ARIANNA FINOS, REPUBBLICA 11 AGOSTO 2018, pag. 36 ::: INTERVISTA A LINA WERTMULLER, 90 ANNI IL 14 AGOSTO ++++INTERVISTA DI ANTONIO GNOLI E RITRATTO DI RICCARDO MANELLI DEL 2013

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con Giancarlo Giannini

 

Lina Wertmüller “Io, una Gian Burrasca di novant’anni”

qui fotografata da Augusto De Luca

 

ARIANNA FINOS,

Prima donna candidata all’Oscar come regista, l’artista ripercorre la carriera Dagli incontri con Rita Pavone, Fellini, Giannini fino a quegli occhiali bianchi iconici

Intervista di

ROMA

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lina wertmuller nasce a Roma il 14 agosto del 1928

 

La mia vita è una festa, viviamola insieme».

Lina Wertmuller durante la ripresa de ” I basilischi” (1963)

 

La frase che Lina Wertmüller prese dal finale poi tagliato di 8 ½ per incorniciare la propria autobiografia ( Tutto a posto e niente in ordine) calza anche ora che — il 14 agosto — compirà novant’anni. «Nel girotondo finale del film c’è anche mia madre, lo sa?». Ripercorre la sua vita, la regista, sdraiata sul divano nel salotto Liberty dell’amata casa dietro Piazza del Popolo. Ricordi e aneddoti si affastellano, qualche dimenticanza subito corretta, la puntualizzazione di qualche dettaglio, l’ironia: «Le mie storie sono antiche come le gesta di Federico Barbarossa».

nel 2011

 

Novant’anni vissuti con temperamento.

«Sempre stata così, fin da ragazzina non sopportavo le ingiustizie, e le mie reazioni forti provocavano guai a volte. Ricordo un’offesa a mio fratello che vendicai mordendo a sangue un ragazzino. E quando, a scuola, mi ritrovai a fare la pupù in classe dopo che invano avevo chiesto di andare al bagno. Davanti alla maestra e alla preside. Ricordo la sensazione piacevole di vedere lo stupore buffo sulle loro facce.

La natura di Gian Burrasca fa parte certamente della mia personalità».

Lei lo volle portare in tv con un successo incredibile.

«Era il libro preferito di mia madre… Diventò un fenomeno di costume, grazie anche alla straordinaria bravura di Rita Pavone: nacque un’amicizia che dura ancora».

Tra i suoi primi compagni di viaggio ci sono stati gli occhiali.

«Sì, mia madre era dispiaciuta per me. Io invece ero contenta di poter vedere a fuoco. Tanti colori, poi il colpo di fulmine per quelli bianchi: solari, balneari, regalano subito un clima di festa».

Quando Woody Allen la chiamò per un cameo in “Io e Annie” lei gliene spedì un paio.

«Sì, gli dissi: puoi metterci dietro chi ti pare. Ma poi la scena la fece con lo scrittore Marshall McLuhan».

Marcello Mastroianni and Flora Carabella

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Lo spettacolo è entrato nella sua vita con Flora Carabella, poi moglie di Marcello Mastroianni.

«Fui cacciata da undici scuole, ma in una di queste ho avuto la fortuna di conoscerla. Bella e ironica, la casa piena di musica e musicisti, un mondo magico. Pensai “ecco, è il mondo di cui voglio essere parte”.

Iniziai imitando lei, l’amica più grande che faceva teatro».

Cosa ha imparato dal teatro?

«Non posso dire la disciplina, non ne ho mai avuta. Ma il teatro è la grande madre di tutto, mi ha dato la passione. Recitare davanti a un pubblico vivo, che può fischiare».

Si ricorda quando in tournée a Londra litigò con Monica Vitti che non voleva mettere sul palco la stessa tuta informe degli altri?

«È vero, ma sa che non lo ricordavo? Ma non fu un vero litigio e forse lei aveva anche ragione a voler mettere in risalto il suo bel corpo. Sono sempre stata severa, pignola».

