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LIMES ONLINE, AGOSTO 2017

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APOLOGIA DELLA RIVOLUZIONE CURDA

Pubblicato in: IL MITO CURDO – n°7 – 2017

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali, 2017

La difesa del Rojava e il confederalismo di Öcalan sono più di una causa nazionale. Sono un esperimento politico-sociale che mira a sovvertire millenni di patriarcato e sfruttamento in vista di un ideale democratico. Karim Franceschi e i combattenti italiani.

di Anna Irma Battino e Marco Sandi

1. Era dai tempi della calata delle «tute bianche» in Messico che una causa internazionale non agitava tanto i movimenti politici e sociali italiani.

La guerra civile in Siria ormai marcia ferocemente verso il suo settimo anno e non se ne intravede la fine. Il conflitto ha sorpreso e sconvolto l’opinione pubblica mondiale con le atrocità che attraverso i media, soprattutto Internet, hanno fatto irruzione nel nostro quieto vivere.

La violenza estrema ha però fatto emergere anche un’altra faccia, quella positiva, rispettabile, cui affidare una speranza: il viso sorridente delle donne curde con in braccio il kalashnikov, che difendono l’umanità da uno dei suoi peggiori nemici, lo Stato Islamico (Is). Ritorna così alla ribalta mediatica, dopo anni di torpore, la causa curda: movimenti, partiti, associazioni e singoli si sono ritrovati a parlare e approfondire quanto succede in quella parte del Medio Oriente.

Esploratori e mercanti italiani hanno per centinaia di anni attraversato le zone montuose del Kurdistan dirigendosi verso la Persia e, più in generale, l’Asia. Sono loro che ci hanno raccontato dei popoli che abitavano quelle montagne, di quanto fossero abili nel condurre le carovane senza mai perdersi e di quanto fossero isolati rispetto agli imperi e ai regni circostanti. Per centinaia di anni i curdi hanno resistito tenacemente all’avanzata degli eserciti stranieri, padroni incontrastati di città millenarie e di una cultura che ha saputo resistere a tutti i tentativi di integrazione forzata. Una cultura che definire simbiotica con la natura è quasi svilente, in quanto il popolo curdo vive e fa vivere le montagne su cui sono aggrappate le città e i villaggi, montagne che sono soprattutto rifugio.

In Italia la questione curda ha cominciato a essere percepita durante la seconda metà degli anni Novanta grazie ad alcuni personaggi  e avvenimenti da prima pagina. Grande merito soprattutto di Dino Frisullo, giornalista e attivista politico, che con i suoi viaggi e le carovane da lui promosse fece conoscere a molti la lotta per i diritti dei curdi in Turchia. Il suo arresto durante il Newroz [1] (capodanno curdo, celebrato a fine marzo) del 1998 attivò una campagna che coinvolse molte istituzioni nazionali ed europee per la sua liberazione.

Sempre nel 1998, un altro caso politico-diplomatico portò al centro della cronaca il popolo curdo e le sue istanze, in particolare il suo leader storico Abdullah Öcalan (alias Apo). Guida del movimento di liberazione curdo e fondatore del Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), formazione prima militante e poi militare, Öcalan venne espulso dalla Siria in seguito agli accordi turco-siriani e cercò asilo politico in Italia.

Una volta atterrato a Roma, si consegnò alle autorità italiane pensando che gli garantissero in breve tempo l’asilo politico; ma le pressioni internazionali, soprattutto della Turchia – che minacciò un embargo alle merci italiane – spinsero il governo guidato da Massimo D’Alema a suggerirgli di partire verso Nairobi (Kenya), dove prima trovò alloggio presso l’ambasciata greca e in seguito fu arrestato dai servizi segreti turchi [2]. Dopo esser stato estradato in Turchia fu condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo, per la sua attività di separatismo armato. Il suo arresto suscitò un diffuso movimento di protesta che sfociò anche in scontri di piazza a Roma e in tutta Europa, dove vennero colpite le sedi diplomatiche della Grecia, ritenuta dai curdi la vera responsabile del «tradimento».

