LUCIANO DEL SETTE, NUORO, VIVIAN MAIER, QUEI RULLINI MAI SVILUPPATI DI UNA TATA FOTOGRAFA DI STRADA ( STREET PHOTOGRAPHER)

IL MANIFESTO-ALIAS- 18 LUGLIO 2015–MOSTRA AL ” MAN ” (MUSEO D’ARTE DI NUORO)- al fondo un’intervista breve al direttore del Museo

https://ilmanifesto.it/vivian-maier-quei-rullini-mai-stampati/

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… Donna armena discute con un poliziotto a New York, 1956. –

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ALIAS

Vivian Maier, quei rullini mai stampati

Mostre. Un rigattiere per quattrocento dollari comprò una cassa con migliaia di negativi e scoprì un personaggio di eccezionale talento. Dopo Chicago, una mostra a Nuoro ora celebra la reporter di strada più famosa del secolo

Il privilegio è grande. Poter camminare pressoché in solitudine nelle sale dove tra poche ore si affollerà il pubblico. E con il pubblico arriveranno le telecamere e i microfoni dei giornalisti, i commenti, il tintinnar di bicchieri. Tra poche ore la solitudine, il silenzio delle sale, verranno riempiti dalla necessità del rito di inaugurazione. E Vivian Maier salirà sulla ribalta del MAN, Il Museo d’Arte di Nuoro. Forse, per l’ennesima volta, la prima in Italia, Vivian non lo avrebbe gradito. Forse non avrebbe gradito le sue foto appese ai muri, o almeno quelle scelte, per forza di cose, da altri. E neppure avrebbe gradito così tanta folla, tanta attenzione, tante domande prive di risposta, tanto stupore. Il privilegio è grande. Poter camminare pressoché in solitudine e provare a cercare in ogni foto un brandello della vita di Vivian, o meglio provare a farlo. Perché lei, all’inaugurazione della mostra di Nuoro non ci sarà. Non c’era neppure a Chicago, a New York, a Parigi e altre capitali d’Europa. Per il semplice fatto che Vivian Maier è morta, congedata dal mondo in un necrologio tanto anonimo quanto, guardando alla sua vita, ridicolo ‘Si è spenta serenamente Vivian Maier’, anno 2009. Per il semplice fatto, ma semplice solo in apparenza, che della ‘bambinaia fotografa’ nessuno aveva mai sentito parlare, nessuno aveva mai visto uno scatto. Compreso chi adesso ne scrive. Quante mostre avete visitato, richiamati dalla celebrità del fotografo? Ogni volta, giustamente, siete ricorsi a internet per documentarvi, approfondire. Oggi, digitando Vivian Maier su google, appaiono biografie, articoli, filmati. Ieri non avreste trovato una riga. Oggi, digitando John Maloof su google, lo troverete sempre associato a Vivian. Ieri non avreste trovato una riga. La storia che da qui in poi racconteremo è strumento indispensabile per capire, interrogarsi, emozionarsi davanti a ciascuna delle centoventi foto della mostra; una storia che giustifica l’uso degli aggettivi bellissima, magnifica, incredibile; una storia che conferisce senso a domande del tipo ‘come avrà fatto?’ ‘dove avrà trovato quella faccia?’, ‘ma l’avrà messo in posa?’. È bene saperlo: senza conoscere quanto finora si è riusciti a conoscere della vita di Vivian Maier, diviene impossibile comprendere quanto ha lasciato su migliaia di negativi e che in minuscola, seppure significativa parte, è in mostra al MAN. Annotate queste quattro parole, fondamentali nell’esistenza di una donna nata a New York il primo febbraio del 1926 da padre di origine austro – ungarica e madre francese, morta a Chicago il 21 aprile del 2009: compulsione, anonimato, solitudine, genialità. Quattro parole, quattro elementi che, a posteriori, hanno portato la critica a definire Vivian una delle figure di spicco del reportage di strada. Gli scherzi del destino non sono soltanto un facile modo di dire. Molti hanno visto, nell’incontro a distanza tra Maier e Maloof, un destino da anni in attesa di compiersi, aiutato da forti somiglianze caratteriali.

