DIALOGO TRA UNO PSICOANALISTA /VITTORIO LINGIARDI / E UN CONGNITIVISTA / BENEDETTO FARINA /— SULLA COOPERAZIONE COME TERZO ELEMENTO DELL’EVOLUZIONE OLTRE ALLA MUTAZIONE E ALLA SELEZIONE NATURALE

 

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VITTORIO LINGIARDI, PROFESSORE ALLA  SAPIENZA DI ROMA

 

 

PROF.  BENEDETTO FARIA— 4 minuti  di  INTERVISTA

 

REPUBBLICA  DEL  12   SETTEMBRE 2018, pag. 35

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t E r z a p a g i n a

I dialoghi

Vittorio Lingiardi e Benedetto Farina

Dottor Freud aiutaci a cooperare

VITTORIO LINGIARDI

 

La psicoterapia è una forma di cooperazione e la cooperazione è una forma di psicoterapia. Sono giunto a questa conclusione dialogando con un collega che ha una formazione diversa dalla mia. Non che parlare di “scuole” abbia sempre senso, ma la mia educazione, psicoanalitica, e quella del mio interlocutore cognitivista Benedetto Farina, docente all’Università Europea di Roma e allievo di Giovanni Liotti, uno dei padri del cognitivismo italiano, sono oggettivamente diverse.

Cose importanti però ci uniscono: siamo entrambi clinici e ricercatori. Benedetto fa ricerca soprattutto da una prospettiva neuroscientifica; io parto dai trascritti delle sedute di psicoterapia per valutare la qualità dell’alleanza terapeutica: rotture, riparazioni, negoziazioni… Entrambi siamo cresciuti studiando la teoria dell’attaccamento di Bowlby, che pone basi etologiche e motivazionali all’origine delle relazioni e dello sviluppo della personalità. Forse l’unica teoria che ha saputo raccogliere attorno a sé, mettendole in dialogo, discipline tra loro diverse e litigiose. «Oggi – dice Farina – potremmo metterla così: la tua psicoanalisi e il mio cognitivismo considerano la relazione con il paziente il principale strumento terapeutico. Ma non è forse questo il fattore comune che secondo la ricerca spiega l’efficacia di tutti i trattamenti?».

Vittorio Lingiardi: Sì, l’esito di una terapia è in gran parte associato alla qualità della relazione che si stabilisce tra paziente e terapeuta. Detto questo, le variabili in gioco sono molte. Anche perché molte sono le psicoanalisi e molti i cognitivismi.

Nonostante il marchio di fabbrica, un paziente in cerca di terapia non sa mai esattamente quello che trova. E poi ci sono le diverse tipologie, anche caratteriali, di terapeuta. Un terapeuta riservato e uno espansivo funzionano nello stesso modo? Con tutti i pazienti?

Per tornare alla relazione come fattore terapeutico, mi domando se è più in gioco l’accudimento o la cooperazione, pur sapendo che il bravo clinico sa dosare il loro contributo.

Benedetto Farina: È un tema che appassionava Liotti, il quale ha sempre sostenuto che è più efficace impostare la terapia sul piano cooperativo, soprattutto con pazienti gravi che hanno alle spalle un’infanzia traumatica.

Stimolare troppo il sistema dell’attaccamento è rischioso, può riattivare memorie traumatiche di accudimenti mancati o distorti.

Molte ricerche dimostrano che la promozione di un clima di cooperazione favorisce invece la capacità di provare empatia, di sintonizzarsi con i pensieri degli altri, di comprendere il funzionamento della mente propria e altrui e di lavorare sugli aspetti che portano a soffrire.

VL: È quello che in psicologia viene chiamato mentalizzare, una funzione che inizia a svilupparsi nei primi anni e ci accompagna tutta la vita. Ed è il pane quotidiano di molte terapie. La sua complessità sta nel riuscire a “tenere in mente” i nostri stati mentali e quelli degli altri.

Sofisticate tecniche di registrazione simultanea dell’attività cerebrale di due individui che interagiscono mostrano che l’attività elettrica dei loro cervelli, nelle aree evolutivamente più recenti come la corteccia frontale, si sincronizza quando devono compiere azioni coordinate e cooperative.

BF: Molte discipline indicano che l’eccezionale espansione del cervello e lo sviluppo delle funzioni cognitive e culturali di cui l’uomo è capace sono il risultato di una traiettoria evolutiva finalizzata alla relazione e alla cooperazione. La spinta motivazionale alla cooperazione ha richiesto lo sviluppo di capacità cognitive sempre più sofisticate come il linguaggio, l’empatia, la condivisione di scopi e decisioni, l’insegnamento.

VL: E dunque delle strutture cerebrali per sostenerle. Ma se la capacità di instaurare legami cooperativi è così fondata sul piano etologico e biologico, come può essere tanto in disgrazia sul piano sociale? Il discorso va affrontato sul piano dell’evoluzione. Proprio Liotti ci insegnava a non perdere di vista la tripartizione evolutiva e gerarchica del nostro cervello e dei nostri sistemi motivazionali. Il livello più arcaico presiede le condotte non-sociali legate alla regolazione delle funzioni fisiologiche, alla difesa dai pericoli, al controllo del territorio, ecc. Quando è molto attivato può avere la meglio. Il secondo livello corrisponde all’attività delle reti neurali che definiscono le condotte di attaccamento, accudimento, richiesta/offerta di cura, ecc. Il terzo livello, prerogativa della specie umana, è nella neo-corteccia e riguarda le dimensioni cognitive dell’intersoggettività e della costruzione di significati. Regola i livelli più arcaici ed è influenzato dalla cultura di appartenenza.

