PALMA DI MONTECHIARO, LA TERRA DEI TOMASI DI LAMPEDUSA

 

 

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la costa tra Licata e Palma di  Montechiaro

 

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Monastero delle Benedettine

 

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resti della chiesa di Santa Maria della Luce

 

 

Veduta di Palma di Montechiaro, tratta dalVoyage pittoresque” diSaint-Non

 

   Acquaforte di Desprèz

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castello di Federico III Chiaramonte

 

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UNA NOTA SULLA TERRA D’ORIGINE DEI TOMASI DI LAMPEDUSA::

 

Il seicento vede in Sicilia la nascita di oltre 100 città, tra le quali Palma. Le ragioni di questa in­tensa urbanizzazione vanno ricercate nell’aspirazione del baronaggio siciliano a consolidare ed accrescere il proprio potere eco­nomico e sociale. Colonizzare nuove terre significava, in pratica, incre­mentare la produzione agricola, riscuotere più tasse e gabelle, oltre ad amministrare la giustizia civile e penale. I Tomasi fondarono la nuova città, ma anziché attendere al suo governo godendone tutti i privilegi, per due generazioni fuggono, uno dietro l’altro, dal potere e dalla gloria del mondo e, trascinati, da una potente vocazione religiosa, danno vita ad una esperienza mistica, che lo stesso ultimo erede, Gioacchino Lanza Tomasi, ha definito «Un esempio appartato nella storia della Sicilia», che ha in Giuseppe Maria Tomasi, proclamato Santo da Giovanni II il 12 ottobre 1986, il suo esempio più luminoso.

Dovette gravare nell’ultimo dei Tomasi, Giuseppe Maria Vittorio (1896-1958), il carico della storia familiare destinata a spegnersi cori lui. Questo disagio interiore, alimentato da un senso d’impotenza verso un’inarrestabile decadenza, costituisce la molla segreta del Gattopardo, romanzo storico e insieme autobiografico di risonanza mondiale.
Ad assaporare le antiche radici, sulle vestigia degli «antenati santi», l’autore venne, prima di scrivere il romanzo, a Palma, i cui luoghi trasfigurerà letterariamente in quelli di Donnafugata.
«Abitudini secolari esigevano che il giorno seguente al proprio arrivo la famiglia Salina andasse al monastero di Santo Spirito a pregare sulla tomba della Beata Corbèra, antenata del Principe, che aveva fondato il convento, lo aveva dotato, santamente vi aveva vissuto e santamente vi era morta.
In quel luogo tutto gli piaceva, cominciando dall’umiltà del Parlatorio rozzo, con la sua volta a botte centrata dal Gattopardo, con le duplici grate per le conversazioni, con la piccola ruota di legno per far entrare e uscire i messaggi, con la porta ben squadrata che il Re e lui, soli maschi nel mondo, potevano lecitamente varcare. Gli piaceva 1’aspetto delle suore con la loro larga bavetta di candidissimo lino a piegoline minute, spiccante sulla ruvida tonaca nera; si edificava nel sentir raccontare per la ventesima volta dalla badessa gli ingenui miracoli della Beata, nel vedere com’essa gli additasse l’angolo del giardino malinconico dove la Santa monaca aveva sospeso nell’aria un grosso sasso che il Demonio, innervosito dalla di lei austerità, le aveva scagliato addosso; si stupiva sempre vedendo incorniciate sulla parete di una cella le due lettere famose e indecifrabili; quella che la Beata Corbèra aveva scritto al diavolo per convertirlo al bene e la risposta che esprimeva, pare, il rammarico di non poter obbedirle; gli piacevano i mandorlati che le monache confezionavano su ricette centenarie, gli piaceva ascoltare l’Uffizio nel coro, ed era financo contento di versare a quella comunità una parte non trascurabile del proprio reddito, così come voleva l’atto di fondazione».
Ma insieme con la poesia della memoria, del fascino del passato, pervade il romanzo una sottile ironia, dai toni talvolta irriverenti e dis­sacratori, come nel caso della religione.
«In quella stanza Giuseppe Corbèra, duca di Salina, si fustigava solo, al cospetto del proprio Dio e del proprio feudo, e doveva sembrargli che le gocce del sangue suo andassero a piovere sulle terre per redimerle; nella sua pia esaltazione doveva .sembrargli che solo mediante questo battesimo espiatorio esse divenissero realmente sue, sangue del suo sangue, carne della sua carne…».
Tra il misticismo dei duchi santi e l’agnosticismo del principe-scrittore ci sono tre secoli. Il corso della storia ha modificato tante cose. Ma un filo comune li unisce: il senso della «vanità di tutto». Anche se quello del Gattopardo è senza Dio.

Giuseppe Tomasi è il 4° da sinistra

 

 

Giuseppe Tomasi con il cane Crab

 

Il Don Fabrizio de Il Gattopardo

 

http://www.terradelgattopardo.com/I%20Tomasi%20e%20Palma.htm

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