Prima parola da ricordare, compulsione. Scrive lo psicologo e psicanalista Roberto Goisis in uno dei saggi che compongono il libro allegato al film in dvd Alla ricerca di Vivian Maier (Feltrinelli Real Cinema) «Ci sono incredibili sovrapposizioni e sinergie tra loro due. John sente di dover compiere una missione… Lui stesso si definisce così ‘Sono un po’compulsivo’… Non si capisce bene quale professione svolgesse o chi fosse prima della ‘scoperta’. Si definisce un ex rigattiere… Possiamo dire tranquillamente che fosse un collezionista… Possiamo sostenere che per John Maloof… il film (Maloof è autore del soggetto, direttore della fotografia e regista, ndr) abbia rappresentato un suo personalissimo percorso alla ricerca di se stesso, se non della sua identità, certo della sua professione». Chi è John Maloof? Figlio di una stirpe di rigattieri, nato nel 1981 a Chicago, decide di mettersi a scrivere un libro che racconti i quartieri della città. È il 2009 quando partecipa a un’asta in cui vengono battuti numerosi scatoloni. Alcuni sono zeppi di negativi. John se ne aggiudica gran parte per meno di quattrocento dollari, ed è costretto a portarsi via anche abiti, scarpe, cappelli, ricevute, ritagli di giornali, volantini, biglietti dei mezzi pubblici. Il tutto apparteneva a una certa Vivian Maier. Su di lei, google non dà risposte. John decide di scannerizzare una quarantina di foto. Le posta e scatena un coro unanime di lodi entusiaste. Nessuno, però, ha idea di chi sia l’autrice degli scatti. Il giovane e ormai ex rigattiere si trasforma in detective. Trova alcuni numeri di telefono su scontrini e ricevute, negli anni ’50 e ’60 senza prefisso urbano. A forza di tentativi, riesce finalmente a mettersi in contatto con i titolari di un self storage, un deposito. Saltano fuori mucchi di scatoloni, valigie, bauli, scatole di ogni forma e dimensione. Insieme ad altri negativi e rullini in attesa di sviluppo. John se li prende, li stipa in casa e si mette a fare un inventario. Adesso il suo patrimonio fotografico ammonta a centomila negativi, duemila rullini in bianco e nero non sviluppati, settecento rullini a colori anch’essi non sviluppati, centomila pellicole in otto e sedici millimetri. Di nuovo si affaccia l’interrogativo, già vagamente in odore di ossessione: chi era quella signora che aveva accumulato una quantità impressionante di immagini tra il 1950 e la fine del Ventesimo secolo? Per quale ragione si portava dietro un immenso bagaglio di cose personali mischiate a cose apparentemente inutili? John, però, una certezza la possiede: la Maier è stata una grande fotografa, e dunque la sua opera va divulgata. Tat Gallery, Moma e istituzioni varie respingono il materiale, adducendo la scusa di produrre soltanto mostre o volumi di autori viventi. Scusa speciosa. non veritiera. Finalmente arriva l’ok dal Chicago Cultural Center. All’inaugurazione, e nei tre mesi della mostra Finding Vivian Maier: Chicago Street Photographer, da gennaio ad aprile 2011, il Centro Culturale registra un afflusso record di pubblico. La stampa, le televisioni, i talk show rilanciano a milioni di persone l’interrogativo di Maloof. Un quesito non chiuso innanzitutto per lo stesso John, che usando internet, telefono, ritagli, un giorno riceve una risposta a dir poco inattesa ‘Vivien Mayer? Era la mia bambinaia!’.

