LICIA BORRELLI VLAD, LA FALSIFICAZIONE IN ARCHEOLOGIA…davvero curioso e pettegolo, per chi ha voglia di leggere…

 

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La falsificazione in archeologia

di Licia Vlad Borrelli, Isabella Damiani, Filippo Salviati, Giovanna Antongini, Tito Spini, Claude-François Baudez, Guido Devoto – Il Mondo dell’Archeologia (2002)

I FALSI ARCHEOLOGICI

di Licia Vlad Borrelli

Per falsificazione si intende la produzione per scopi fraudolenti di manufatti che imitano o si ispirano ad uno o più modelli autentici. La differenza fra i falsi e le copie o le imitazioni risiede solo nel giudizio di falso, cioè nel riconoscimento dell’intenzione dolosa che ha presieduto all’esecuzione dell’oggetto. Falso è dunque “non tanto ciò che è falso, quanto ciò che determina il falso” (Carnelutti 1935). La storia delle falsificazioni di opere d’arte nasce nell’ambito del commercio antiquario e soggiace quindi alle leggi dell’economia: quando la domanda non può essere evasa in modo legittimo o il prezzo di un originale è inaccessibile allora nasce il falso. Prodotto di consumo, esso è legato alla moda e interpreta uno stile attraverso la mediazione del gusto del proprio tempo. Così che è stato detto che il più temibile nemico del falsario è il tempo (Arnau 1961), o, più ottimisticamente, che la vita di un falso può essere contenuta nell’ambito di una generazione. Difatti all’esecuzione di un falso presiede una duplice suggestione, quella del tempo del falso e quella del tempo al quale il falso pretende di appartenere, due vettori che non possono coincidere. La difficoltà di individuazione di un falso risiede solo nell’incertezza del giudizio critico o nell’angustia delle conoscenze. Ad esse si supplisce con il supporto di indagini fisico-chimiche sulla materia dell’oggetto e sulle sue modificazioni, in modo da integrare con dati oggettivi la soggettività del giudizio. L’applicazione delle scienze della natura all’archeologia (archeometria), in particolare per l’individuazione dei falsi, è diventata di recente elemento imprescindibile di ogni ricerca e ha raggiunto validi e brillanti traguardi. Va tuttavia sottolineato che solo dal concorso di più esami tecnici, congiuntamente alle ricerche archeologiche, può scaturire la certezza del giudizio. Un caso emblematico di come un’interpretazione unilaterale di un dato scientifico possa trarre in inganno è rappresentato dalla vicenda del cavallino bronzeo del Metropolitan Museum di New York, opera attica del 480-470 a.C., che per qualche anno fu relegato nel limbo dei falsi.