Tutto a posto e niente in ordine: Vita di una regista di buonumore (Ingrandimenti) di [Wertmuller, Lina]

” Mentre nascevo, nella camera volava insistentemente un moscone. Mio padre Federico Wertmüller, nonostante fosse uno spirito laico, non portato alla parapsicologia, pensò che l’anima di un defunto si fosse materializzata in quell’insetto e che si trattasse di suo suocero, il cavalier Arcangelo Santamaria Maurizio, in attesa di trasmigrare nella nuova Arcangelina, non appena fosse stata deposta nella culla con un dito in bocca e un ciuffetto di capelli arruffati”. Inizia così lo straordinario racconto autobiografico di Arcangelina Wertmüller

Nel suo libro racconta aneddoti esilaranti, dal grande capitombolo di Wanda Osiris con la gonna gigantesca a quando Renato Rascel restò appeso a un cavo e cadde contro il sipario.

«Ho sempre avuto un certo gusto per il grottesco che ho proposto poi nel cinema: distorcere la realtà è il mio modo di raccontarla. Ho fatto prima teatro drammatico, sono stata aiuto regista di Guido Salvini e Giorgio De Lullo. L’estate andavo a lavorare con Garinei e Giovannini, scrivendo commedie musicali…

Poi però è arrivato Fellini».

Quanto è stato importante quell’incontro?

«Fondamentale. Il periodo vissuto al suo fianco è stato tra i più belli della mia vita. Potrei parlarne per otto ore di fila».

Era amica di Giulietta Masina?

«Giulietta per me è sempre stata la moglie di Fellini. Federico era il grande amico, il mago, il compagno di giochi. Ero sempre al suo fianco e risolvevo problemi. E lui lo sapeva: una volta fece un annuncio in cui cercava una giovane donna.

Si presentarono in cinquemila, lui si diede alla fuga e mi lasciò a gestire il traffico di quella folla di signore pronta ad assalirlo con affetto».

Poi il debutto in “I basilischi”.

«Con budget basso, ma per fortuna con l’aiuto della troupe di 8 ½ e un incredibile entusiasmo. Andando sul set di Salvatore Giulianodi Rosi, in Sicilia, decidemmo con amici di fare un giro per le cattedrali della Puglia, finimmo al confine con la Basilicata in un paesino che si chiama Palazzo San Gervaso, era quello da cui era venuto mio padre a Roma per fare l’avvocato.

Non c’ero mai stata. Incontrai zii e parenti ed ebbi l’ispirazione per fare un ritratto del Sud profondo: la borghesia, lo struscio, il rapporto padri figli, ragazzi e ragazze…».

Altro incontro fondamentale quello con Giancarlo Giannini.

«Ai tempi di Mimì Metallurgico il produttore era in dubbio su di lui ma io non mollai. Ricordo anche che il direttore della fotografia quando vide per la prima volta Mariangela Melato era dubbioso: il viso non prende bene la luce… alla fine delle riprese era innamorato. Con Mariangela siamo state amiche per quarant’anni».

“Travolti da un insolito destino…” è diventato un culto.

«È rimasto nel tempo. E non solo negli Stati Uniti. Ricordo un tassista di Tokyo che ricordava a memoria le battute. No, il remake con Madonna non l’ho visto. Ho intuito che mi avrebbe deluso…».

Quante volte l’hanno presentata come “la prima regista candidata all’Oscar”, con “Pasqualino settebellezze”?

«Almeno duemila, ma ogni volta ero contenta».

Da Hollywood le sono arrivate offerte che non ha accettato?

«No, perché mi piace l’Italia, mi piace Roma, mi piace stare qui».

Le cose più importanti di questi novant’anni?

«L’incontro con Enrico Job, mio marito. Il grande dono che mi ha fatto la vita. Lui e mia figlia sono le cose più care. Quelle professionali non me le ricordo neanche più …».

