MGP — L’ULTIMO SOGNO, agosto 2018 — LE ILLUSTRAZIONI SONO DI MONET

 

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L’ULTIMO  SOGNO       Agosto 2018

 

Ero sicura di sapere ogni cosa di lei, di conoscere anche i pensieri nascosti, il suo sentire segreto, quello che non diceva e non avrebbe mai detto a nessuno. Credevo di essere entrata nella sua anima e di essermi accasata lì tra il cuore e il ventre, come un neonato bisognoso di calore e di nutrimento. Emma era per me una madre e una figlia allo stesso tempo, non solo un’amica.
Niente sembrava turbarla, la vita non era un ostacolo da affrontare e superare, come per tutti noi, era una situazione nella quale entrare e rimanere senza troppe fatiche, senza ansie, rimpianti o pentimenti.
Era un bel progetto da costruire e attuare. Era una strada. . . . un bosco . . . .un mare da attraversare. . . . una celebrazione quotidiana per la conquista di un nuovo ritaglio di terra.
Non le mancava certo l’entusiasmo né l’energia per proseguire, ma da quando mi sono trasferita in città non potevo più andare a trovarla spesso e forse un fatto importante le era accaduto, una circostanza che mi era sfuggita, qualcosa di serio e forse qualcosa di grave. Certamente un’ombra era entrata nel suo sguardo.
Nessuno sa capire cosa sia successo e dove sia andata, la stanno cercando da quattro giorni. Sto interrogando la mia memoria per trovare qualche cenno, qualche indizio che mi faccia capire di più.
Cosa può essere accaduto.

 

 

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Viveva sola, nella sua grande casa e non voleva accettare di cambiare posto, come la figlia più giovane le suggeriva, dopo la morte del marito.

– Vieni a vivere da me, o almeno qui vicino, in centro. Non puoi stare lassù da sola. –
Aveva ormai 75 anni, ma non era vecchia.  La sua anima sembrava intatta, illesa come quando era ragazza e anche la sua figura aveva mantenuto qualcosa della giovinezza. Era facile immaginarla ventenne, alta e austera, con lo sguardo severo, mentre, con le braccia alzate, cercava di ravviare i capelli impigliatasi nel ramo delle rose e di sistemare la retina sottile che  li teneva raccolti.
– La mimosa è fiorita in anticipo quest’anno – mi diceva, ed era la fine di Febbraio – ha una fioritura perfetta.-
La chioma gialla lucente emergeva sopra gli altri alberi, solo un occhio attento poteva intravedere le foglie appena spuntate che attendevano l’appassire dei fiori prima di ricoprire interamente i rami.
– Un altro inverno, mite come questo, fu quello del ’49, quando arrivammo qui. Ci parve un paradiso. Lui non si mise mai il cappotto, indossava quel suo vecchio impermeabile inglese, comprato a Bologna, stava così bene. . . . sembrava un attore.
Mi ricordo che piovve finalmente il 20 di Marzo e tutti uscimmo all’aperto a goderci l’acqua, anche il cuoco, quell’avvinazzato di Emilio, che non veniva mai fuori dalla cucina. Era come una festa. Poi Lui ed io andammo a fare una lunga passeggiata sulla collina, avevamo bisogno di respirare quell’aria profumata. Mi teneva il braccio intorno alla vita, mi sentivo bene al suo fianco, non desideravo niente di più. –
La guardavo mentre si avvolgeva nella giacca di lana e incrociava le braccia. Ritrovava dentro di sé quell’appagante e profonda sensazione di pienezza che satura chi si abbandona all’altro con fiducia. Distendeva il viso in un sorriso e si rianimava ricordando il sogno della notte precedente.

