IAN BURUMA (1951) ::: IL REFERENDUM SULLA BREXIT::: UNA SECONDA OPPORTUNITA’ —REPUBBLICA 06-12-2018 pag. 33

 

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Ian Buruma (L’Aia,  1951) è un saggista e accademico olandese naturalizzato britannico noto esperto internazionale delle culture orientali, in particolare di quella giapponese, nonché di Letteratura cinese e di Cinema giapponese

 

 

Il referendum sulla Brexit

UNA SECONDA OPPORTUNITÀ

Ian Buruma

 

Il nove maggio del 1950, quando i Paesi europei iniziavano appena a riemergere dalle rovine della guerra, lo statista francese Robert Schuman annunciò il piano per creare la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Si trattava del primo passo verso un’unificazione dell’Europa. All’indomani dell’annuncio, Schuman si recò a Londra per invitare i britannici a prendere parte al dibattito. La loro reazione fu un misto di orrore e di sdegno. Si sospettava un complotto francese che mirasse a indurre i pragmatici britannici a unirsi a un utopico progetto straniero. I socialisti, che in gran Bretagna all’epoca erano al potere, non potevano immaginare di dover condividere la sovranità sulle loro industrie essenziali con Paesi che socialisti non erano. Mentre i conservatori – così come la sinistra – non riuscirono a capire come una potenza globale con un impero tanto vasto potesse far parte di un circolo europeo così ristretto. Che “i continentali” desiderassero unire le loro forze era comprensibile, ma la Gran Bretagna avrebbe proseguito a scegliere da sola la propria rotta, insieme alle altre popolazioni di lingua inglese del Commonwealth e degli Stati Uniti.

È facile, con il senno di poi, prendersi gioco dei britannici per aver perso il treno dell’Europa con un’arroganza tanto baldanzosa. Ma è anche comprensibile: dopo tutto i britannici, con la loro democrazia orgogliosa, avevano tenuto testa da soli alla Germania di Hitler e avevano aiutato a liberare i Paesi europei che si erano piegati alla minaccia nazista. Non li si può certo biasimare se si sentivano un tantino superiori. Ciò che invece deprime circa il disastro della Brexit che sta sconvolgendo la politica britannica è constatare come, dal 1950 ad oggi, le argomentazioni di base contro “l’Europa” non siano affatto cambiate. Gli ideologi del Partito laburista di Jeremy Corbyn vedono ancora nell’Unione europea un complotto capitalistico che punta a minare la purezza dei loro ideali socialisti. Mentre i brexiteers della destra continuano a sognare la Gran Bretagna come una grande potenza la cui portata globale non deve essere intralciata dall’appartenenza alle istituzioni europee. Esiste poi la corrente nazionalista – più inglese che britannica – che rimane romanticamente attaccata alla nozione del “rapporto speciale” con gli Usa.

Purtroppo per i britannici, dal 1950 a oggi il mondo è drasticamente cambiato: l’impero britannico è tramontato, il Commonwealth è poco più che un nostalgico retaggio del passato, e il rapporto con gli Usa sarà forse speciale per gli inglesi ma lo è assai meno per gli americani. Tuttavia c’è qualcosa d’altro – forse addirittura più importante – che è cambiato. Quando nel 1950 il governo britannico rifiutò l’opportunità di contribuire a forgiare il futuro dell’Europa, alcuni conservatori criticarono il partito di governo per aver agito un po’ troppo frettolosamente. Un’accusa che i Tories, trovandosi all’opposizione, non potevano non ventilare. Anche se, a quanto pare, non ne erano del tutto convinti se, come scrisse all’epoca il New York Times, la posizione del governo « riflette in larga misura il sentimento britannico nei confronti dell’Europa, a prescindere dalle posizioni dei partiti».

Oggi la Gran Bretagna ( per non parlare dell’intera Inghilterra) è un Paese molto più europeo rispetto ad allora. La Londra del 1950 era una città ancora completamente britannica, dove ” gli stranieri” rappresentavano una minoranza ben distinta, mentre negli ultimi decenni del XX secolo è diventata la capitale ufficiosa d’Europa. Non stupisce, allora, che la maggioranza dei londinesi abbia votato per restare nell’Ue. Da chi è formato, dunque, quel 51% di persone che hanno votato per uscirne? Il motivo principale che avrebbe indotto le persone a voler uscire dall’Europa sembra essere stata la paura dell’immigrazione. Che nasce in alcuni casi dall’effettiva preoccupazione che i muratori provenienti dall’Europa dell’Est stessero impedendo a quelli britannici di svolgere il proprio lavoro per una paga decente. Molto spesso, però, coloro che più temono di essere “sommersi” dagli stranieri vivono in zone dove di immigrati se ne vedono pochissimi. Alcuni politici favorevoli alla Brexit hanno alimentato la paura dell’immigrazione più sfrontatamente di altri. Durante la campagna referendaria, l’immagine più tristemente nota usata a favore della Brexit mostrava una lunga fila di giovani uomini dall’aspetto vagamente mediorientale, ed era accompagnata dal testo: «Dobbiamo sganciarci dall’Ue e riprendere il controllo della situazione » . I giovani uomini della foto erano in realtà ben lontani dalle frontiere britanniche, dal momento che l’immagine era stata scattata in Croazia. I brexiteers più rispettabili parlano più di sovranità che di immigrazione. Forse in loro l’ansia di perdere il controllo è autentica. Personaggi come Boris Johnson, con le sue pretese churchilliane, o Jacob Rees- Mogg, che ricorda un personaggio di secondo piano dei romanzi di P.G. Wodehouse, rappresentano anacronismi. In passato avrebbero potuto governare un impero, ma oggi non sono altro che politici di uno Stato europeo di media importanza. Per persone come Rees- Mogg o Johnson la Brexit rappresenta soprattutto il tentativo illusorio di raggiungere il potere, in nome della gente comune e, presumibilmente, come segno di rivolta contro le élite di cui essi stessi sono esponenti di primo piano. La loro nostalgia nei confronti di forme di governo più grandiose ha già causato danni sufficienti al Paese che dichiarano di amare. Motivo in più per cui – adesso che la potenziale catastrofe della Brexit appare chiaramente visibile – quella gente comune dovrebbe avere una seconda opportunità di votare per scongiurarla.

Traduzione di Marzia Porta

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