, che sono parlati da comunità di sei o settecento persone. In questi casi il rischio è molto alto. Noi non siamo in questa condizione.

Grazie per l’intervista, a risentirci,
A presto.
© Informalingua

Luca Serianni insegna Storia della lingua italiana all’Università Sapienza di Roma. Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, della Crusca, dell’Accademia delle Scienze di Torino e vice-presidente della Società Dante Alighieri, dirige due riviste scientifiche. Si è occupato di vari argomenti di storia linguistica italiana, antica e moderna, ed è autore di una fortunata Grammatica italiana (1988), più volte ristampata. Ultimo volume pubblicato: Parola, Il Mulino, 2016.

 

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2 risposte a INTERVISTA AL PROF. LUCA SERIANNI ::: ” L’ITALIA DOVREBBE AVERE UNA POLITICA LINGUISTICA ? “

  1. Carine scrive:

    Credo che fare lezioni universitarie solo in inglese, come al Politecnico di Milano, sia un fenomeno di volgare provincialismo, come i discorsi di Renzi in inglese e di tutti quelli che fingono o vogliono dimostrare la padronanaza di questa lingua. Sapere l’inglese è invece una cosa importante, non solo per potere conoscere un’altra cultura, ma anche perché apre le porte ad una serie di lavori. Penso che, quando non c’è una esigenza particolare, sia normale esprimersi nella lingua materna. Ci sono poi dei bravissimi traduttori che sono apposta lì per tradurre. Se delle parole o espressioni inglesi hanno un corrispettivo in italiano, non vedo perche non usarle. L’obiettivo principale di una lingua è quello di comunicare nel modo più chiaro possibile, quindi via tutte le parole incomprensibili al lettore comune, a meno che non si metta a fondo pagina una spiegazione. Penso a certi gerghi della burocrazia e dei tribunali, che fanno pensare al latinorum preso in giro così bene dal Manzoni. La lingua, parlata e scritta è nata per comunicare, non per essere uno strumento di ingiustizia sociale.

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