LA TRADIZIONE CLASSICA

Le condizioni sociali ed economiche della Grecia classica sembrano escludere un mercato del falso. False erano certamente alcune epigrafi ricordate da Erodoto (V, 59-61) e da Pausania (I, 48, 7; VIII, 14, 6-7; IX, 11,1, ecc.) su monumenti, statue e suppellettili conservati in alcuni santuari, per incrementarne il valore simbolico o il significato storico-religioso. Molto presto, invece, si cominciò a falsificare la moneta, se già nelle leggi di Solone si prevedono pene severe contro i coniatori di monete false. Precoce fu anche l’uso di monete “suberate” (cioè con una foglia esterna di metallo pregiato e l’anima in metalli vili), come quelle che Policrate usò per pagare gli Spartani al fine di distoglierli dall’assedio di Samo (Hdt., III, 56), e alle quali ricorsero più volte i Romani in momenti difficili della loro economia. Lo stesso Plinio (Nat. hist., XXXIII, 132) ne insegna la fabbricazione. I costumi dei Romani mutarono con la conquista della Grecia e i più stretti contatti con l’Oriente: nacquero il gusto dell’antiquariato, il mercato delle opere d’arte e, contestualmente, quello dei falsi. Per primo ne dà notizia Fedro, quando, appellandosi per la propria opera al nome di Esopo, ricorda per analogia che viene pagato un prezzo più elevato per opere moderne se su un marmo è iscritto il nome di Prassitele, se su una statuetta d’argento quello di Mirone, su una tavola quello di Zeusi (V, l). Una conferma viene dai Dioscuri di Montecavallo, opere probabilmente severiane, nobilitate da due iscrizioni che li attribuiscono l’uno a Fidia e l’altro a Prassitele. Le attuali iscrizioni risalgono alla sistemazione del gruppo all’epoca di Sisto V, ma riproducono quelle che vi erano state apposte quando furono restaurate le terme costantiniane, ove il gruppo era collocato (450 d.C.). J.J. Winckelmann, inoltre, ricorda che una statua di Ercole recava la firma falsa di Lisippo. Molte fonti riferiscono anche di uno scandalo scoppiato nei primi anni dell’Impero per coppe d’argento fraudolentemente firmate col nome di Mys, celebre toreuta del V sec. a.C. Anche Zenodoros, famoso bronzista del I sec. d.C., aveva così abilmente imitato delle tazze cesellate da Kalamis che non si distinguevano dagli originali (Plin., Nat. hist., XXXIV, 47). Un particolare aspetto della falsificazione è quello che si rivolge ai materiali; esso è ampiamente trattato da Plinio e da Vitruvio, ma risale a fonti molto più antiche, tra le quali anche testi alchemici. Viene insegnato come falsificare l’oro, l’argento, i colori pregiati, le pietre preziose, ecc. Alcune di queste ricette si ritrovano nel Papiro X di Leida e in quello di Stoccolma (III sec. d.C.); attraverso gli Arabi si diffonderanno poi in Europa e costituiranno la base di prontuari ad uso degli artisti e degli alchimisti medioevali. Non di falsificazione, ma di riuso e di rilavorazione, si può parlare a proposito di modifiche a sculture e ritratti del I e del II secolo effettuate in epoche successive, con maggiore frequenza nel IV secolo. Il diritto romano colpiva solo i falsari di testamenti, monete (lex Cornelia de falsis), documenti pubblici (lex Julia de majestate). Il falso d’arte non veniva considerato reato; infatti in tutto il mondo antico l’autenticità non rappresentava un requisito fondamentale della creazione artistica. Per Platone e per Aristotele l’arte era l’imitazione della natura e, come tale, ulteriormente riproducibile senza recare danno o offesa. In età medievale sarà sempre solo contro la falsificazione di documenti che verranno comminate pene severe (l’Editto di Rotari contemplava il taglio della mano). Nei primi secoli del cristianesimo un tipo particolare di falso era quello rappresentato dalle immagini acherotipe, cioè una serie di ritratti di Cristo e della Vergine che si ritenevano non eseguiti da mano umana, e dalle reliquie. La falsificazione delle gemme cominciò molto presto per soddisfare i gusti classici degli imperatori carolingi e ottoniani; molte gemme false, eseguite per Federico II di Svevia, passarono nella collezione di Lorenzo de’ Medici. Antiche medaglie di Augusto, Tiberio, Costantino ed Eraclio furono acquistate nei primi anni del Quattrocento dal duca Jean de Berry; degli ultimi due tipi si conservano varie copie in stile palesemente borgognone. Nel Rinascimento lo studio dell’antico e la dichiarata volontà di imitarne i modelli resero estremamente ambigui i