  • Ero in macchina con Lui nella vecchia 1100 Fiat di due colori, te la ricordi? Io ero accoccolata tra le sue gambe e mi sentivo ben protetta come se fossi tornata bambina, tra le braccia di un uomo fidato, forse mio padre. “Dove stiamo andando?” gli chiesi “ A casa, non è ancora finita la nostra casa, dobbiamo portarla a termine” mi rispose sfiorandomi il viso.
    Pensai a una casa grande, semicircolare, rivolta a ponente verso il sole, tutta a vetri, spaziosa e luminosa, e mi ricordai che era proprio quella che avevo già sognato. Aveva tante stanze, una per ognuno di noi, e un lungo corridoio che le racchiudeva tutte. Lo guardavo e gli sorridevo, ero sempre lì, tra le sue gambe. –

Avevamo cominciato a fare il solito giro del giardino per poi decidere quale lavoro fare. Partivamo sempre dall’aiuola delle azalee già tutte punteggiate da germinazioni, con i boccioli ben stretti intorno al rosa pallido dei fiori.
Proseguivamo seguendo la siepe del pitosforo, luccicante nelle foglie nuove disposte a raggiera intorno alle turgide punte pelose germogliate al centro. Pronte ad aprirsi al calore del giorno dopo.
Camminavamo calpestando le viole canine, le calendule, l’erba malva e il tarassaco che cresceva spontaneamente tra i sassi e in mezzo alla ghiaia. Chiacchieravamo e notavamo i cambiamenti avvenuti dalla domenica precedente: il nascere ostinato nei luoghi più insospettabili, il gemmare prodigioso degli arbusti secchi, l’aprirsi sorprendente dei fiori, quasi da un momento all’altro e ci stupivamo di ogni cosa. Certo qualcosa di strano accadeva dentro la terra, nell’aria, nelle radici delle piante, era un fenomeno antico e conosciuto, ma sembrava completamente nuovo.

  • Sai che l’ho visto qui, vicino al gelsomino, ieri mattina. Non credere che io sia pazza, l’ho visto veramente, è venuto a salutarmi. Era vestito di bianco come quando veniva a trovarmi d’estate, nell’Adriatico. Bello, fulgido in volto, ma è rimasto solo un attimo. Sono tornata nel pomeriggio per vedere se c’era ancora, ma non è più tornato. –
    – Hai avuto paura? –
    – No, paura . . . .perché –

 

**********

 

La vicina di casa è stata interrogata dagli inquirenti, ma non sa niente. Ha riferito che le finestre erano sempre chiuse e che non ha visto nessuno, neppure la figlia. Hanno portato i cani per cercarla nelle campagne intorno alla casa e giù fino al mare, ma niente.

Io ritorno alla memoria di quei primi giorni di Primavera e mi soffermo a ricordare i dettagli e i segreti di quel giardino da lei tanto amato e curato. Era la misura del suo star bene. Si poteva indovinare il suo umore dalla cura che metteva nelle piante.

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Quella mattina ci soffermammo a lungo nell’aiuola delle rose. Gli afidi incollati a grappolo sui boccioli e sulle pagine inferiori delle foglie erano perfettamente mimetizzati con il colore verde della pianta per sfuggire agli insetti e agli uccelli. Erano un po’ disgustosi, gonfi e appiccicosi, pieni delle sostanze zuccherine della linfa.
Aveva trovato un prodotto naturale emolliente per farli scivolare giù, senza ucciderli. Usava lo stesso sistema per la cocciniglia negli alberi di limone. Si contavano numerose le femmine attaccate saldamente alla corteccia e ricoperte da una sostanza coriacea a difesa delle uova che tra breve si sarebbero schiuse, essiccando il corpo materno. Le formiche risalivano i rami, in file ordinate, avide delle goccioline di melata presenti negli escrementi. Le si potevano vedere, intente a sollecitarne la fuoriuscita stimolando con le antenne la zona anale.
Conosceva ogni dettaglio di quel mondo nascosto e perfetto e accettava, se pur a malincuore, ogni ragione naturale del ciclo della sopravvivenza.
A differenza del mondo animale, crudele e spietato, attribuiva alle piante una sorta di nobiltà, una generosità quasi umana nel dono prodigioso delle trasformazioni incessanti.
– Hai visto con quale rapidità sono cresciute le fogli del nespolo?- mi faceva notare – sembrano lunghi lance contro il cielo. E il fico? Sembra affilare le sue unghie verdi, ogni giorno più lunghe, come un mostro dalle cento braccia risvegliatosi forzatamente da un lungo sonno. –