Lina Wertmüller è nata il 14/8/1928

Peperoni ripieni e pesci in faccia

(2004) l’ultimo film

 

fany-blog.blogspot.com —agosto 2013

https://fany-blog.blogspot.com/2013/08/ritratto-di-lina-wertmuller.html

 

Ieri su Repubblica uno splendido ritratto di Riccardo Mannelli ed una bella intervista-testimonianza
di Antonio Gnoli

a Lina Wertmuller, famosa regista italiana.


Lina Wertmuller: Sono una donna piena di eccessi
di ANTONIO GNOLI

Lina Wertmuller: ” Sono una donna piena di eccessi” vogliata, capricciosa, inversa. Sdraiata su un divano – che Freud avrebbe guardato con la stessa curiosità con cui studiava i suoi nevrotici – Lina Wertmüller mi riceve nella sua casa romana. Dice di non avere troppo tempo da dedicarmi. Sollecita la lettura di articoli su di lei, biografie, monumenti. E la prima cosa che penso è che chi mi sta di fronte sia una persona insopportabile. Non un’ egocentrica, come pure capita di incontrare e neppure una provocatrice pronta a stoppare l’ ennesimo seccatore di turno. Ma una cui non frega più niente di niente. È lì stesa sui cuscini con i suoi inconfondibili occhialini bianchi a dirci – tra i silenzi e i colpi di tosse – che la vita ha compiuto il suo giro completo. Poi penso che a 85 anni Lina Wertmüller ha tutto il diritto di mandarmi al diavolo e che in fondo sotto quell’ apparente svagatezza si cela la donna intelligente, provocatoria, e perfino fragile che ci ha regalato alcuni dei più bei film della storia italiana, a cominciare da quell’ esordio I basilischi che la impose a livello internazionale.
Che ricordo ne ha?
«Ma io non voglio ricordare. Sono stanca. Dormo poco. Ho sempre dormito poco. Tre o quattro ore per notte. Un tempo mi bastavano. Per fare tutto quello che facevo».
E ora?
 «Ora che?».
Cosa fa, la notte, quando è sveglia? «Vedo film, mi rincoglionisco di cinema. La notte, il giorno, il pomeriggio. In questo momento è la mia occupazione principale: condannata a vedere».
Le piacerà anche. «Ci sono film che non invecchiano. Solitamente quelli in bianco e nero. Mi farebbe un favore?».
Se posso.
«Non mi faccia più domande».
Perché ha accettato che venissi? «Forse perché ci illudiamo di essere dei punti di riferimento nel mondo reale».
Per alcune persone lo siamo, per altre forse lo diventeremo. «In un certo senso è vero. Se ci va bene diamo e riceviamo orientamento. Vuole un bilancio della mia vita? Credo di essere stata una donna molto fortunata».
E il cinema c’ entra con questa fortuna? «Non potrei negarlo. Alti e bassi: è la legge dello spettacolo».
Più alti, direi. «Vuole compiacermi?».