confini fra copia, imitazione e falso. L’identificazione con l’antico era però soprattutto una tenace volontà di immedesimazione e di ricreazione che, almeno nelle intenzioni primarie, nulla aveva in comune con la fraudolenta opera del falsario. Con questo spirito a Padova e a Venezia venivano prodotti marmi e bronzi “all’antica”, anche con le mutilazioni che il tempo aveva provocato sui pezzi autentici (ad es., quelli di Tullio Lombardo). Valerio Belli, Vittore Gambello, detto il Camelio, Giovanni da Cavino erano ritenuti fra i più abili esecutori di “bronzi all’antica” e di monete e medaglie, mentre la collezione Grimani si popolava di bronzi e sculture pseudoantichi o ampiamente rilavorati. Fra i primi vanno in particolare ricordati i ritratti di Vitellio e di Traiano, entrambi usciti da botteghe venete. I ritratti romani, in particolare la serie dei dodici Cesari, rappresentarono un elemento fondamentale della decorazione architettonica dei palazzi patrizi. Lo straordinario interesse per le opere del passato accrebbe il valore dei pezzi autentici, che venivano anche venduti, come si è visto, con false attribuzioni. Lo ricorda anche Poggio Bracciolini a proposito di alcuni mercanti greci possessori di teste marmoree spacciate come opere di Policleto e di Prassitele. Sculture di Policleto erano state offerte a Ciriaco d’Ancona. Il noto episodio del Cupido dormiente di Michelangelo, sotterrato per acconciarlo “all’antica” e venduto nel 1496 al cardinale Riario, sembra nascere piuttosto da una giovanile provocazione che dall’intento di gabellare per antica un’opera contemporanea. Già un anno prima il fiorentino Pietro Maria Serbaldi da Pescia aveva seppellito a Roma una tazza di porfido da lui eseguita, per poi disseppellirla all’entrata di Carlo VIII (1495): l’opera fu acquistata come antica dal collezionista veneziano Francesco Zio, ma poi riconosciuta come falsa da Francesco Michiel. Anche Benvenuto Cellini (Vita, III, 3) aveva cesellato un vaso d’argento che fu venduto per antico. Esecutore di teste in marmo vendute per antiche fu, a detta del Vasari (Vite, VII), Tommaso (Della) Porta, appartenente ad una dinastia di scultori lombardi. Lo scultore fiorentino Simone Bianco (1512-1548) rilavorò invece ritratti romani di I e II secolo, che poi firmò con il suo nome in greco, Simon Leukòs, seguito dall’appellativo “veneziano”. Nella seconda metà del Cinquecento a statue antiche vennero attribuite con iscrizioni apografe paternità illustri. Nello stesso tempo la collezione Benavides a Padova si arricchì di due imitazioni di vasi italioti illustrati in un linguaggio tardo cinquecentesco. La voga dei “pasticci” esplose però nel XVII secolo, contemporaneamente al consolidarsi delle grandi collezioni. Artisti illustri furono chiamati a restaurare le sculture antiche; Ippolito Buzzi, l’Algardi, il Bernini si esercitarono soprattutto sulla collezione Ludovisi. Accostando frammenti e statue diversi e sapientemente integrandoli, essi crearono nuove opere e nuovi gruppi, spesso molto lontani dall’originale, ma efficace espressione della loro lettura dell’antico. Un falso egizio dello stesso secolo è il cosiddetto “busto di Iside” del Museo Egizio di Torino, proveniente dalle collezioni sabaude. La testa è in stile classicheggiante, con strani segni cabalistici che nella seconda metà del Settecento diedero luogo a dispute famose. I primi falsi etruschi nacquero nel clima del collezionismo settecentesco e degli studi di “etruscheria”. Fra i compiti della Deputazione Volterrana vi era anche quello di “invigilare che non sian commesse delle fraude in pregiudizio della stima ben grande che hanno acquistato in Toscana e fuori gli studi dei Caratteri Etruschi” (18 luglio 1744). Un evento che doveva modificare profondamente la conoscenza dell’arte antica e incidere in modo determinante sugli orientamenti del gusto, di conseguenza anche sul falso, fu la scoperta di Ercolano e di Pompei. Ne approfittò un artista veneziano, G. Guerra, allievo di F. Solimena e attivo a Napoli intorno alla metà del secolo, il quale eseguì molte false pitture romane utilizzando talvolta anche frammenti antichi. Ne vendette ai gesuiti per il loro Museo Kircheriano e ad altri collezionisti romani. Ingannò fini studiosi e conoscitori, come il conte di Caylus e il J.