grazie a Nemo! ::: FRANCESCO ERBANI, BOLOGNA, INTERVISTA PIER LUIGI CERVELLATI (1936):: ” IL DIO DELLE CITTA’ NON PASSA PER AIRBNB ” — REPUBBLICA DEL 12 NOVEMBRE 2018, pag. 27

 

nota del blog:  Airbnb è un portale online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi, con persone che dispongono di uno spazio extra da affittare, generalmente privati.

 

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REPUBBLICA DEL 12-11-2018— pag. 27

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Pier Luigi Cervellati (Bologna1936) è un architetto e urbanista italiano. Alcuni suoi scritti:

  • La nuova cultura delle città, 1977
  • La città post-industriale, 1984
  • La città bella, 1991
  • L’arte di curare le città, 2000

 

Negli anni 2000 l’architetto Cervellati ha realizzato il progetto per la ricostruzione del Teatro Amintore Galli di Rimini, che è stato inaugurato il 28 ottobre 2018 con Cecilia Bartoli nella ” Cenerentola ” di Gioachino Rossini

teatro Galli di Rimini

 

t e r z a p a g i n a

L’intervista

Pier Luigi Cervellati

Il Dio delle città non passa da Airbnb

FRANCESCO ERBANI,

 Intervista di

 BOLOGNA

 

La migliore definizione di città Pier Luigi Cervellati l’ha trovata in una vecchia, sbrindellata edizione del Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo che l’urbanista custodisce in un’altra stanza del suo studio nel centro di Bologna, fra burattini di legno che sembra abbiano appena smesso di sgambettare. La citazione non è testuale, Cervellati va a memoria: «Luogo spesso cinto da mura la cui costruzione non è affidata all’anarchia del caso e in cui vivono persone che si sottopongono alle medesime leggi». E poi aggiunge: «Sa quale era uno dei requisiti che un abitato del Veneto doveva possedere perché l’impero asburgico potesse fregiarlo del titolo di città? Che ci fosse un teatro».

Pier Luigi Cervellati, classe 1936, progettista e a lungo professore universitario, appartiene alla generazione di urbanisti che, ancora esordienti, assistevano sgomenti alla tumultuosa, sgangherata espansione edilizia degli anni Cinquanta e Sessanta. E che dunque sul campo e leggendo su Il Mondo gli articoli di Antonio Cederna, maturarono convinzioni rigorose su come una città avrebbe dovuto invece crescere.

Quando poterono, le convinzioni le applicarono, cogliendo congiunture politiche di tipo riformista tanto favorevoli quanto poco durature. Ma in fondo restarono ai margini di quel che accadeva in Italia. Fra le convinzioni c’era, e c’è, quella che il centro storico di una città, vanto della tradizione italiana, non è solo un aggregato di chiese, di palazzi monumentali o di scenografiche piazze, ma un tessuto fatto di pregi architettonici e di edilizia minuta, di strade che convergono verso un punto di fuga, di allineamenti; e poi — e soprattutto — di persone, con le loro attività e le loro relazioni. E che come tale va salvaguardato.

Che cosa resta, se resta, di queste caratteristiche?

«Poco. Ma mi faccia dire che parlare di centro storico è fuorviante. Ed è tuttora frutto di pericolosi equivoci».

Fuorviante? Perché?

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Leonardo Benevolo, 1925-2017

 

 

«Non l’ho capito subito. E devo a Leonardo Benevolo il merito d’avermelo fatto capire quando lavoravamo al piano di Palermo.

Non c’è un centro, c’è una città storica, perché quel complesso di abitazioni, chiese, conventi, piazze e strade, e poi di persone e di attività, era una città a tutti gli effetti, fisici, sociali e comunitari.

Non il centro di qualcos’altro».

Lei dice “pericolosi equivoci”: a che cosa si riferisce?

«Un centro è troppo facile che slitti in shopping center. Ed è infatti quel che è accaduto a partire dagli anni Cinquanta del Novecento. Allora se ne sono cominciati ad andare i residenti.

Quand’ero assessore a Bologna, nei primi anni Settanta, feci una battaglia per evitare che decine e decine di banche si piazzassero dove c’erano negozi e botteghe.

Mi diedero del matto. Ora se ne sono andate anche le banche e sono arrivati supermercati e negozi d’abbigliamento. E soprattutto ristoranti. Ha visto qui intorno? È tutta una mangiatoia».

È l’economia legata al turismo che ha impresso questi cambiamenti?

«Da ultimo sì. Perché dovrei affittare un appartamento a chi vorrebbe risiedervi se mettendolo su Airbnb guadagno quattro volte tanto con un affitto turistico per una settimana o un week end? A Firenze, a Roma e anche altrove una parte crescente di abitazioni in centro non appartiene a residenti. Non parliamo di Venezia. Ora, non dovunque, ma lo spopolamento è spaventoso».

Quali sono le conseguenze?

«Senza residenti non c’è città. Né storica né d’altro tipo».

Lei ha sempre pensato che l’architettura moderna dovesse restare fuori dai centri o dalle città storiche. È ancora di questo parere?

«Sì. E in questo mi distinguo anche dal mio maestro Benevolo.

Ciò non toglie che ci sia tanto da fare nelle città storiche».

Che cosa?

«Il restauro urbano. Il restauro non del singolo edificio, ma di un complesso di edifici, risalendo al concetto per cui la città storica non è solo contenitore di monumenti, ma luogo di vita, di attività».

E se questa vita e queste attività non ci sono più?

«Dobbiamo riportarcele».

Lei negli anni Settanta avviò a Bologna un tentativo analogo.

«Utilizzammo le norme dell’edilizia popolare, ma invece di costruire in periferia con soldi pubblici cercammo di risanare le abitazioni perché ci potesse restare a vivere chi altrimenti sarebbe stato espulso da pure logiche di mercato».

E lei pensa che questa procedura si possa riproporre? Non le sembra di guardare troppo al passato?

«La tutela della residenza non è un principio del passato. Insieme all’associazione Bianchi Bandinelli abbiamo messo a punto una proposta di legge che salvaguarda la città storica nel suo insieme, vietando demolizioni e ricostruzioni, e prevede un intervento pubblico affinché i tanti spazi vuoti o abbandonati attraggano nuovi residenti di tutti i ceti sociali. E perché siano fermati i cambi di destinazione d’uso di un immobile da abitativo ad altro.

Così si salva non solo la città storica, ma la città tutta».

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