Girava per il giardino e godeva di ogni cosa. Controllava la crescita dei germogli delle ortensie, stringeva tra le dita le punte delle viole ciocche per scoprire quanto tempo avrebbe dovuto aspettare per odorare il profumo intenso di quei fiori, apriva un poco il rubinetto per innaffiare la felce che zampillava lì vicino, poi staccava un rametto di erba Cedrina, lo annusava e se lo appuntava sul petto.

  • Quando Lui veniva in giardino, se ne metteva sempre un rametto all’occhiello, amava questo profumo. I fiori che amava di più erano le tuberose, me le regalava ogni anno per l’anniversario di nozze e alla sera mi portava al Rose Garden. Un anno mi feci un abito nero di taffetà con le rose verdi, aveva la gonna godet, molto ampia, frusciante, il corpino aderente e la scollatura a punta, molto aperta sulle spalle, le maniche strette, fino ai gomiti e Lui. . . . sempre elegante. . . . oh sì. . . –

Si era disegnata il vestito addosso, scorrendo con le mani le parti del corpo e con il viso radioso, era pronta per uscire, come un tempo.

Era un incessante ritorno al passato unito al piacere irrinunciabile di ripercorrere una vita ben vissuta. La memoria, il desiderio e la soddisfazione si erano frammischiati nel suo pensiero ed erano diventati inseparabili; un unico impasto lucente, così che tutto ciò che era stato si trasformava in qualcosa di mirabile. Forse sapeva che solo allora  tutto poteva essere così perfetto, proprio perché nulla esisteva più fuori dai suoi pensieri, ma non le importava molto quanto il pensare fosse corrispondente al reale o travestito per la festa.
Quando si coricava per la notte, sistemava sotto il cuscino, la foto di Lui avvolta in un fazzoletto con le sue iniziali. Lo annusava, abbracciava il cuscino e si immergeva in uno stato di beatitudine, di bontà e dedizione. Abbandonava ogni contatto con il mondo esterno, cosicché l’incantesimo potesse avverarsi, libero dalle catene della coscienza.
Quell’uomo al quale tutto poteva dare e dire ritornava vivo, quel marito  che sapeva apprezzare, capire, condividere, amare, tornava per stare al suo fianco.

 

**********

 

La figlia mi ha confessato che avevano discusso a lungo qualche giorno fa sempre per la stessa ragione e teme di aver esagerato nel forzarla a decidere. Pensava fosse andata da un’amica sulla costa francese, ma anche lì nessuna traccia.
Ho raccontato alla polizia ciò che sapevo di Emma. Ancora torno a pensare a quel fine settimana. Mi ero fermata a dormire da lei, avevo la mia stanza in quella grande casa.  La mattina del sabato preparammo la colazione nel terrazzo, non era freddo, e subito mi raccontò il sogno della notte precedente.

  • Ho sognato qualcosa di festoso e felice, eravamo in un albergo che era anche un luogo di villeggiatura. Ci trovavamo lì in vacanza, c’erano tavolini e sedie e tappeti e molti fiori e il sole caldo. Noi ballavamo per quel paese fatto di stanze e girando scendevamo per la strada interrotta da scalini bassi e larghi. Lui stava bene di salute, era energico e dolce insieme. – Mentre raccontava i suoi occhi brillavano di felicità e le sue mani si agitavano in aria.
    – Era un ruotare agilmente uno tra le braccia dell’altro e non sapevo se guidava lui o io. Era un andare insieme, volteggiando. Ero leggera come la veste bianca che indossavo. Mi sentivo completamente felice, pensavo che non avrei potuto desiderare nulla di più, che nulla di più esisteva. In quel ballo c’era l’appagamento totale e non avevo altro da cercare. Ora penso che non avrò più ragione di essere triste, perché posso sempre rifarlo quel ballo. –