Ma no, è un fatto. Proprio a cominciare da quell’ esordio. Che anno era? «Ci risiamo. Vabbè, era il 1961. Scelsi di raccontare una storia del Sud, un pezzo delle mie radici. Avvenne tutto in maniera molto casuale. Ero andata con Tullio Kezich a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Mi venne la curiosità di visitare il paese di origine di mio padre che non era molto lontano: Palazzo San Gervaso, una gloriosa cittadina della Basilicata. E guardando la vita arcaica e velleitaria dei suoi abitanti, sentendoli parlare come se al mondo non esistesse che quel paese, pensai che quella storia valeva la pena di raccontarla. Scrissi la sceneggiatura e realizzai il film. Kezich, che aveva caldeggiato e seguito tutte le fasi, riuscì a farlo entrare in concorso al festival di Locarno, dove vinse. Era il 1963». 
Aveva già avuto esperienze con il cinema? «Frequentavo Federico Fellini. Lo conobbi attraverso la mia amica Flora Carabella, una donna dotata di un fascino unico, che avrebbe in seguito sposato Marcello Mastroianni. Fellini dava l’ impressione di interessarsi a te, quando in realtà era solo lui il centro dell’ attenzione. Comunque, gli divenni amica. Lo accompagnai perfino alla prima londinese della Dolce vita e lo aiutai nel casting di Otto ½. Tra l’ altro, fu proprio grazie alla troupe di Otto ½ che potei realizzare I basilischi. In ogni caso, più che il cinema fu il teatro la mia passione d’ esordio». 
E come si realizzò quella passione? «Fu grazie a Flora, che si era iscritta all’ Accademia d’ arte drammatica, che cominciai a frequentare l’ ambiente. Ero troppo piccola per iscrivermi e alla fine scelsi la Libera accademia del teatro che era diretta da Pietro Scharoff, un allievo di Stanislavskij di cui insegnò il metodo. Finito l’ apprendistato mi sentivo pronta a conquistare il palcoscenico. E feci una cosa abbastanza inusuale».
Cioè? «Mi rivolsi direttamente a un famoso regista teatrale, Guido Salvini. Suonai il campanello di casa e lui mi venne ad aprire in pigiama e morto di sonno. Mi disse che vuoi ragazzina? “Mi chiamo Lina Wertmüller e voglio fare l’ aiuto regista”. Avevo una faccia tosta incredibile. Fu così che ebbe inizio la mia avventura teatrale».
A parte Salvini chi l’ aiutò? «Fu Andreina Pagnani, grandissima attrice, a prendermi sotto la sua protezione. Mi presentò Giorgio De Lullo che aveva creato la Compagnia dei Giovani con Romolo Valli, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri. Giorgio era un uomo bello e dotato di una grande sensibilità. Soffrì enormemente per la morte di Romolo Valli, avvenuta in un incidente automobilistico, al punto di ritirarsi per alcuni mesi in un convento. Poi, si lasciò travolgere dall’ alcol. L’ ultima volta che lo incontrai fu al caffè Rosati di Roma: lo vidi alle dieci del mattino con un enorme bicchiere di whisky in mano».
Cos’ è l’ autodistruzione? «Girare intorno al proprio abisso e poi finirci dentro. Bisognerebbe amare tutto quello che fa crescere e detestare ciò che ci fa regredire».
Come sono stati gli amori della sua vita? «Belli, strani, a volte divertenti. Ma per me uno solo fu fondamentale. E se non sentissi il senso del ridicolo, aggiungerei eterno, quello per mio marito: Enrico Job. Come si fa a raccontarlo?».