Dopo i fatti del 1998 le mobilitazioni andarono via via scemando, lasciando però spazio a un fitto associazionismo sia politico che solidaristico, simpatetico verso il popolo curdo e le sue istanze. Anche perché in seguito all’inasprirsi delle repressioni negli Stati ove i curdi erano storicamente insediati c’è stata una seconda grande diaspora che ha portato migliaia di curdi turchi, iraniani, siriani e iracheni in tutta Europa. All’interno di questa galassia di associazioni vennero promosse annualmente carovane in tutte le zone del Kurdistan, con l’obiettivo di consolidare i rapporti politici e di garantire il sereno svolgimento di elezioni e festività, come il Newroz [3].

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


2. Il ritorno alla ribalta della questione curda lo si deve soprattutto a quanto da ormai sei anni accade nella regione storica del Levante e della Mesopotamia, tra Siria, Iraq e Turchia. Sulla scia delle precedenti rivolte in Tunisia, Egitto e Libia, nel 2011 anche la popolazione siriana insorse contro il governo di Baššār al-Asad. Le proteste suscitarono presto una dura repressione armata e la conseguente risposta popolare. In questo contesto di guerra civile, la parte nord della Siria (il Rojava, ovvero Kurdistan occidentale) dichiarò, dopo anni di preparazione clandestina, la sua autonomia dal governo centrale di Damasco.

È bene sottolineare che in tutte le regioni del Grande Kurdistan la popolazione curda ha da sempre subìto politiche aggressive di assimilazione alla cultura dominante (turca, araba o persiana). Questo tentativo di assimilazione, condotto soprattutto manu militari, ha da sempre incontrato una forte resistenza politica da parte dei movimenti nazionali curdi, sfociata anche in resistenza militare all’occupazione.

È soprattutto il caso della Turchia, dove il Pkk e la sua ala militare, lo Hpg, conducono da quarant’anni azioni di guerriglia contro i militari turchi, definiti occupanti, e contro lo Stato turco responsabile delle condizioni di inferiorità politica e sociale di gran parte del popolo curdo. Questo tipo di politiche sono state ampiamente utilizzate anche in Siria dal regime degli Asad, in Iran da parte degli ayatollah e in Iraq da parte di Saddam Hussein.

L’esplosione della guerra civile siriana e l’entrata in gioco nello scacchiere siro-iracheno di attori potenzialmente devastanti, come l’autoproclamato Stato Islamico e altre formazioni jihadiste, ha fatto conoscere al mondo l’esistenza e la resistenza del popolo curdo.

Possiamo azzardare una data: il 15 settembre 2014. Erano ormai mesi che le notizie sui massacri dell’Is riempivano le prime pagine dei giornali, aprendo così gli occhi dell’opinione pubblica mondiale sulla ferocia e la violenza del conflitto. Quel giorno di settembre i primi colpi di artiglieria cominciarono a cadere nel centro della città di Kobani, dando il via a uno degli assedi più violenti della storia recente e più seguiti dalla stampa internazionale della storia recente.

Kobani (‘Ayn al-Arab in arabo) giace sul confine turco-siriano nei pressi di una fonte d’acqua che per centinaia di anni ha permesso alle carovane di abbeverarsi e che rappresentava un fondamentale punto di sosta nel percorso dall’Oriente verso i porti sul Mediterraneo. Durante la costruzione della ferrovia Berlino-Baghdad divenne una stazione, attorno alla quale si sviluppò in seguito l’odierna città. Con la fine della prima guerra mondiale e con l’attuazione dell’accordo Sykes-Picot, questi territori abitati da un unico popolo vennero suddivisi tra Turchia e Siria. La storia di Kobani non registra di fatto altri episodi salienti fino al 15 settembre 2014.

Quel giorno segna l’inizio di un’altra storia, che tutt’ora sta cambiando politica e geopolitica dell’area, oltre che la vita delle persone. La storia dell’assedio di Kobani è ormai nota, grazie a una notevole copertura mediatica sia da parte dei media internazionali sia di una consistente schiera di media indipendenti, spinti da motivazioni umanitarie e politiche a raggiungere le aree di confine tra Turchia e Siria. A questa attenzione hanno contribuito sia la visione dell’Is come minaccia globale, sia il flusso di rifugiati giunti prima in Turchia e poi in Europa, che hanno suscitato solidarietà e xenofobia in pari misura.

