DIEGO VELASQUEZ ( 1599-1660)—MARCO CICALA, REPUBBLICA, VENERDI’ 06-11-2018 pp. 90-91 —COMMENTO ALL’OPERA DI MONTANARI, EINAUDI 2018::: ” IL MISTERO VELAZQUEZ “

REPUBBLICA.IT /VENERDI’/ 06-11-2018 / pp. 90-91

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Autoritratto di Velázquez, databile 1640-1650 (Archivi Scala)

 

Diego Velázquez, (Siviglia,  1599Madrid,  1660)

 

TRE MUSICI, 1617-1618

 

 

il venerdì Arte

Il mistero Velázquez

 

TRE UOMINI A TAVOLA, 1617-1620

 

In un saggio Tomaso Montanari ripercorre l’opera del geniale pittore spagnolo che portò a livelli sublimi l’arte del ritratto. Ma dell’uomo si sa ancora pochissimo. Un enigma

 

Las Meninas, completato nel 1656—AL PRADO

 

 

Dettaglio di Las Meninas (l’autoritratto di Velázquez )

 

 

 

 

Velazquez e il ritratto barocco

Tomaso Montanari

Editore: Einaudi
Collana: Saggi
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 13 novembre 2018
Pagine: 336 p.,ill. euro 42,00
Descrizione

Los borrachos It. Trionfo di Bacco (I bevitori) (1629)–MUSEO EL PRADO

 

All’inizio del Seicento, la rivoluzione di Caravaggio abbatte la separazione e la gerarchia dei generi, ma non è in Italia che essa produce i suoi massimi risultati: è con Velázquez e con Rembrant che la verità della pittura attinge vette insuperabili

 

Un ritratto del 1632 di Filippo IV di Spagna

 

Risultati immagini per VELAZQUEZ INFANTA MARIA TERESA

L’INFANTA MARIA TERESA (DI 14 ANNI)

 

 

Diego Velázquez, il pittore di corte di Filippo IV a Madrid, fu un artista dalla straordinaria sensibilità meta-artistica, in grado cioè di riflettere sulla propria attività, di “parlare” della propria arte attraverso le sue stesse opere, di violare le regole dall’interno, destrutturare sperimentalmente il segno pittorico con una libertà impensabile per la sua epoca, e che sarà compresa fino in fondo solo dopo la rivoluzione impressionista. Per Montanari è come se il nome di Velázquez potesse battezzare un modo di sentire il genere del ritratto, cioè un modo di sentire l’individualità degli esseri umani e di imprigionarla in grumi di colore: una linea nel ritratto europeo. Nella seconda parte del volume, venti quadri dell’artista (presentati in ordine cronologico) sono accostati ad altrettante opere d’arte di autori anche relativamente lontani da Velázquez stesso. Ne risultano venti dittici particolarmente suggestivi per la possibilità di evidenziare analogie, assonanze o concomitanze stilistiche.

 

Pablo de Valladolid, un comico alla corte di Filippo IV. (1635)

 

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RITRATTO DEL BUFFONE FRANCISCO LEZCANO (1635/1645)

CASA NATALE A SIVIGLIA

Pare che la casa sivigliana nella quale si ritiene sia nato Diego Velázquez sarà presto trasformata in museo. È un modesto edificio di due piani color senape con sopra una minuscola targa che più laconica si muore: Velázquez Casa Natal“. Stop. Anni fa mi ero soffermato a scrutarne la facciata quando notai una vecchia che in piedi accanto alla porta mi fissava fumando. Le sorrisi: “Una casa così piccola per un artista così grande, eh?”.
“Già” disse lei.
“Una targa così piccola per un artista tan grande” rilanciai.
“Già” disse la vecchia.

Poi scagliò a terra il mozzicone e sparì senza una parola, trascinandosi dietro il suo mastodontico fatalismo andaluso. Di quella rassegnazione così antica, e per molti versi così saggia, è perlomeno difficile trovare riflesso nella traiettoria del siviglianissimo ma ambizioso Velázquez.

Juan de Pareja (1650)—Juan de Pareja (Antequera, 1606Madrid, 1670) è stato un pittore spagnolo.