Ancora coinvolte in quel ballo magico salimmo nell’orto e cominciammo a dissodare il campo per poi interrare le piantine degli ortaggi già cresciuti a sufficienza nelle cassette delle semenze.
L’odore della terra si univa al profumo della salvia e del rosmarino che inondava l’aria non appena i rami venivano sfiorati; un senso di molle, un po’ viscoso, vibrante di una vita invisibile, si scopriva sotto i vasi, le pietre e i tronchi sollevati. Tra le zolle rivoltate, trattenute da una fitta ragnatela di radici bianche sottilissime, strisciavano le piccole lumache senza guscio e i lombrichi rosa e timidi che, spaventati dalla luce del sole, si affrettavano a nascondersi nel buco più vicino. Emma sistemava i solchi l’uno dopo l’altro, in file ordinate, con accuratezza, con il gusto di fare le cose per bene.

Amava molto fare le cose e malgrado si affaticasse, non rinunciava a niente e non voleva proprio stare seduta per riposarsi, come le consigliava il medico. Non era interessata alla conservazione degli oggetti, alle statuine di porcellana, agli argenti e neppure alla noiosa scadenza quotidiana del cibo e del sonno, Emma amava inventare. Era un continuo rifare, trasformare, rinnovare, aggiustare, riutilizzare. I rami potati, le siepi, le tende, la cornice di un quadro, la fodera della poltrona, era un continuo recuperare e malgrado l’abilità acquisita nel tempo, non ripeteva mai la stessa cosa, né usava lo stesso modo, “creava” o per meglio dire teneva in allenamento l’ingegno, quella capacità intellettiva vitale nella quale sentiva riposto il senso della vita concreta, quella del fare.

L’altra, quella del pensare, era la trama dorata di una tela antica intessuta di occasioni magnifiche, di momenti gloriosi, di stati d’animo esaltanti e quando, durante il giorno, le venivano alla memoria i bisticci  o le sfacciate menzogne, una ribellione interna l’assaliva e la volontà cieca di negare superava ogni dubbio.

– Sono sempre al lavoro le signore, preparate l’orto? – La contadina di ritorno dal campo si era avvicinata alla rete.

– Quando viene Signora a vedere la mia campagna, adesso sì che è bella.–

–  Potremmo venire anche domani mattina, cosa ne dici? – Mi chiese-

– Va bene per domani, verso le 10. – Risposi

– Certo, certo – disse Giovina – allora vi aspetto domani alle 10.-
La donna soddisfatta deponeva il cesto che aveva sulla testa, estraeva un mazzetto di prezzemolo, tre uova, le porgeva attraverso la rete, poi sistemava nuovamente il cesto sulla testa e riprendeva la salita.

 

 

**********

 

La mattina successiva si era svegliata troppo presto, girava per la casa con la testa reclinata di lato e il corpo un po’ piegato. Non era un atteggiamento consueto.

  • Non hai riposato bene, vero? –
  • No, non è niente, ho fatto un brutto sogno, ma non voglio pensarci.-

Arrivammo alla campagna di Giovina puntuali. L’abbaiare del cane, legato con una lunga catena, ci bloccò sulla passerella che attraversava il fosso. La donna, abbandonato il campo dei carciofi , si avvicinò strofinandosi le mani per pulirle un po’ dalla terra.

– Non avete paura, è buono. –

Sorridente e solerte ci accompagnò per i campi indicando le varie coltivazioni, la sorgente che scorreva di fianco alla casupola semi-diroccata, il pozzo e le grosse maniche per l’irrigazione dei campi, la legnaia e intanto raccontava di quando era arrivata dalla Calabria, dei figli, del marito ammalato.

