CHIARA LONOCE, IL MANIFESTO 26 SETTEMBRE 2018::: ALTRO CHE CERVELLI IN FUGA…

 

 

IL MANIFESTO DEL 26 SETTEMBRE 2018

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CHIARA LONOCE, PhD | Max Planck Institute of Molecular Plant Physiology, Potsdam

 

 

 

L’ULTIMA

Altro che cervelli in fuga

Dall’Italia a Berlino. Un anno fa ho raccolto i miei 27 anni di vita in 23 kg di bagaglio e sono partita alla volta della Germania. Non scappavo da nessuna guerra, ma da un Paese che non mi offriva un lavoro

Berlino, il caffè degli italiani nel quartiere di Kreuzberg

Credo sia arrivato il momento di raccontarvi un po’ di cose. Sono un’immigrata. Esatto. Sono anch’io nella categoria che viene, molto semplicemente, definita «migrante economico». Chi scappa lo fa perché è alla ricerca di un lavoro, di una carriera che possa rispecchiare le proprie aspettative e i propri studi, di una vita che possa appagare lo sforzo fatto. È alla ricerca di fortuna.

UN ANNO FA HO DECISO di raccogliere i miei 27 anni di vita in 23 kg di bagaglio e via, ho salutato Roma che mi ha accolto durante i miei studi universitari, la Puglia che ha abbracciato la mia infanzia e sono partita alla volta della Germania. Non che mi dispiacesse l’idea – s’intende – sono sempre stata abituata a viaggiare, a vivere lunghi periodi all’estero, sono di facile adattamento, non scrivo queste parole neanche per lamentarmi della mia attuale condizione, anzi, in questo anno qui ho pensato più volte che, in fondo, passare qui la vecchiaia non sarebbe una cattiva idea.

IO NON SCAPPAVO da nessuna guerra, nessuna negazione di diritti, nessun governo totalitario mi opprimeva, e non correvo il rischio di essere schiacciata da un bomba. Niente di tutto ciò. La causa della mia fuga è stata una, chiara e limpida: il mio Paese non offre lavoro ai laureati, meno ancora ai dottorati come me che decidono di fare della ricerca scientifica e del progresso la loro missione di vita.

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AEREOPORTO DI BERLINO A TEGEL, UN SOBBORGO DI BERLINO

 

E quindi il 30 Dicembre 2017 sono atterrata a Tegel, non ho rischiato la vita su un barcone affollato, non ho viaggiato per giorni stipata come una sardina sotto ad un camion, non ho avuto paura di non toccare terra, o di cadere in mare e non riuscire a nuotare. Sono arrivata in cerca di una posizione da ricercatrice. Sul mio curriculum esperienze e pubblicazioni, ma purtroppo in un mondo dove si applica meritocrazia, ero consapevole che probabilmente non mi sarebbero bastate. Che magari avrebbero preferito un tedesco, un inglese o un francese con più requisiti di me. Ero in fibrillazione e fermento.

Quanti soldi avevo? Abbastanza da poter sopravvivere, ammetto anche di aver ricevuto alcuni dei risparmi dei miei genitori. Si sa, quando una figlia parte, non ci sono altre priorità in famiglia. Un paradosso, non credete? Non credo proprio, ma non posso negare la possibilità che ci possano essere stati giudizi superficiali sul mio conto.

LA FORTUNA, ma forse il nome più appropriato sarebbe «la meritocrazia», ha presto bussato alla porta della mia casa a Berlino. Non potevo crederci: mi avevano assunta. E dietro di me non c’era un salario irrisorio, non c’era un caporale, non c’erano delle condizioni disumane. No. C’era semplicemente il lavoro per il quale ho studiato e che desideravo. Ci sono state persone che mi hanno giudicata in base a quello che ero realmente, e non a quello che sarei potuta essere solo perché «italiana». Sono andati oltre lo stereotipo, hanno creduto in me e nelle mie potenzialità e non mi hanno etichettata come un’imbrogliona, pigra e mafiosa. Sono andati oltre la mia provenienza, la mia lingua, le mie tradizioni. Non hanno puntato il dito su di me davanti al primo atto di vandalismo che accadeva. Al contrario, ho trovato un ambiente sano, leggero e stimolante, dove andare al lavoro è così piacevole che sembra di essere sempre in vacanza.

ORA PENSATE CHE LA VITA sia in discesa? Tutta rose e fiori o crauti e krapfen qua e là? Credete che noi fuori sede siamo macchine programmate per abituarci o, come sento dire spesso, per integrarci con un semplice click alle tradizioni del posto? Mi dispiace deludervi, ma purtroppo no. Io odio pranzare a mensa, non digerisco le diverse salse, spesso non riconosco gli ingredienti e indovinare quello che mangio diventa un modo alternativo e divertente per trascorrere la pausa pranzo.