Seconda parola da ricordare: anonimato. Una serie di viaggi da New York al Minnesota danno modo a Maloof di cominciare a disegnare un identikit della fotografa. Ma è giusto definirla tale e basta? No. Il detective per caso incontra gli ex rampolli di famiglie benestanti. Parlano con lui seduti in comodi divani, quadri alle pareti dei saloni, caminetto acceso. Upper class. Ricordano bene quella strana figura entrata a far parte della loro vita per uno o più anni. Tutti la descrivono molto alta, vestita con cappelli di feltro e lunghi abiti «Somigliava, nell’abbigliamento, alle donne dell’Unione Sovietica», andatura militaresca a lunghi passi e braccia oscillanti avanti e indietro, capelli arruffati a cresta oppure lisci e corti. Tratteggiano una persona gentile, accudente, capace di inventare per loro avventure mirabolanti. Questa era la Vivian caregiver, badante. Parallela a una Vivian nascosta dietro l’anonimato di un mestiere umile, faticoso, di scarso reddito, e subito oltre la porta della sua camera, resa inaccessibile grazie a una robusta serratura e a un ordine imposto con garbo, ‘Non entrate mai in camera mia’. Dice nel film un’intervistata «Una volta Vivian lasciò la porta semiaperta, ed ebbi così la possibilità di sbirciare all’interno. C’erano pile di giornali quasi fino al soffitto, cose sparse ovunque». Identico spettacolo si offre a una seconda intervistata durante un’ispezione alla stanza di Vivian, perché il soffitto dello studio sottostante dava segnali di crollo «Mi ritrovai a camminare in spazi strettissimi, gli unici lasciati liberi da ciò che Vivian continuava a radunare». Fuori dalla stanza e dalla casa, la bambinaia fa di tutto per nascondere colei che è davvero. Fornisce a una commessa il cognome Smith per una ricevuta; a volte dice di chiamarsi (e si firma) Mayer, oppure Meier. Vaghe le sue risposte a chi le chiede le origini dell’accento francese, avvertibile, nonostante il lungo tempo in America, nella sua parlata. L’accumulo compulsivo sfocia nella creatività della fotografia. Tutti gli ex bambini rammentano la bambinaia con al collo la Rolleiflex nel verde di un parco, su una spiaggia, più sovente in giro per i quartieri di New York o Chicago. La Rolleiflex è una macchina che si tiene all’altezza del ventre. La messa a fuoco e lo scatto non avvengono tramite mirino. Dunque, chi fotografa può vedere e non essere visto, è presente e al medesimo tempo invisibile. Anonimo, appunto. Non soltanto da un punto di vista anagrafico. Gli scatoloni abbandonati, poi ritrovati da John, hanno protetto una raccolta di giornali dove sono evidenziati fatti di cronaca soprattutto nera: omicidi, follia improvvisa e tragica, rapimenti, stupri, morti rimaste senza spiegazione. Sarebbe sbagliato azzardare l’ipotesi di una donna che amava la brutalità, il sangue, la malvagità. Giusto, invece, pensare che attraverso quelle cronache, Vivian abbia appreso e affinato la capacità di ‘leggere’ le strade metropolitane nei loro aspetti più degradati e più poveri. Se ne parlerà poco oltre. Alla sfera dell’anonimato appartiene anche una questione importante e non risolta. Perché la fotografa tenne per sé, senza mai stamparli e sviluppando un quantitativo tutto sommato modesto di rullini, gli scatti realizzati? Avrebbe potuto diventare famosa. Optò per la condizione opposta. Forse aveva deciso di mettere su carta qualcuna delle sue immagini, affidandole al negozio di fotografia del paese materno. Toppo tardi, però.