-J. Barthélemy; egli utilizzava una tecnica mista, a fresco, a tempera e ad encausto, cospargeva poi la pittura di tartaro e la riscaldava, finché la superficie non aveva acquistato un colore rossastro. Alla stessa epoca risale probabilmente la cosiddetta Musa di Cortona o Polimnia, dipinta su una lastra di ardesia con una tecnica che arieggia l’encausto, e una Cleopatra, della quale oggi si è persa notizia. Se Winckelmann non fu ingannato dalle false pitture di Guerra, cadde invece vittima di una frode ordita da G.B. Casanova che gli presentò alcuni disegni di un gruppo di cosidetti “affreschi” di provenienza imprecisata, forse Ercolano. Nella prima edizione della Geschichte der KunstWinckelmann li pubblicò; di essi rimane il Giove e Ganimede, oggi alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma, attribuito ad A.R. Mengs o allo stesso Casanova. L’opera è chiaramente ispirata al Marsyas e Olympos pubblicato nel primo volume delle Pitture di Ercolano tre anni prima della comparsa sul mercato del falso (1760), ma vi è anche evidente il ricordo del Giove e Cupido dipinto da Raffaello nella villa della Farnesina. Accanto alle pitture murali sono anche da segnalare falsi mosaici, alcuni dei quali eseguiti su rilievi (“rilievi a mosaico”). La proliferazione dei falsi e delle imitazioni era favorita da una domanda crescente: i giovani aristocratici che venivano da Oltralpe per compiere il grand tour desideravano ripartire con un tangibile segno della propria iniziazione alla classicità. Lo trovavano nelle botteghe romane, in particolare in quella di B. Cavaceppi (1716-1799), che, interprete non sempre fedele della lezione di Winckelmann, raccoglieva, restaurava, acconciava, riproduceva marmi antichi. L’interesse non si rivolgeva, però, solo alle grandi sculture, ma anche agli oggetti minori, secondo una scelta di gusto che sarà cara anche agli enciclopedisti. Così nella grande collezione di lucerne raccolte da G.B. Passeri (Lucernae fictiles Musei Passeri, 1739) si ritroveranno molti esemplari falsi e altri autentici con false epigrafi. Prosegue inoltre in questo secolo la produzione di gemme e monete, spesso senza intenti deliberatamente dolosi. Nella seconda metà del XIX secolo, tra le frodi che ebbero maggiore risonanza non si può tacere quella di 1700 oggetti in terracotta con iscrizioni incomprensibili, venduti ai Musei di Berlino (1878) col nome di Mohabitica (dal nome di una fantomatica arte dei Mohabiti), opera di un rozzo pittore di icone di Gerusalemme. Nello stesso periodo la politica degli acquisti di alcuni grandi musei europei e americani e di alcuni collezionisti privati favorì lo smercio dei falsi. La collezione Campana, dispersa fra San Pietroburgo, Parigi, Londra, Roma e Firenze, conteneva numerosi falsi. Una buona parte di essi si doveva alla mano di P. Pennelli, che fu anche l’artefice di un sarcofago etrusco in terracotta venduto ad Alessandro Castellani e successivamente acquistato dal British Museum. Il nome di Alessandro Castellani riconduce ad una cerchia di antiquari, eruditi, bronzisti, orefici e falsari operanti a Roma nel XIX secolo. M. Guarducci ne ha esplorato le attività e l’intricata rete di rapporti internazionali soprattutto in relazione alla contestata autenticità della “fibula prenestina”, già venerato incunabolo dell’oreficeria e dell’epigrafia antica. Fortunato Pio Castellani e i figli Augusto e Alessandro furono soprattutto abilissimi orafi che si specializzarono nelle tecniche antiche. Le loro opere non furono dei falsi, ma raffinate imitazioni realizzate spesso con l’impiego di gemme, scarabei e monete autentiche; tuttavia alcune di esse furono vendute per antiche. Come avvenne per molti altri oggetti, queste opere sono da considerare veri e propri pasticci. Tale è un carro acquistato dal British Museum nel 1911, costruito da un abile artigiano, P. Riccardi. Tali sono bronzetti, specchi, ciste, autentici, ma con decorazioni e iscrizioni false; fra gli oggetti più famosi va ricordata la cista Pasinati, abbellita da un’incisione che illustra le origini di Roma e che finì al British Museum nel 1884. I connotati dell’arte etrusca serbavano ancora delle zone d’ombra che offrivano ai falsari maggiori possibilità di mimetismo. Analogamente avvenne per una serie di idoletti sardo-fenici, opera di un certo Cara, nonché per tutti quegli oggetti che venivano smerciati come manufatti di civiltà meno note. Uno dei falsi più famosi della seconda metà del secolo XIX fu la cosiddetta Tiara di Saitaferne, un copricapo in oro massiccio riccamente decorato e recante