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ENRICO JOB

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Cosa ha avuto di speciale? «Tutto. È stato un grande artista. Ai miei occhi il più grande. Era un uomo schivo che non accettava i compromessi. Deluso dal mondo foto dell’ arte contemporanea, aveva preferito il teatro. Fu uno scenografo impareggiabile, innovativo. Ha ideato per me le cose più belle, anche quelle realizzate al cinema».
A proposito di cinema lei è stata la prima donna candidata a un Oscar per la regia. «Avvenne con Pasqualino Settebellezze, ebbe quattro nomination. New York impazzì per i miei film. Avevo messo d’ accordo il pubblico, la critica e i registi. Pensi che Woody Allen, colpito dalla montatura dei miei occhiali bianchi, voleva farmi fare un cameo in Io e Annie. In quel periodo stavo girando un film. Perciò gli spedii un paio di occhiali simili a quelli che indossavo dicendogli che avrebbe potuto usare una controfigura. Non credo colse l’ ironia. Quel piccolo ruolo fu poi interpretato da Marshall McLuhan. Perfino uno scrittore come Henry Miller, dopo aver visto Travolti da un insolito destino, disse che il film, per umorismo ed erotismo, gli ricordava Tropico del cancro ».
Uno che di sesso se ne intendeva. «A giudicare dai suoi romanzi e carteggi era un’ autorità assoluta. Nel mio piccolo con il duo Giannini-Melato realizzai la coppia più erotica del cinema italiano. O quasi».
Quasi? «Beh, il grande De Sica aveva creato quella tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Come si dice? Noblesse oblige ».
Si può coniugare erotismo e comicità? «Ma i miei film non sono mai stati comici. Non appartengo alla tradizione gloriosa della commedia all’ italiana; e lo dico consapevole che da lì sono uscite opere straordinarie. No, i miei film sono grotteschi. Che è un’ altra cosa». 
Cosa l’ attrae del grottesco? «Sono una donna piena di eccessi e forse il grottesco stilisticamente mi corrisponde. Amo deformare la realtà perché solo così riesco a raccontarla. Anche l’ eros vi si intona meglio».
Sul grottesco viene da pensare a certi giudizi poco lusinghieri che Nanni Moretti espresse sul suo cinema. «Ah l’ abominevole Moretti! Pensavo che le sue uscite contro di me in Io sono un autarchico, sotto forma per lo più di vomito, fossero solo spiritosi espedienti. In realtà era vero disprezzo. E lo capii quando al festival di Berlino provai a salutarlo e lui mi voltò le spalle. Credo, nonostante tutto il suo successo, che sia e resti un rosicone». 
Cos’ è il cinema? «È una baracconata quando lo fai. Ma poi accade il miracolo. E a volte diventa poesia».
E recitare? «Un dono misterioso e naturale che un bravo attore ha e gli altri non hanno».
In cosa consiste? «Ti fa credere in quello che fa. Alla base della grande recitazione c’ è l’ identificazione del pubblico. Ciascuno vuole essere lui o lei. È un’ alchimia dei sentimenti».
Teme il pubblico? «Temo la sua imprevedibilità. Chaplin sosteneva che il pubblico è un mostro senza testa che non si sa mai da che parte si volterà. Anche in questo caso mi ritengo fortunata».
La fortuna è anche negli incontri che si fanno. «Dovrei fare una lista lunghissima. Ricordo con tenerezza Nino Rota, una presenza soave. Gli capitava di comporre suonando e dormendo al pianoforte. Visconti: esigente e aristocratico. Con Luchino negli ultimi tempi c’ era spesso Helmut Berger. Circolava la storiella che questo giovane bellissimo gli fosse stato portato da un albergatore austriaco avvolto in un tappeto, come pagamento per un debito. Non facevano che insultarsi. Ricordo il salotto di Suso Cecchi d’ Amico. Da lì è passato tutto il cinema italiano. Il solo che non andò mai era Fellini. Come salotto preferiva Roma».
È la città dove è nata? «Sì, in una palazzina rosa dietro piazza Cola di Rienzo. Da anni vivo invece sopra piazza del Popolo. Mi affaccio e capisco perché Roma è la città più erotica del mondo. In questo piccolo spazio si intrecciavano i destini di parecchi artisti, che spesso si vedevano la sera al ristorante l’ Augustea: Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Laura Betti, Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana del ‘ 900».
Glielo riconoscono in molti. «È vero. Le piacevano i cani, i gatti e i ragazzi vagabondi. Se li portava a casa e li accudiva».
Un artista deve essere diverso? «Deve con il suo linguaggio saper raccontare delle storie. Poi che sia diverso o no chi se ne frega. Io ne ho raccontate tante. E mi capita di dire: se domani non ci sarò più sappiate che mi alzerò da tavola come un commensale sazio».
E se le chiedono il conto? «Spero che non sia salato. Per ora si va avanti».
Avanti come? «Ho finito di scrivere una commedia per il teatro su Livia, la moglie dell’ imperatore Augusto. Fu la donna che accompagnò il difficile passaggio dalla repubblica all’ impero. Di solito sono figure che non vengono ricordate. Ed è un peccato perché avremmo molto da apprendere. Livia aveva due palle che non finiscono mai».
Sente di assomigliarle? «Non vedo imperi all’ orizzonte. Però mi piacerebbe».
(La Repubblica)

 

 

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