Figlio di schiavi d’origine indiana, Juan de Pareja nacque ad Antequera, in Andalusia, nel 1606. Morisco proveniente da una famiglia poverissima, accompagnò, come schiavo servitore, Diego Velázquez nel suo secondo viaggio in Italia. Nel 1650 Juan de Pareja fu ritratto a Roma dal pittore, nel celebre dipinto (ora esposto al Met di New York) che consentì a Velázquez d’essere ammesso all’Accademia nazionale di San Luca, e d’ottenere la commissione per il ritratto di Innocenzo X (ora nellaGalleria Doria Pamphilj a Roma).

Successivamente affrancato, Juan de Pareja restò nella bottega di Velázquez divenendo, assieme a Juan Bautista Martínez del Mazo, suo fedele collaboratore, autore di numerose tele. Opere di Juan de Pareja sono conservate al Prado (“La vocazione di San Matteo”), al Museo di Huesca (“Battesimo di Cristo”), all’Ermitage (“Provinciale dei Cappuccini”) e al Louvre(“Seppellimento di Cristo”). Morì a Madrid nel 1670.

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TESTA DI DONNA, 1625

 

 

 

RIPRENDIAMO L’ARTICOLO DI MARCO CICALA

Certo, qualche biografo gli ha attribuito un temperamento malinconico ai limiti dell’indolenza, ed è anche sulla base di quel presunto tratto caratteriale che fiorì fino a lussureggiare la leggenda del genio triste, recluso in una corte decadente e bigotta, paurosamente asfittica rispetto alla sua grandezza d’artista. Ma, per quanto suggestiva e dura a tirare le cuoia, si tratta pur sempre di un’immaginetta romantica del tutto campata in aria. Se non altro perché, a oltre tre secoli e mezzo dalla morte, 6 agosto 1660, sulla psicologia, sulla personalità privata di Diego Velázquez continuiamo a non sapere praticamente nulla. Buio fitto. Nei primi anni 60 l’insigne specialista spagnolo José Camón Aznar annotava con accenti di sconforto: “Questa esistenza riservata e distante non può essere oggetto di biografia. Non vi succede niente”. Un paio di decadi più tardi, l’altrettanto autorevole studioso statunitense Jonathan Brown, che pure si era avventurato a ricostruirla nel saggio Velázquez: pittore e cortigiano, ammoniva: “Una biografia di Velázquez è estremamente difficile da scrivere, mancano i documenti che permetterebbero di esaminare la sua vita intima. In assenza di tracce sui suoi sentimenti, riflessioni, reazioni, è arduo capire che tipo d’uomo fu l’artista”. L’opera non aiuta: enigmatici quant’altri mai, è come se i suoi dipinti stendessero sul mistero una seconda, se possibile più densa mano di mistero.

Immagine correlata

  DAMA CON VENTAGLIO, 1630-1650

Amazingly mysterious painter“, pittore incredibilmente misterioso, così Velázquez veniva definito da Francis Bacon, che nel Novecento lo venerò  fino all’ossessione. Lo ricorda Tomaso Montanari in apertura del suo Velázquez e il ritratto barocco, in uscita da Einaudi (pp. 314, euro 42). Non è una biografia, ma un viaggio non meno periglioso e avvincente in quella matassa di sperimentazioni, influssi, segreti, emozioni ed eversioni che è l’arte di DV – specie nella ritrattistica. Che secondo Montanari in Velázquez è genere sui generis, perché finisce con l’inglobare tutti gli altri: i soggetti storici, mitologici o religiosi, i paesaggi come i bodegónes, cioè le nature morte alla spagnola. Tutto si “ritrattizza”. Agli inizi dello stesso secolo il Chisciotte non aveva forse fatto qualcosa di analogo in letteratura, con la forma-romanzo che, al suo esordio, cannibalizza quelle tradizionali (poesia, teatro, cronaca, trattato…) inghiottendole nel proprio corpaccione?

