+++ TEMPO FERTILE BLOG, RALPH DAHRENDORF, QUADRARE IL CERCHIO IERI E OGGI, BENESSERE ECONOMICO-COESIONE SOCIALE-E LIBERTA’ POLITICA, LATERZA 2009

 

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Ralf Dahrendorf, “Quadrare il cerchio”

Nel 1995 il grande sociologo e politologo Ralf Dahrendorf scrive questo piccolo e famosissimo libricino, “Quadrare il cerchio” nel quale propone una lettura talmente classica della situazione, dei rischi e delle opportunità (per la verità non molte) rese disponibili dalla globalizzazione, da essere diventata luogo comune.

 

Dahrendorf inquadra l’incipiente globalizzazione, ormai venti anni fa, in una luce che Scalfari troverà “terribile”: secondo la sua visione la dinamica in corso mette infatti a rischio la società civile e la stessa libertà. Ma seguiamo il ragionamento nel suo sviluppo. Le economie del primo mondo, durante il trentennio che qualcuno chiama “glorioso” erano riuscite in una sorta di miracolo:

–          Offrire una vita decente a  molti ed in crescita quasi per tutti;

–          Compiere il trapasso “dallo status al contratto” (cioè uscire da una società tradizionale) senza per questo distruggere la comunità (cioè la coesione e la solidarietà);

–          Essere anche democratiche.

Questo assetto è messo a rischio da “un pericoloso concatenamento”, qualcosa che, niente di meno, determina “un processo non solo precario ma anche lungo, che sta preparando all’umanità il periodo più denso di minacce della sua storia”.

Una frase enfatica, che se presa sul serio (e Dahrendorf era sempre serio) è effettivamente terribile.

Ma perché si presentano queste minacce? L’analisi è semplicissima, e in questo senso è da tempo senso comune: al livello di sviluppo raggiunto sono necessarie scelte drammatiche per restare competitivi. Precisamente, “in un mercato mondiale in crescita [i paesi OCSE] devono prendere misure destinate a danneggiare irreparabilmente la coesione delle rispettive società civili. La coesione sociale confligge ormai infatti con la creazione di ricchezza. Detto con altre parole, o si crea sviluppo o si garantisce il benessere diffuso. E questo a causa dell’incremento di produttività raggiunto dai nuovo sviluppi tecnologici ed organizzativi ed impostisi tramite i grandi attori internazionali che dominano la scena.

In caso non si riesca a determinare un adeguato equilibrio tra competitività e benessere, la perdita di coesione renderà necessario restringere la libertà.

Si tratta per questo, nella visione di Dahrendorf, di quadrare il cerchio (cosa notoriamente impossibile) tra creazione di ricchezza, coesione sociale e libertà politica.

Ed il motore di tutto questo è la “globalizzazione”. Un processo irresistibile che si è imposto (a partire dagli ultimi settanta) per effetto congiunto: dell’indebolimento del concetto di “paese”; del rafforzamento conseguente di entità sovranazionali pubbliche e soprattutto private, che hanno combinato “un certo grado di adattamento ai bisogni locali con la promozione di una strategia produttiva, di una direzione e di profitti di portata mondiale”; infine delle due “rivoluzioni” della information technology e della finanza. Queste forze irresistibili (a parere dello studioso conservatore) rendono ineludibile la “flessibilità” per gli attori economici ed anche per il mercato del lavoro. L’effetto è però “una società civile sotto pressione”, direttamente minacciata dalla globalizzazione (p. 18) e posta davanti alla scelta che si impone tra due sentieri di sviluppo possibili: un’economia a retribuzioni basse (con limitata pressione fiscale e bassa distribuzione, dunque molta povertà), o una ad alta specializzazione (e molti esclusi). Gli effetti sono comunque l’aumento delle ineguaglianze sociali, precisamente (qui cita gli studi di Reich) l’aumento insostenibile delle distanze tra il primo dieci per cento ed il quaranta per cento inferiore della distribuzione di reddito. Una divergenza “incompatibile con la società civile”.

In questo quaranta per cento (e nella sua parte inferiore di veri emarginati) si annida una realtà terribile; con le esatte parole di Dahrendorf:certe persone (per terribile che sia anche solo metterlo per iscritto) semplicemente non servono; l’economia può crescere anche senza il loro contributo; da qualunque lato le si consideri, per il resto della società esse non sono un beneficio ma un costo”.

Persone dunque che “non servono”. E che per questo sono escluse, marginalizzate e vittimizzate. Che irresistibilmente entrano in una area di strutturale inoccupazione capace di assorbire il 5-10% della popolazione. Persone che sono colpite dal lato sbagliato della dinamica della flessibilità. Perché, chiaramente, flessibilità significa mobilità, ma anche insicurezza. E significa instabilità.

Quel che Ralf vede è alla fine “una strana somiglianza tra fine ottocento e fine novecento (p. 22), una somiglianza che è tale anche nella reazione (allora come ora in forme comunitarie). Tuttavia con l’importante differenza che il movimento socialista, decisivo nell’animare quelle lotte, è oggi reso impossibile dalla vittoria dell’individualismo. Ma ancora più da un’altra ragione più forte:le persone realmente svantaggiate e quelle che temono di scivolare nella loro condizione non rappresentano una nuova forza produttiva, nemmeno una forza con cui oggi si debbano fare i conti”.

Dunque non ci sarà, nella previsione del sociologo, una nuova azione collettiva organizzata in grado di contrastare le forze che tendono alla disgregazione sociale. L’esito sarebbe però paradossale in qualche modo, i conflitti individualizzati possono essere infatti più difficili da affrontare conservando il clima di libertà democratico. Di qui il terzo corno del rischio paventato da Dahrendorf: la tentazione autoritaria come reazione alla tendenza alla disintegrazione sociale.

Si presenta in questo modo l’alternativa temuta tra lo sviluppo economico senza coesione sociale, o senza libertà (secondo il modello asiatico).

Dunque il punto è come conservare un equilibrio, sapendo che il welfare va riformato e sono necessari sacrifici. I suggerimenti sono modesti (elaborare un nuovo linguaggio economico, cercare un equilibrio con i governi che coinvolga gli stakeholders, e poco più), ma la linea è tracciata.

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