Adesso occorre dare spazio alla terza parola, solitudine. Vivian, quanto narrato sin qui lo dimostra, era una donna sola. Se per scelta o per forza, rimane impossibile affermarlo con certezza. Ma non bastano la porta chiusa della sua stanza, le false generalità, il mondo vietato agli altri ad esaurire il quadro. Il discorso è più complesso, si attorciglia nelle contraddizioni di una figura capace di esprimere amore autentico per i ‘suoi’ bambini, e poi estraniarsi da loro totalmente; di riservare ai suoi padroni, salvo rari casi, una manciata di parole venate di bugie a suo uso e consumo; di nascondere e portarsi nella tomba il segreto di una probabile violenza foriera di ostilità verso gli uomini e il matrimonio. «Una volta, mentre le ero seduta in braccio, mi disse ‘Gli uomini ti tengono sulle ginocchia finché cominci a sentire qualcosa, una punta. Non fidarti mai degli uomini’». Nel 1959 la Maier si licenzia dalla famiglia presso cui lavora, annunciando che se ne andrà in giro per il mondo. Il viaggio durerà otto mesi: mezzo secolo fa, da sola, attraverso l’America, l’Europa, l’Asia, spostandosi con mezzi di fortuna. Poi il ritorno alla routine. Quando inizia la parabola discendente che porta Vivian ad alterare la gentilezza, la pazienza, l’amore fin lì dimostrati? Sappiamo che, minimizzando con un sorriso, chiese a una famiglia intenzionata ad adottare un bambino di adottare lei. Sappiamo che, verso la fine degli anni ’80, una famiglia le proibì di portare i figli nei quartieri poveri di Chicago. Sappiamo che la sua misantropia assunse una vena di crudeltà sul finire della carriera di bambinaia «Mi forzava a mangiare quello che avanzavo nel piatto, me lo spingeva in gola e a me veniva da vomitare. Non dissi nulla a mio padre, altrimenti avrei dovuto raccontare che Vivian mi prendeva per le braccia e mi faceva girare sbattendomi il corpo contro i mobili». Il cerchio si chiude nei primi anni del Terzo Millennio. La Maier va a vivere in un paese poco lontano da New York, sulla costa. Tutti conoscono ‘la francese’ che fruga nei cassonetti, mangia carne non riscaldata da una scatoletta, siede per ore e ore su una panchina. Una sua vecchia datrice di lavoro la incontra andando con amici verso uno stabilimento balneare. Le due donne si riconoscono, pur se sono passati trent’anni. Parlano, cercano uno scudo nelle banalità dei discorsi. Al momento del congedo, Vivian implora ‘Parlami, parlami, parliamo’. Non è possibile, la sua vecchia padrona deve andarsene. La solitudine è rimasta l’unica, fedele compagna. Pochi giorni dopo un’ambulanza porterà in ospedale quella donna vecchia, piegata da un malore che l’ha colta per strada. Lo avevamo premesso: senza conoscere quanto si è riusciti a conoscere finora della vita di Vivian Maier, diviene impossibile comprendere quanto ha lasciato su migliaia di negativi. Adesso, forti della quarta parola, genialità, potete entrare nelle sale del MAN, rimanere con lo sguardo incollato al bianco e nero di centoventi immagini che restituiscono la condizione umana delle metropoli americane a metà del secolo scorso, diventando simboli universali al di là della datazione e dei luoghi. Certo, quello di Vivian è reportage di strada che poggia su basi precise e identificabili. Certo la disperazione, l’abbrutimento, la perdita di ogni misura sociale o il tentativo vano di conservarne un minimo residuo hanno attori precisi. Certo le acconciature e i cappelli delle signore, gli sguardi adolescenti e innamorati, gli autobus e i vagoni della metropolitana dove siedono impiegati e anziani leggendo il giornale, le facce nere, i rifiuti abbandonati, i poliziotti cerberi portano il marchio Made in Usa e l’impronta del tempo. Ma possiedono la forza cruda e crudele presente nelle viscere di ogni metropoli ad ogni latitudine. Vivian la scoprirete in uno dei tanti autoritratti: fantasma incorniciato dal riflesso di un vetro, ombra allungata su un prato, bambinaia con la Rolleiflex in mano dentro la cornice di una vetrina. Elementi estranei interferiscono con le immagini, ne disturbano la piena leggibilità. Perché Vivian Maier si può soltanto immaginare. Parole di John Maloof.

Informazioni pratiche

Vivian Maier, Street Photographer

Museo d’Arte di Nuoro (MAN)

Via S. Satta 27

Fino al 18 ottobre

Per informazioni, 0784/252110, museoman.it

Catalogo, Edizioni Contrasto, pp. 285, € 39

Approfondimenti: vivianmaier.com, findingvivianmaier.com

Intervista al direttore del MAN

Da EX3, Centro per l’Arte Contemporanea di Firenze al MAN di Nuoro. Il salto lo ha compiuto Lorenzo Giusti, toscano, poco meno di quaranta primavere e da tre anni direttore del museo. A lui si deve, in collaborazione con la curatrice europea Anne Morin, la mostra su Vivian Maier. Altro salto: dagli States e le capitali europee le foto di Vivian sono approdate alla cittadina sarda. Direttore, come ci è riuscito? «Mi capita sovente di ribadire che il luogo fisico non riveste molta importanza. Sta a te pensare che Nuoro, ma non solo, può diventare New York o Los Angeles. Quel che conta è il modo di pensare la cultura, e nello specifico l’arte contemporanea». Vale a dire? «Pensa globalmente, agisci localmente». Suona un po’come uno slogan «Per me lo spazio di un museo deve essere assimilabile a quello dell’agorà greca, la piazza. È uno spazio di proposte e confronti; uno spazio didattico in cui allargare e misurare le proprie conoscenze. Quando dico ‘agire localmente’, non intendo soltanto riferirmi al luogo fisico in cui si svolge una mostra. Agire localmente significa stimolare la partecipazione dei cittadini, compiere con loro scelte di crescita e di sviluppo culturale». È una strada che lei sembra percorrere senza timori. Accanto alla mostra della Maier, il Man ospita i collages di Thomas Hirschorn, artista svizzero moto quotato che centra il suo lavoro su forti provocazioni visive. Terzo ospite Sardegna Reportage 2015, una collettiva ispirata alla fotografia di strada «Parlare di agorà, di spazi di confronto, di pensiero globale e locale significa proprio questo. Un museo non deve essere esposizione di opere e basta. Ma realtà che non smette di agire e interagire» (l.d.s.)

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