due fregi, l’uno con episodi dell’Iliade e l’altro con scene della vita degli Sciti. Un’iscrizione in caratteri greci recava una dedica a Saitaferne da parte dei popoli di Olbia. Fu acquistato dal Louvre, ma ben presto si rivelò opera di un ebreo russo di Odessa, I. Rouchomowsky, che aveva sfruttato l’interesse suscitato dai recenti, splendidi ritrovamenti nel Bosforo Cimmerio. Fra i falsari della fine dell’Ottocento va ricordato anche il nome di A. Scappini che riprodusse il vaso di Boccoris del museo di Tarquinia. Egli aveva firmato la sua opera, che però, immessa sul mercato senza il frammento che conteneva la sua firma, entrò nella collezione Sacchini e poi al museo di Bonn. Una coppa, riproduzione di quella di Oltos ed Euxiteos, sempre a Tarquinia, trasse in inganno uno specialista come E. Pottier. Una forma più sottile di falsificazione si valse inoltre di vasi antichi acromi, sui quali furono dipinte scene e figure, come avvenne per la cosiddetta “coppa di Nephele”, già nella collezione Tyszkiewicz, illustrata da A. Furtwängler, abile scopritore di falsi, e per i tondi di Centuripe, smascherati da C. Albizzati. I primi decenni del XX secolo sono dominati dalla singolare figura di A. Dossena. Abilissimo e raffinato imitatore di tutti gli stili, la sua opera spaziò dall’epoca arcaica a quella rinascimentale. Le sue statue furono acquistate da numerosi musei stranieri e ingannarono studiosi di vaglia. Per l’arte antica vanno ricordate la scena di ratto (il cosiddetto “gruppo da Velia”), ispirato al gruppo di Teseo e Antiope dal frontone del tempio di Apollo a Eretria, una Atena gradiente, acquistata dal museo di Cleveland (1926), una kore, per la quale erano state approntate due teste, che finì al Metropolitan Museum di New York. Tutte queste statue, in stile tardo arcaico, erano in marmo, mentre in terracotta è una delicata statua femminile comprata dalla Ny Carlsberg Glyptotek nel 1930 con forti reminescenze dell’Apollo di Veio. Un’altra statua in terracotta di sapore eclettico, la Diana col cerbiatto, è al museo di Saint Louis dal 1952. Nel 1933 furono presentate al Metropolitan Museum di New York due colossali statue di guerrieri e una testa pure di guerriero, tutte in terracotta dipinta. Si trattava di falsi grossolani, fabbricati nel 1914 in un laboratorio di Orvieto da R. Riccardi, figlio del già menzionato P. Riccardi, da due suoi cugini e da A.A. Fioravanti. Vendute in frammenti, furono esposte in un momento nel quale le strepitose scoperte di Veio richiamavano l’attenzione degli studiosi e dei profani sull’arte etrusca. Se già le opere di Dossena rivelano la mano di un esecutore di rango, i falsi eseguiti dopo la metà del secolo denotano una più approfondita conoscenza degli stili e delle tecniche imitate, nonché delle più recenti scoperte delle scienze applicate all’archeologia. Ancora al mondo etrusco si rivolge un gruppo di lastre in terracotta dipinta di tipo ceretano immesse sul mercato svizzero intorno agli anni Sessanta, ora disperse fra i musei di Parigi (Louvre), Monaco, Basilea, Boston e presso l’Università di Berna; per esse le forti perplessità stilistiche hanno trovato conferma nelle analisi della terracotta e dei pigmenti. Da un’officina romana, ove lavorava un certo Ermegildo (detto Gildo) Pedrazzoni, uscì la nota stele Schiff-Giorgini. Non è possibile, né sarebbe necessario, enumerare tutti i falsi che hanno costellato la storia dell’archeologia; spesso si sono rivelati come spiacevoli infortuni nella carriera di brillanti archeologi. La buona fede e l’entusiasmo hanno giocato il ruolo di cattivi consiglieri in una disciplina dalle conoscenze tuttora lacunose. A conferma di quest’ultima costatazione va ricordato che vi sono ancora opere, come il Trono di Boston, sulle quali pende un giudizio irrisolto. La problematicità dell’interpretazione degli esami fisici, ad esempio per l’autenticazione dei marmi, è riconosciuta peraltro dagli stessi scienziati ed è valida, quindi, solo se è di supporto all’analisi critica: ulteriore conferma di come un giudizio in tema di falso e autentico diviene attendibile solo se vi è convergenza fra i dati emersi dall’esame globale del manufatto.

 

nota::: se qualcuno è  arrivato fin qui e volesse proseguire, nel link all’inizio trova un’accurata bibliografia di questo testo + le altre relazioni che riguardano i falsi in Oriente, in Africa…

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