PARLO IL TEDESCO? Si certo… in un anno il mio tedesco è perfetto e argomento i migliori trattati neanche fossi di madrelingua! Illusi! Il mio tedesco fa schifo, al lavoro si parla inglese ma nella mia vita quotidiana, con una commessa, il fruttivendolo, il vicino di casa io non coniugo e declino bene i verbi e a volte faccio una confusione assurda con le parole. Ma la mia azienda mi paga la formazione per accrescere e migliorare la lingua. Non sono stata costretta a frequentare corsi di tedesco online, o a trovare associazioni che volontariamente insegnassero il tedesco a chi tedesco non è.

Non sono stata costretta ad imparare il dialetto del posto che mi spacciavano per tedesco col rischio che se da Berlino mi fossi spostata di 30 km non mi avrebbero capita. E ora, dopo un anno lo «parlicchio», ma se sono con italiani parlo la mia lingua, e senza dubbio se avessi un figlio parlerei l’italiano, e non perché vorrei mantenere le mie radici quanto per una maggiore facilità nella comprensione. Se cucino, cerco di fare un piatto di pasta al sugo, non perché non voglio integrarmi, ma perché è quello che mangio e mangerei.

TUTTO QUELLO CHE SCRIVO, per chi è abituato a viaggiare sembrerà scontato, ma credetemi la vita di chi emigra, di chi cambia completamente cultura, tempi, tradizioni e persino clima, non è semplice. Mi chiedo continuamente se ho fatto la scelta giusta, se vedere la mia famiglia ogni tanto può bastare, se perdermi la vecchiaia dei miei genitori non sia una scelta egoista. Me lo chiedo spesso ma purtroppo quando si parte si decide di lasciare un pezzo di vita, che pian piano inizia ad essere come quel paio di jeans troppo belli ma che ormai non va più. Molti di noi continuano a vivere con questa consapevolezza. Vi prego, ve lo dico da donna felice che non cambierebbe la propria situazione con nessuna al mondo.

SENTO SPESSO PARLARE di immigrazione, di invasione, di emergenza migranti, c’è chi impianta intere campagne elettorali e chi vince i sondaggi grazie a due hashtag razzisti usati nel modo giusto. Ma sento meno spesso parlare di emigrazione, raramente viene affrontato il problema, e quando lo si fa, si adotta un modo assolutamente miope e superficiale. «Cervelli in fuga», perché «giovani che scappano da una condizione precaria e corrotta, che uccide i sogni e ne nasconde i cadaveri» è troppo lungo. O forse è troppo scomodo.

È PIÙ FACILE GRIDARE all’invasione e all’immigrazione e inventare un problema che non c’è, che affrontare un problema reale che invece esiste, perché io da italiano mi preoccuperei di più di chi va via che di chi arriva qui. E anzi, ringrazio chi arriva perché lotta ogni giorno per la sopravvivenza, andando a ricoprire quei lavori umili e sottopagati che noi non vogliamo più fare, che non abbiamo il coraggio di accettare.

Pochi mesi fa il neo ministro del lavoro ha detto che «la storia insegna che non bisogna emigrare» e la sua frase oltre che essere infelice è stata anche squallida, vergognosa ed orrenda. Specie se pronunciata da un Ministro del Lavoro in carica. Giovane, per giunta. Perché è irrispettosa della mia scelta e dei miei sacrifici. Emigrare dovrebbe essere una scelta e non una necessità. Perché emigrare non è una «pacchia», mai. Andare via dal posto in cui si è nati e cresciuti – in cui affondano le proprie radici – è sempre un trauma, una scelta amara e difficile. Che tu sia bengalese, marocchino, pugliese, argentino o persino avellinese come te. Significa abbandonare affetti e sorrisi, solo per cercare una via dignitosa per sé stessi.

EMIGRARE ci rende tristemente tutti uguali: cambiano i contesti e cambiano le sicurezze del viaggio. Ma non cambia l’amarezza di lasciare qualcosa che ci piace ma ci sta stretta. Si emigra per fame, per disperazione, per guerra, per cataclismi climatici e – anche – per un lavoro migliore. Lo hanno fatto i nostri avi, lo fanno i nostri figli e lo fanno i nostri fratelli stranieri dell’Africa, dei Balcani. Anche grazie alle migrazioni siamo cresciuti e diventati quella parte del mondo più «ricca e sicura» che adesso si permette di guardare gli ultimi con disprezzo, che adesso si arroga del potere di poter chiudere i porti e girare le spalle piuttosto che tendere le mani.

Dietro ad un verbo mal coniugato, ad un cibo con un odore diverso, ad una strana pettinatura, c’è un essere umano che ha deciso di ricostruire la propria felicità e il proprio futuro. Dietro ogni essere umano c’è sempre una storia da raccontare. Se non volete ascoltarla, se non siete capaci di comprendere e aiutarlo, tacete. Almeno quello.

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