BF: Ed è proprio qui che poggia il sistema cooperativo paritetico. La spinta a cooperare non solo ha promosso le nostre capacità empatiche e intellettuali, ma ha anche favorito la nascita della cultura. Il vantaggio di condividere ciò che si è appreso dall’esperienza individuale è alla base delle capacità culturali che caratterizzano la nostra specie.

VL: Ha dunque ragione l’antropologo Robert Boyd quando sostiene che il nostro successo nell’adattamento è dovuto alla capacità di imparare dagli altri, una capacità che ci permette di accumulare informazioni tra le generazioni e sviluppare strumenti, credenze e pratiche che sarebbe troppo complesso per il singolo individuo concepire durante l’arco della vita. La cosiddetta social brain hypothesis ci spiega infatti che, nei primati, l’espansione del cervello è avvenuta per gestire rapporti sociali sempre più complessi e cooperare al meglio. Un fatto che ci aiuta a capire lo sviluppo di tutte quelle relazioni non finalizzate alla riproduzione, “cognitivamente” impegnative e specificamente umane, come quella psicoterapeutica. Se la mente umana si è sviluppata per cooperare non sorprende che, quando si ammala o soffre, la sua cura non possa che basarsi su una relazione cooperativa. L’aspetto più “miracoloso” dell’evoluzione è forse proprio l’abilità di generare cooperazione in un mondo competitivo. Al punto che c’è chi sostiene che, alla mutazione e alla selezione naturale, andrebbe aggiunta la cooperazione come terzo principio fondamentale dell’evoluzione.

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1 risposta a DIALOGO TRA UNO PSICOANALISTA /VITTORIO LINGIARDI / E UN CONGNITIVISTA / BENEDETTO FARINA /— SULLA COOPERAZIONE COME TERZO ELEMENTO DELL’EVOLUZIONE OLTRE ALLA MUTAZIONE E ALLA SELEZIONE NATURALE

  1. Donatella scrive:

    Bello, incoraggiante questo articolo: cooperare, essere capaci di empatia è qualcosa di scientifico, tutto il contrario di quello che viene definito con disprezzo ” buonismo”.
    A questo punto vi parlo di ” Un affare di famiglia”, il film che ho visto ieri: Palma d’oro al Festival di Cannes del 2018, del giapponese Kore-Eda-Hirokazu. Il film, con una narrazione pacata, ci fa vedere la vita di una famiglia non tradizionale: padre, madre, nonna , figli. Vivono in una specie di baracca in mezzo a palazzoni, si arrangiano con furtarelli, lavorano quando capita e usano la pensione della nonna che li fa sopravvivere. In famiglia c’è una grande serenità: queste persone si sono scelte e le difficoltà della vita, l’essere ai margini della società non incide sul loro umore e sull’affetto reciproco, vero, che dimostrano di avere. Una sera di grande freddo trovano una bambina spaurita, che quasi non riesce a parlare. Pur con qualche dubbio, la accolgono in famiglia, anche se vengono a sapere che i genitori della bambina la stanno cercando. Non intendono restituirla perché hanno visto sulle braccia della piccola dei segni di tortura. La piccola si lega molto al ragazzino, che insegna anche a lei a rubare, fino a che il proprietario di un piccolo negozio di alimentari fa capire al ragazzo che quella non è la strada giusta, né per lui né per la piccola. Il ragazzo, quasi adolescente, a questo punto rimane turbato e sceglie di lasciare in qualche modo la famiglia che finora lo ha accolto e in cui si trova bene. Fingendo di rubare platealmente un sacchetto di arance, si fa prendere e la polizia comincia ad investigare su quella strana famiglia. Sono scene strazianti, perché tra tutti quei componenti raccogliticci, la famiglia era vera e sostenuta da un genuino amore reciproco. Il ragazzo, che si è sganciato probabilmente per il futuro suo e della bambina, impressionato da quello che gli aveva detto il bottegaio, si scusa alla fine con il suo finto padre per tutto quello che ha provocato. In nessuno dei protagonisti c’è rancore, né nel padre ( che finalmente il ” figlio” riesce a chiamare “papà”), né nella ” madre”, che passerà parecchio tempo in prigione, perché si è addossata tutte le colpe. L’unica sfortunata è la piccola bambina, che viene restituita ai genitori legittimi, assolutamente anafettivi e incapaci di volerle bene. L’unica cosa che le rimane di quella ” bella” per lei avventura sono i giochi che faceva con il ragazzino e che continua a ripete in solitudine. Complessivamente il film è un’elegia del mondo degli ultimi, che non sono né brutti né sporchi, né cattivi. Mi ha ricordato un po’ “Miracolo a Milano” , dove i lumpen venivano immaginati in modo poetico e capaci di reagire con la non violenza alla cruda realtà che avevano attorno. Nel film giapponese la famiglia ” punita ” e la realtà che la circonda viene vista con sguardo disincantato e realistico. Tuttavia ci rimane il dubbio: perché la società condanna quella famiglia allo smembramento, quando tutti al suo interno erano felici? Perché la bambina, che nella famiglia occasionalmente trovata, si stava inserendo nella realtà affettiva e cominciava faticosamente ad esprimersi, viene rimandata nella sua famiglia d’origine, dove non farà che regredire? I protagonisti del film ad un certo punto affermano che i genitori si dovrebbero poter scegliere da parte dei figli, pensiero impossibile a realizzarsi, ma quanti di noi in età adolescenziale l’hanno pensato con un po’ di irriverenza e di incoscienza?

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