PAOLO MEREGHETTI, IL CORRIERE DI IERI:: JERRY LEWIS, UN REGISTA NELLA STORIA DI HOLLYWOOD CHE CAMBIO’ LE REGOLE DELLA COMICITA’

 

CORRIERE DELLA SERA DI LUNEDI’ 21 AGOSTO 2017

http://www.corriere.it/spettacoli/17_agosto_21/regista-storia-hollywood-che-cambio-regole-comicita-a876f488-85ef-11e7-b1e0-e6345c4f0510.shtml

 

Un regista nella storia di Hollywood che cambiò le regole della comicità

Gag distruttive e rivoluzionarie. Disprezzato dai critici Usa, amato dal pubblico

A ricordare oggi, in mortem, la grandezza di Jerry Lewis come regista si rischia di stupire più di un lettore. Eppure se il «nipote picchiatello» (rubando lo scorretto ma illuminante titolo italiano di un suo film con Dean Martin, You’re Never Too Young) ha diritto a un posto importante nella storia di Hollywood, quel posto è proprio quello del regista-comico più che quello del tradizionale attore-comico. È in questa attività davanti e dietro la macchina da presa (oltre che alla macchina da scrivere), in una manciata di film diretti caparbiamente contro tutto e contro tutti, proprio mentre il sistema produttivo hollywoodiano cominciava a franare, è in questi pochi titoli che Jerry Lewis dimostra la sua creatività, il suo statuto di «autore» e soprattutto la sua geniale modernità (all’origine, ahimè, anche di tante incomprensioni).

Dal 1960 al 1965: Ragazzo tuttofare, L’idolo delle donne, Il mattatore di Hollywood, Le folli notti del dottor Jerryll, Jerry 8 e 3/4 (altro insensato titolo italiano, per l’originale The Patsy) e I sette magnifici Jerry. Sei film scritti, interpretati e diretti a rotta di collo, amati dal pubblico (ma meno delle commedie con Dean Martin o quelle in cui si affidava a Frank Tashlin) e disprezzati dalla critica Usa (non da quella francese e da alcuni lungimiranti critici italiani: Aprà, Fofi, poi Marchesini). Sei autentiche micidiali bombe capaci di far esplodere quel che restava dei valori consolidati nel cinema e nella società americana. Nel 1959, l’Academy incoronò con undici Oscar Ben Hur, la quintessenza del film vecchia maniera, con una storia forte affidata a star di sicuro richiamo e dispendio di comparse e mezzi. L’anno dopo Ragazzo tuttofare ha addirittura bisogno di un prologo, con un finto producer Paramount (l’attore Jack Kruschen), per spiegare al pubblico che quello che stanno vedendo è «un film senza storie e senza trama» ma che fa ridere lo stesso. E in effetti la storia del fattorino d’albergo Stanlio è «solo» una serie di gag irriverenti e distruttive, con il protagonista che non dice mai una battuta («perché nessuno mi ha chiesto mai niente» spiegherà alla fine) ma che smonta ogni tipo di logica, disarticola i tempi narrativi, cancella la «vecchia» comicità basata sulla conseguenza di causa-effetto ed eleva l’assurdo a motore universale.

Per farlo spesso il suo personaggio deve «tornare» bambino o ingenuo o comunque «picchiatello», deve farsi carico di tante paure (a cominciare da quella della donna. Sottile ma non insignificante variazione rispetto alla misoginia: Jerry le donne le amerebbe, ma senza accettare i modelli maschili imperanti), schiacciato dagli oggetti-simbolo della ricchezza, del consumo, dell’opulenza. Ma in questo modo butta all’aria Hollywood e le sue regole: gli stereotipi, i generi, le consuetudini. E con quello della finzione distrugge anche quello della realtà. La sua gag disturba un secondo dopo aver fatto ridere, perché chiede allo spettatore di accettare una logica tutta inedita, non tradizionale. Con lui, il tempo e lo spazio perdono il loro valore usuale così come gli oggetti d’uso più comune possono trasformarsi in nemici incontrollabili e invincibili. E come i suoi personaggi sono spesso variazioni plurime a partire da un unico volto d’attore (non c’è film in cui Lewis non si conceda almeno due parti) così il mondo dei suoi film si moltiplica come in un infinito gioco di specchi, dove la realtà diventa sempre più sfuggente e ambigua. Ultimo e definitivo sberleffo di un autore «costretto» a travestirsi da bambino per raccontarci le dure verità degli adulti.

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