  • Venga Signora, voglio farle vedere i conigli. –
  • Quante gabbie, li tiene divisi? –
  • E certo Signora, i maschi sono isolati, se no si accoppiano continuamente e le femmine si indeboliscono a figliare sempre. Sono all’ingrasso! – Indicava la gabbia più larga.
  • Che belle bestie! –
  • Venga Signora, qui ci sono le femmine – si avvicinava a tre gabbie di dimensioni uguali, addossate al muro – Queste hanno partorito da poco. La nera ne ha otto, la grigia ne ha nove e questa bianca è pregna da venti giorni, si sgraverà tra dieci. Vede come si è già preparata il letto per i figli: si è aggiustata la paglia e sta perdendo il pelo, farà un mucchio così grande, tutto bianco. –
    Allargava le mani davanti a sé.
  • E qui ha le galline – notava Emma facendo attenzione al camminare
  • Ma non c’è il gallo? – domandava sorpresa.
  • No, le tengo solo per le uova e poi il gallo è cattivo, mangia tutto. Aspetti ora le faccio uscire. Certo loro lo vorrebbero il gallo, guardi, guardi signora. –

Le galline si erano sparpagliate tutto intorno e chiocciando beccavano insistentemente il terreno. La donna allungò un braccio sulla testa più vicina, allargò la mano poi la spinse sul collo e sul corpo, strofinando la bestia con forza. Subito l’animale si arrestava piegandosi un po’ sulle zampe, poi aperte le ali si accovacciava fino a terra, rimanendo ferma come se attendesse qualcosa.

  • Crede che io sia il gallo, vede, lo cerca, è pronta- rideva maliziosamente Giovina – è la primavera. . . . –

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Ricordava alcune primavere straordinarie quando qualcosa di  umido e morbido sembrava uscire dalla terra e la natura intera pareva incurvarsi per il gran fiorire e giacere immobile come una donna oziosa. Ripercorreva la strada che girava intorno alla bella villa dalle pietre azzurre, un senso di pieno e di vuoto le stringeva lo stomaco come allora. Camminava e si fermava, volgeva lo sguardo lontano, in alto, oltre, dall’altra parte, al suolo e si sentiva confusa da tutto il languore di quel fiorire. “ Ma Lui non c’era. . . già, era sempre in viaggio” un disordine doloroso attraversò il suo sguardo “ non voglio pensarci, che brutto sogno. . . . è impossibile.”

  • Vieni Emma, cosa fai là, vieni a vedere le anatre. –

Nello stagno due grosse anatre bianche e nere giravano appaiate, ripetendo ossessivamente gli stessi gesti. Sembrava facessero una gara, come l’una volesse superare l’altra nell’intensità del verso e nella sveltezza del movimento: allungavano il collo, spingendo il capo in avanti e soffiando forte, poi lo ritraevano velocemente. Procedevano come tirate da un filo invisibile. Erano eleganti, ornate da un ciuffo dritto sul capo, dal rosso acceso intorno agli occhi e al becco e accompagnate dal dondolio della coda dritta.

  • Si corteggiano – commentava Giovina con cenno di intesa.

Dalla parte opposta si gettavano nello stagno altre due anatre più piccole delle prime. Il maschio con le penne colorate e gonfie sbatteva le ali a pelo d’acqua per raggiungere la femmina. La montava e tenendola ferma con il becco per il coppino, la spingeva a forza sott’acqua. Questa riemergeva ogni tanto per respirare, sembrava accettare con rassegnazione e disinvoltura le esuberanze del compagno, tanto da  dimenticarsene appena si sentiva libera dalla presa, con un’energica sbattuta di ali.

“ Che sia indifferente?“ Si chiedeva Emma, mentre pensieri inquietanti le si affollavano in mente.

Per quanto tempo si era sentita come quell’anatra, in qualche modo assalita senza il tempo di desiderare, per quanto tempo si era vergognata di quei desideri prepotenti che la svegliavano di notte, quando Lui non c’era. Una forza interiore spingeva a pensieri tormentosi le membra, i pensieri, i sensi come se un’onda di piena la trascinasse in mare aperto. Lei stessa si stupiva e temeva ciò  che le stava accadendo e gli uomini la guardavano diversamente, come se sapessero il fermento che attraversava il suo corpo, non poteva alzava gli occhi su di loro.
Uno sgomento improvviso l’assaliva, nella confusione dei ricordi e mentre tornavamo dalla campagna la vidi pallida e scomposta. Fu allora che mi raccontò il sogno di quella notte.