El aguador de Sevilla, por Diego Velázquez.jpg



Sin dal primo capolavoro, L’acquaiolo di Siviglia (1621), Velázquez raggiunge quella che sarà la cifra dei grandi ritratti a venire: da un lato, con un uso scultoreo della luce, parifica ponendoli su un unico piano egualitario uomini, oggetti, animali, abiti… Dall’altro li “individualizza”, li scorpora da qualsiasi idealizzazione per restituirne l’unicità. Nelle sue tele non siamo mai in presenza di un re, un uovo fritto, un Papa, un nano, un ministro, un cane… Ma sempre di quell’uomo, di quell’uovo fritto, di quel cane ecc. “Se Velázquez si fosse occupato di filosofia” rifletteva lo storico Carl Justi, “avrebbe certo preso decisa posizione a favore del nominalismo. Egli era insensibile al generale e non avvertì la minima necessità di dargli forma. Gli uomini, oggetto supremo dell’arte plastica, gli apparivano come individui: per Velázquez l’individuumera la sostanza prima”.

Vieja friendo huevos (1618, It.: La vecchia friggitrice di uova). National Gallery Edimburgo.

In questa sua “tremenda capacità di reificare”, vale a dire di calcificare gli uomini come fossero cose, ma esaltandone la singolarità, Velázquez dà prova, dice Montanari, di aver assimilato il “nocciolo duro della rivoluzione caravaggesca”, “l’eversivo abbattimento della gerarchia contenutistica dei generi”, la definitiva emancipazione dai canoni della verosimiglianza, della mimesi: la pittura ormai non rifà “simile”, fa “vero”.

Portrait of Innocentius X by Diego Velázquez in Galleria Doria Pamphilj (Rome).jpg

Portrait of Innocentius X by Diego Velázquez in Galleria Doria Pamphilj (Rome)

DETTAGLIO DELLA VERSIONE CONSERVATA ALLA NATIONAL GALLERY DI WASHINGTON

Quando non addirittura “Troppo vero!” come si narra che ebbe ad esclamare papa Innocenzo X davanti al celeberrimo, “diabolico” ritratto che Diego gli fece nel 1650, durante il secondo dei soggiorni in Italia.


Caravaggio, Tiziano (e la sua ” sovrumana capacità di conciliare in un ritratto l’estrema sensualità dei valori visivi e un’acutezza introspettiva che rasenta la crudeltà”), più Bernini: è questa la “trinità” dei numi italiani di Velázquez (che invece detesta il “perfettismo” di Raffaello). Diego finirà per surclassarli tutti, immettendo nelle tele il mistero di un’anima, abbinando “una grande introspezione psicologica a una strepitosa capacità di catturare la vitalità”. Mucha alma en carne viva, commentò un contemporaneo del pittore, tanta anima in corpi vivi: “in queste quattro parole è contenuto interamente il miracolo della ritrattistica di Velázquez” scrive Montanari. Nelle sue pitture “si avverte sempre il passaggio dell’ombra della vita” notava Bacon.

Al di là delle periodizzazioni stilistiche, c’è una sola vera data decisiva nella vita di Diego Velázquez: è il 6 ottobre 1623, quando a 24 anni viene nominato “pittore del re”. Da quel momento, il suo compito principale “per non dire pressoché esclusivo, fu quello di ritrarre il sovrano e alcuni membri della corte”. Filippo IV, consorti, figli e famigli diverranno un po’ come le bottiglie e i barattoli di Morandi: oggetti di “nature morte”, ancorché vivissime, ripetute quasi come multipli. Visti in sequenza, tipo qualche anno fa in una mostra al Prado, quei dipinti producono una sorta di effetto allucinatorio: insieme ai ritratti di nani e buffoni, sono il momento più alto ed enigmatico dell’arte di Velázquez. Murati nel loro ruolo come in un destino di cemento, i regnanti diventano figure struggenti. Quel loro “spleen” non è una proiezione del pittore o di noi moderni. A proposito delle estenuanti sedute di posa cui lo costringeva il pittore, il re scriveva alla sua confidente spirituale Luisa Magdalena de Jesús: “Non ho voglia di sottopormi alla flemma di Velázquez, non solo perché la sua lentezza mi sfinisce, ma anche perché non voglio vedermi invecchiare”. È nei dipinti di Diego e non guardandosi allo specchio che el Rey Planeta, padrone di mezzo mondo conosciuto, si scopre declinante, caduco, dunque umano. Anche se ne restano non più una dozzina, i ritratti che Velázquez  fece del monarca furono circa sessanta. Obbligato alla ripetizione, Diego vive a corte come in una gabbia dorata, dice Montanari. Dorata, d’accordo, ma fino a che punto gabbia? Forse è arrivato il momento di sfatare il mito del genio in cattività. Sbarcato nella reggia madrilena da una provincia per niente provinciale – Siviglia è all’epoca la più popolosa e ricca città di Spagna – Diego, sponsorizzato inizialmente dal potente “Primo ministro” suo conterraneo De Olivares, scalerà le più alte posizioni funzionariali fino a ottenere la nobiltà della Croce di Santiago – quella a forma di pugnale che ostenta in Las Meninas. Insomma una vita di agi, successi, tutt’altro che malinconica e sedentaria, vedi i due lunghi viaggi in Italia, nonché i frequenti spostamenti in patria per il disbrigo delle regie faccende. Compresa l’organizzazione nei Paesi baschi dell’incontro nuziale tra l’infanta Maria Teresa e il futuro Re Sole Luigi XIV, una faticaccia che gli avrebbe procurato l’infarto fatale, a 61 anni.