In questa terribile situazione i curdi si sono fin da subito dimostrati una parte fondamentaleper la comprensione di quanto accadeva al di là del confine, anche perché non solo fuggono da una situazione di guerra totale, ma propongono una soluzione attiva del conflitto. Questa soluzione è il confederalismo democratico, l’approccio ai problemi del Medio Oriente elaborato da Öcalan durante la sua prigionia e rivolto non solo ai curdi, ma a tutte le popolazioni dell’area. Infatti nel Rojava la rivoluzione vede la partecipazione attiva anche della popolazione arabo-sunnita, dei cristiani siriaci e armeni, degli yazidi e dei turkmeni.

Carta di Laura Canali, 2015

Carta di Laura Canali, 2015


3. Centinaia di attivisti internazionali, tra cui moltissimi italiani, sono la voce del popolo curdo e di tutti i popoli del Rojava. Nei mesi trascorsi lungo il confine turco-siriano in staffette e carovane di solidarietà, hanno svolto un ruolo importante nell’aiuto a quelle popolazioni. È nata così una sorta di collaborazione per la gestione dell’emergenza umanitaria nei campi profughi, ma non solo [4]. L’ascolto delle esperienze dei rifugiati curdi e del perché fossero stati attaccati così brutalmente dall’autoproclamato Stato Islamico ha svegliato molte coscienze.

È importante notare le differenze tra la mobilitazione internazionale seguita alla resistenza di Kobani e quella che si è organizzata in occasione dell’assedio di Sarajevo o della seconda guerra del Golfo. Questi ultimi sono stati momenti fondamentali nella crescita del movimento No war, catalizzando l’attenzione e la partecipazione di una galassia composita di partiti, associazioni e singoli che in opposizione alla guerra si sono trovati in piazza.

Su Kobani e sulla Siria in generale, invece, abbiamo assistito a una mobilitazione a comparti, che ha seguito più logiche politiche e ideologiche che di mobilitazione contro la guerra. Dal 2011 a oggi non abbiamo avuto in Italia o altrove manifestazioni di massa contro la guerra; abbiamo invece assistito a una miriade di piccoli, medi e grandi assembramenti che avevano lo scopo di promuovere l’una o l’altra parte in conflitto.

Un settore della sinistra italiana, in particolare i movimenti sociali, ha fin da subito appoggiato le istanze della rivoluzione del Rojava per una naturale affinità ideologica [5]. La lotta dei popoli del Rojava non è esclusivamente di autodifesa, è una lotta per l’umanità e per l’uguaglianza: tali princìpi sono ben delineati nella Carta del contratto sociale del Rojava, base ideologica e di autorganizzazione delle comunità locali fuori dal controllo del capitale e dello Stato nazionale. Le affinità che questo pensiero politico ha con la storia dei movimenti sociali sono molte, per questo fin da subito i movimenti si sono fatti voce e megafono di tali istanze.

Sono stati centinaia i momenti di approfondimento della questione curda e del progetto democratico che si sta sviluppando nel Nord della Siria; né sono mancate proteste di piazza nei confronti di aziende e rappresentanze diplomatiche turche e confronti con le forze dell’ordine, per denunciare la situazione nel Rojava e (dopo il riaccendersi della guerra tra Turchia e Pkk, nell’estate 2015) nel Kurdistan settentrionale [6].

A questa prima fase, molto emotiva e partecipata, ne è subentrata un’altra di supporto al movimento curdo. Una fase più organizzata, nel corso della quale si sono svolti diversi incontri a carattere nazionale e si è tentato di dare una regìa unica alla campagna di sostegno e solidarietà. Le differenze ideologiche e pratiche non hanno permesso che si trovasse un’unità di intenti; le varie componenti dell’associazionismo classico e di movimento si sono comunque spese per l’obiettivo comune. Inoltre, a livello nazionale i fumetti di ZeroCalcare [7] hanno descritto molto realisticamente cosa gli attivisti facessero sul confine di Kobani, dando notorietà a quanto succedeva in quei luoghi prima remoti.