  • Un forte dolore al petto mi ha svegliato, era come se qualcuno mi stringesse la gola per farmi soffocare, mi ero seduta sul letto e non riuscivo a riprendere il respiro. – Parlava lentamente e le parole stentavano a uscire dalla bocca.– Ero in una grande cucina, era tutta sporca, io vedevo le immondizie per terra e mi stupivo di non aver fatto pulire. Avevamo mangiato insieme, in una grande tavolata, forse era un compleanno – portava la mano alla bocca contenendo a fatica il pianto, respirava profondamente e riprendeva il racconto – Improvvisamente mi sono trovata per terra, schiacciata in un angolo e Lui in piedi, con un lungo bastone in mano, mi faceva del male, nell’occhio, lo girava con forza. Non potevo sapere se provasse  piacere nel farmi del male o se fosse una necessità il farlo, forse entrambe le cose. Ciò che sentivo era il mio lamento e un dolore sordo perché attutito dall’accettazione di riceverlo da Lui. – Ancora si interrompeva, il respiro affannoso le impediva quasi di parlare. – Un pianto prolungato, lamentoso, ma rassegnato usciva dalla mia gola. Era un episodio che accadeva ogni tanto e sapevo di doverlo accettare, non poteva essere diversamente. Faceva parte del mio ruolo di moglie, dovevo ricevere quel sacrificio per poter mantenere la nostra unione.
    Erano tutti lì, facevano circolo intorno a me, guardavano, ma non erano stupiti, avevano già assistito alla stessa scena molte volte. Era un rito necessario. Lui era grande come una montagna davanti a me con il suo bastone nel mio occhio. Sentivo il mio lamento sottomesso e sapevo di dover accettare quella tortura che periodicamente si ripeteva come una cerimonia primitiva, antica, crudele e inevitabile. Era tutto così vero. Troppo vero
    .– Piangeva, si copriva il viso con le mani. – Perché questo sogno. . . ? Come farò ora a ritrovare i miei ricordi. . . ? –

Era scesa dall’automobile con la testa bassa e il corpo piegato, si aggirava per il giardino, ripeteva le stesse parole:

– Come farò ora . . . ? –

 

**********

 

Sono già passati sei giorni dalla scomparsa di Emma. Ieri il figlio più giovane di Giovina, Salvatore, che lavora al cimitero è andato alla polizia per dichiarare di averla vista aggirarsi tra le tombe.

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L’hanno trovata oggi nella tomba del marito, una casetta di famiglia ricoperta di marmo bianco e chiusa da una porticina di ferro. Chissà da quanti giorni era lì senza mangiare e senza bere. L’hanno portata in ospedale, un corpo senza più forza né vita. Hanno cercato di animarla, ma inutilmente, è morta dopo un paio di ore. Il suo corpo forte era diventato esile e ossuto, coperto da abiti logori. Il viso pallido quasi violaceo intorno agli occhi era segnato da due solchi profondi ai lati della bocca e i capelli scomposti erano sparsi sul collo come serpi velenose. E’ morta di stenti come una povera stracciona che si è lasciata morire per strada, senza riparo né difesa.

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1 risposta a MGP — L’ULTIMO SOGNO, agosto 2018 — LE ILLUSTRAZIONI SONO DI MONET

  1. Donatella scrive:

    Bello il racconto, preciso nei dettagli e commovente per i sentimenti che esprime. Drammatica la consunzione di un corpo, che era stato bello, attraente e pieno di vita. Viene fuori l’aspetto doloroso
    e ineluttabile della condizione umana, che, nel migliore dei casi, vede sparire a poco a poco le persone care e il proprio corpo avvizzire, quasi irriconoscibile nell’aspetto se paragonato a quello della giovinezza.

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