Quegli incarichi danneggiarono la ricerca di Velázquez? Di sicuro lo assorbirono parecchio. Ma non è detto che l’arrembante Diego se ne lamentasse più di tanto. È immaginabile che soffrisse del fatto che, a differenza dell’Italia, la pittura non avesse ancora conquistato in Spagna la dignità di arte liberale. Però le lunghe sessioni di posa dimostrano come il tempo non gli mancasse. E se molti dipinti sembrano incompiuti, rimasti allo stato di bozzettoni non è per la fretta di passare ad altre occupazioni, quanto per deliberata audacia stilistica.

RokebyVenus.jpg

Diego Velázquez – LA SCANDALOSA VENERE, 1648-1650  — VENERE ROKEBY —Key facts. The National Gallery, London. Retrieved on 25 June 2013.

Con voluta economia di mezzi – esigua varietà di tinte, poche pennellate, scarsa massa di colore – Velázquez opera nel suo studio dentro l’Alcázar madrileno con il massimo di libertà – condizionata – alla quale un artista del suo tempo possa aspirare. Scialbo, mezzo baciapile e mezzo debosciato: del suo “dominus” Filippo IV si è detto tutto il male possibile, ma anche quella leggenda nera, o grigia, andrebbe ridimensionata. L’ultimo degli Asburgo di Spagna non sarà stato un campione di carisma, però permise a Velázquez di diventare Velázquez, lasciando libero corso alla sua pittura anti-aulica, psicologica, non anti-religiosa, sarebbe stato troppo, ma più filosofica che teologica o men che meno mistica. Quasi scientifica. Dopotutto l’epoca di Velázquez è quella dell’avvento delle scienze moderne e il suo atélier ha qualcosa del laboratorio sperimentale. Per indovinare la personalità di Diego, tipo schivo, i documenti più utili sono alla fine gli inventari di quanto aveva in casa. Appesi ai muri c’erano un nudo di donna – magari simile alla sua scandalosa Venere che fino a Goya sarebbe rimasta l’unica fanciulla svestita nella pittura spagnola – ma anche immagini religiose, forse a uso della devota moglie Juana. La religione è invece sostanzialmente assente tra i 156 libri ritrovati nella biblioteca di Velázquez. Nella lista dei volumi, una quarantina in italiano, dominano i testi di medicina, anatomia, architettura, matematica e naturalmente arte. Quella che dopo di lui non sarebbe stata più la stessa. Come, tra gli altri, avvertì Édouard Manet, il quale lo avrebbe definito “pittore dei pittori”. Mica esagerava.

LA CACCIA AL CINGHIALE SELVATICO DI FILIPPO IV, LA TELA REAL

1632-37, OLIO SU TELA, 182 x 302 cm

DON CRISTOBAL  CASTANEDA Y PERNIA ( IL BUFFONE BARBAROSSA)–1637-1640

DONNA CHE CUCE, 1640

DAMA CON VENTAGLIO, 1640 circa

RITRATTO DI BAMBINA, 1642

AUTORITRATTO, 1645

VEDUTA DI SARAGOZZA, 1647

RITRATTO DELL’INFANTA MARIA TERESA, 1648

RITRATTO DELL’INFANTA DONA MARGHERITA D’AUSTRIA, 1660

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