L’attivismo si è successivamente tramutato in partecipazione attiva alla resistenza. Diverse decine di attivisti hanno compiuto una scelta molto più radicale: entrare nelle Unità di protezione popolare (Ypg) e unirsi attivamente alla resistenza del Rojava contro lo Stato Islamico.

Tra loro anche alcuni italiani: il più noto è sicuramente Karim Franceschi, militante dei centri sociali delle Marche, che in seguito a un viaggio staffetta nel Sud della Turchia e toccato dalle testimonianze e dalle scene in cui si era imbattuto ha deciso di imbracciare un’arma per aiutare i popoli del Rojava a difendersi. La sua storia è diventata un libro di successo e insieme ad altri due combattenti è stato protagonista del documentario Our War, presentato nel 2016 alla mostra del cinema di Venezia. Sono entrambi documenti autentici, che spiegano le emozioni e le scelte di chi, mosso da umanitarismo o da passione politica, ha deciso di difendere chi in questo momento storico combatte uno dei peggiori nemici dell’umanità.

È esattamente questo uno dei punti salienti di tutta la narrazione che ruota intorno ai curdi: la questione politica, la rivoluzione del Rojava. Thomas Hobbes nel Leviatano giudica il sacrificio per un ideale come «il privilegio dell’assurdità, in cui gli esseri umani compiono le loro più grandi imprese in nome di idee che danno senso alla loro vita». In questa cornice è collocabile la scelta di molti di portare sostegno, attivo e passivo, alla causa curda e agli ideali del confederalismo democratico.

Il progetto sociale e politico che si sta sviluppando nella Federazione della Siria settentrionale mostra al mondo che è possibile applicare delle idee rivoluzionarie in un contesto di guerra totale; che tramite l’educazione politica è possibile instaurare un sistema inclusivo anche in luoghi dominati da dittature e regni, dove la donna – soggetta per millenni a una cultura patriarcale – torna al centro della vita pubblica e della rivoluzione stessa. Una rivoluzione che ha nella salvaguardia del territorio, non nel suo sfruttamento, un punto cardine. Il concetto di rivoluzione è inteso qui come un cambiamento totale della cultura e dell’impostazione ideale che da secoli caratterizza l’area.

È un’affermazione forte, che attira critiche da destra e da sinistra, ma nella situazione politica mondiale, dove guerra e saccheggio ambientale sono il motore dell’economia e la privazione dei diritti è la regola, l’esperienza rivoluzionaria del Rojava e il confederalismo democratico rappresentano una luce di speranza.

Sostenere i movimenti curdi e le loro lotte non vuol dire sostenere il terrorismo, bensì stare dalla parte di chi oltre la guerra vede una società pacificata e democratica. L’inclusione politica e sociale è il primo, forse l’unico, passo per sedare i conflitti sociali e garantire una società globale migliore.

I popoli del Rojava ce lo stanno insegnando.


NOTE:

1. «Il tribunale ha deciso: Frisullo è libero», la Repubblica, 28/4/1998.

2. «Finita la fuga di “Apo”. I turchi: lo abbiamo preso», la Repubblica, 16/2/1999.

3. goo.gl/qNoK6K

4. «Dall’Italia dei movimenti al Kurdistan in lotta: staffetta a Suruç», Global Project, 3/11/2014.

5. E. Giordano, L. Manunza, «Partire da Kobane per essere Kobane», Global Project, 15/10/2014.

6. «Erdogan affossa la pace, il Pkk riprende le armi», Nena News, 23/7/2015.

7. ZeroCalcare, Kobane Calling, Milano 2016, Bao Publishing, 2016.

strillone 22 settembre

Il referendum in Kurdistan è un palliativo per i mali dell’Iraq

Le notizie di oggi dal e sul Medio Oriente.

La consultazione popolare curdo-irachena è una mossa populista dall’alto valore simbolico, ma non è la soluzione alle diatribe regionali e nazionali. Erdoğan invia truppe a Idlib, nella Siria settentrionale, nel quadro delle zone di de-escalation volute dalla Russia. Nel Kurdistan siriano si tengono le prime elezioni locali per eleggere i rappresentanti delle “comuni”.

 

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