GUIDO CRAINZ (notizie in fondo), ” La battaglia per la democrazia “::: L’ESEMPIO DI JAN PALACH —REPUBBLICA 08-01-2019 pag. 34—Vi ricordo di Guido Crainz, ” Il sessantotto sequestrato “, Donzelli 2018, sulla lotta per la democrazia nell’Europa dell’Est

 

REPUBBLICA — 08-01-2019 pag. 34

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La battaglia per la democrazia

L’ESEMPIO DI PALACH

Guido Crainz (notizie al fondo)

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 19 gennaio 1969

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Jan Zajíc (Vítkov, 3 luglio 1950 – Praga, 25 febbraio 1969)

 

Aveva poco più di vent’anni Jan Palach, lo studente che nel gennaio di cinquant’anni fa compì il gesto più drammatico dandosi fuoco in piazza San Venceslao, in una Praga resa sempre più cupa da mesi di invasione e dallo spegnersi della speranza. Faceva parte di una generazione che aveva creduto nel « socialismo dal volto umano» di Alexander Dubcek, e vedeva quella speranza inabissarsi: il mio gesto è volto « a risvegliare la gente di questo Paese», lasciò scritto.

«Jan Palach ha messo davanti a noi uno specchio impietoso » , scrisse l’Unione degli studenti, mentre il settimanale degli scrittori pubblicava una poesia potente: «E qui scalpitano i tori di Picasso / e qui gli elefanti di Dalì marciano su zampette di ragno / e qui rullano i tamburi di Schönberg / e qui i Karamazov portano il corpo di Amleto». Morì dopo tre giorni di sofferenze e i suoi funerali videro una folla commossa ed enorme: « Corre il dolore bruciando ogni strada / e lancia grida ogni muro di Praga – per citare una splendida canzone di Francesco Guccini – (…) dimmi chi era che il corpo portava / la città intera che lo accompagnava…».

Altri gesti segnarono drammaticamente la fine della speranza: « Il suicidio di Palach, di Zaijc e dei molti altri che non dobbiamo dimenticare – scriveva Angelo Maria Ripellino sull’Espresso – è un grido lacerante che soverchia il fragore dei carri armati, un grido di orrore contro una realtà inaccettabile imposta con la violenza».

Di lì a poco la ” normalizzazione” sovietica si imporrà definitivamente e il regime cercò perfino di svilire e infangare il gesto di Jan. Inutilmente, perché anche nel suo nome continuò la battaglia per la conquista della democrazia, svanita ormai l’illusione che il “comunismo reale” fosse riformabile. Continuò nella memoria, nonostante il regime avesse sin rimosso la sua tomba, e continuò poi con Charta 77, fondata da Václav Havel e da altri. Havel sarà arrestato per l’ultima volta il 16 gennaio del 1989, aveva deposto fiori in piazza San Venceslao a ricordo del gesto di Palach. Nel dicembre di quello stesso 1989 sarà presidente della Repubblica federale cecoslovacca mentre ministro della giustizia sarà una donna, Dagmar Burešová: da avvocato aveva rappresentato la famiglia di Palach contro le calunnie del regime.

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DAGMAR  BURESOVA’, OLTRE A DIFENDERE JAN PALACH E LA SUA FAMIGLIA, FU LA PRIMA MINISTRA DELLA GIUSTIZIA DOPO LA ” RIVOLUZIONE DI VELLUTO” ( 17 nov 1989 – 29 dic 1989)

 

Una altissima battaglia per la democrazia, dunque: cosa c’entra con tutto questo l’estrema destra italiana che – oggi come allora – tenta di impadronirsi vergognosamente del nome di Palach? Una destra favorita allora dalla insensibilità di larga parte della sinistra per le speranze della “Primavera di Praga” e oggi dalla crescente dissoluzione della memoria e della storia. Favorita, anche, da una più ampia ” destra governante” che ostenta distaccata noncuranza di fronte alle violazioni della decenza e dell’umanità.

Una destra vicina alle forze che in Cecoslovacchia, in Polonia, in Ungheria e altrove hanno sconfitto le speranze di rinnovamento democratico e che oggi vorrebbero cancellare anche i suoi eroi. Da qui occorrerebbe partire, perché forse non basta indignarsi per la speculazione vergognosa delle nostre destre o ricordare Palach come merita (questo giornale non ha mai mancato di farlo). Forse nell’Europa del 2019 dobbiamo anche chiederci se – prima e dopo la Caduta del Muro – siamo stati realmente vicini a chi si batteva in quei paesi per una vera «democrazia dal volto umano». Davvero non potevamo fare di più – l’Europa non poteva fare di più – per contrastare l’avanzata delle “democrazie illiberali” oggi trionfanti? Parla ancora a noi, Jan Palach, e non solo al “noi” che eravamo cinquant’anni fa.

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Guido Crainz (Udine,  1947) è uno storico italiano, docente di storia contemporanea nella Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo. Nel 2004 Crainz ha fondato e diretto, presso l’Università di Teramo, l’Archivio audiovisivo della memoria abruzzese. Collabora con repubblica e con RAI Storia Italia in 4D

 

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SCHEDA LIBRO

«Nella storia d’Europa dei decenni successivi, il ’68 non ci appare tanto rilevante per quel che avvenne a Parigi oppure a Torino, a Berlino, a Milano o a Trento, quanto per i traumi e i rivolgimenti che segnarono quell’area del l’Europa “sequestrata” dall’impero sovietico».

Guido Crainz

A distanza di cinquant’anni dal simultaneo manifestarsi dei movimenti di contestazione del ’68 in tante parti del Vecchio continente, iniziamo forse a comprendere che per la sua storia successiva sono rilevanti soprattutto i rivolgimenti, i traumi e i processi che segnarono la Cecoslovacchia, la Polonia e altre aree dell’Europa «sequestrata» dall’impero sovietico, per dirla con Milan Kundera. Per molti versi quei rivolgimenti rappresentarono uno spartiacque: la conferma definitiva che il «socialismo reale» non era riformabile. I processi che attraversarono allora quest’area furono solo apparentemente stroncati a Praga dai carri armati del Patto di Varsavia e in Polonia da una brutale offensiva di regime che assunse violenti toni antisemiti, provocando l’esodo di una ricca comunità intellettuale e di una parte significativa degli ebrei rimasti nel paese dopo la Shoah. In realtà, pur nel modificarsi di prospettive e di visioni del mondo, si dipanano da allora alcuni esili e al tempo stesso straordinari fili che portano al 1989, passando per Charta 77 in Cecoslovacchia o per il Kor e Solidarność in Polonia. Eppure, in quel fatidico ’68, i giovani, gli intellettuali e i rinnovatori di quei paesi, i sostenitori di un «socialismo dal volto umano», non trovarono nei movimenti studenteschi dell’Occidente quel solidale sostegno che sarebbe stato necessario. Né lo ebbero dai partiti comunisti europei. Perché? E perché in molte ricostruzioni storiche complessive ha prevalso spesso una sostanziale rimozione di questi aspetti? A queste domande e a questi nodi rispondono i contributi del libro: il saggio di apertura di Guido Crainz; quelli di Pavel Kolář, Wlodek Goldkorn, Nicole Janigro, Anna Bravo; e i documenti di studenti e intellettuali di allora, con le successive testimonianze di personalità come Jiří Pelikán, Adam Michnik, Zygmunt Bauman

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