LA RABBIA (1963) , DOCUMENTARIO DI PIER PAOLO PASOLINI — durata: 50 minuti circa — TESTI DI ANGELA MOLTENI, DI CARLO DI CARLO, AIUTO REGISTA DI PASOLINI, DA ” LE BELLE BANDIERE ” DI PIER PAOLO PASOLINI –PUBBLICATI DA BRUNO ESPOSITO –FACEBOOK ERETICO & CORSARO—

 

 

 

 

VIDEOTECA PASOLINI GENNAIO 2017

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martedì 24 gennaio 2017

Pasolini, LA RABBIA 1963 – di Angela Molteni

“ERETICO & CORSARO”

LA RABBIA 1963 –  di Angela Molteni

(prima parte a cura di Pier Paolo Pasolini; seconda parte a cura di Giovannino Guareschi.)

Scritto e diretto da P.P.P.

Aiuto regia Carlo di Carlo; commento in versi Pier Paolo Pasolini, letto da Giorgio Bassani (voce in poesia) e Renato Guttuso (voce in prosa); musica a cura dell’autore; montaggio Pier Paolo Pasolini, Nino Baragli, Mario Serandrei;

Produzione Opus Film; produttore Gastone Ferranti; formato 35 mm b/n; sviluppo e stampa SPES; distribuzione Warner Bros.; durata 53 minuti.

Realizzazione gennaio-febbraio 1963

Di Angela Molteni:

Nei primi mesi del 1963 Pasolini, accettando una proposta del produttore Gastone Ferranti, iniziò a selezionare brani da vecchi cinegiornali e documentari. Parte di questi materiali gli servirono per realizzare una sorta di “saggio-documentario” sul tema: “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”.

Pasolini, nel film La rabbia, precisa subito, sulle note dell’Adagio di Albinoni e tramite la “voce narrante” di Renato Guttuso, che risponde a tali domande “senza seguire alcun filo cronologico e forse neppure logico”, esponendo soltanto le sue ragioni politiche e il suo sentimento poetico. Gli avvenimenti cui fa cenno nel film sono in parte sottolineati anche da suoi testi poetici letti da Giorgio Bassani.

Vi è una particolare attenzione ai problemi degli “uomini di colore”, cioè a quei popoli in prevalenza del Terzo Mondo assoggettati al colonialismo, che proprio in quegli anni – anche attraverso rivolte inizialmente contrastate con violenza da quegli stessi poteri coloniali – intendevano conquistare la propria libertà (“gente di colore… / è nella speranza che la gente non ha colore… / è nella vittoria che la gente non ha colore…).

Scorrono così le immagini della crisi d’Algeria e della rivolta di quel popolo contro il tronfio dominio francese (“Una crisi che ricrea la morte vuole vittime la cui vittoria è certa”, commenta Pasolini); delle ribellioni delle genti del Congo, dei cubani che riscattano la loro terra da una sorta di colonialismo statunitense e la liberano dalla dittatura di Batista. In quest’ultimo “affresco”, sottolineato da canzoni di lotta cubane, e mentre scorrono immagini di guerra, di morte, di disperazione, il Poeta suggerisce: “… forse solo una canzone poté dire che cos’era il combattere a Cuba… / … forse solo una canzone poté dire che cos’era il morire a Cuba” e ribadisce: “… gente di colore / è nella vittoria che la gente non ha colore”.

Ma è messa in risalto, già all’inizio del film, anche la rivolta d’Ungheria del 1956 contro la repressione dei carri armati sovietici, simboli di quella nomenklatura grigia e ottusa che finirà per portare allo sfacelo tutte le grandi speranze della Rivoluzione.

Il film prosegue mettendo in luce altre storture dei Paesi capitalistici: la guerra tra Israele ed Egitto; l’India e la rilevanza della figura di Gandhi contro un potere che letteralmente affama il popolo; il franchismo, cioè il fascismo spagnolo e le sue squallide autocelebrazioni. Non manca l’accenno critico al simbolo stesso del capitalismo di casa nostra: la Fiat (“comprare un operaio non costa nulla…”).

Dall’incoronazione di Elisabetta II in Inghilterra (“una cerimonia vecchia di 2000 anni”), Pasolini trae spunto per denunciare l’imborghesimento già ampiamente in atto nelle classi sfruttate di quel Paese (quale sarà il futuro di una classe operaia che “oggi sciopera per l’ora del tè”?); mentre dalla Convention del Partito repubblicano per le primarie (da cui uscirà la candidatura a Presidente di Eisenhower) ricava alcune considerazioni sul sistema americano (“quando sarà inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo, allora la nostra Storia sarà finita…”). Seguono spezzoni di altri cinegiornali: una esplosione atomica; Pasolini la chiama “questo irriconoscibile sole” e aggiunge che poi, dopo, “sarà preistoria”.

“Il sentimento della libertà ha le sue origini in visi simili”, dice il Poeta, e mostra volti sorridenti di gente comune in Unione Sovietica (“mio padre ha combattuto contro lo zar e il capitalismo […]” Chi ieri era servo della gleba, oggi è “il primo figlio istruito di una generazione che non ha avuto nulla, se non calli nelle mani e pallottole nel petto”). Più avanti, Pasolini aggiungerà: “La Rivoluzione vuole una sola guerra: quella dentro gli spiriti, che abbandonano al passato le vecchie, sanguinanti strade della Terra”.

Pasolini definisce il pianto dei bambini del Terzo Mondo, che patiscono la fame “un singhizzo che squassa il mondo”. E la guerra, altro motivo di sofferenze soprattutto per quei bambini, “un terrore che non vuole finire nell’animo del mondo”.

Le pessime condizioni degli sfruttati (la classe che dà infinito valore alle sue mille lire”) sono denunciate da Pasolini con brani tratti da documentari sulla tragedia di lavoratori morti in miniera.

Un raggio di speranza pare accendersi nel seguire l’impresa spaziale di Juri Gagarin (che “sale nel cielo con un semplice cuore” e “ridiscende in terra fra i semplici cuori” dei suoi compagni) che afferma: “Da lassù tutti mi erano fratelli”. Ma tale speranza è di breve durata, poiché il film si conclude con una serie impressionante di esplosioni nucleari che trasmettono un drammatico senso di inquietudine e di terrore.

Il film è in due parti: sulla seconda, affidata dal produttore a Guareschi, mi pare più dignitoso  non fare alcun commento, non entrare cioè nel merito del modo in cui Guareschi “svolge” il “tema” (che è lo stesso per i due episodi). Si commenta da sé, infatti, il suo becero para-fascismo, il suo qualunquismo infarcito di banalità, anche peggiore, se possibile, di quello esibito da Guareschi nella serie di film realizzati sulle storia di “Peppone e Don Camillo”.

Angela Molteni maggio 1997

TESTO  di  Carlo di Carlo

Il testo che segue e’ scritto da Carlo di Carlo, aiuto regista nel film La rabbia (lo e’ stato precedentemente di Mamma Roma e de La ricotta) ed integralmente riportato dal testo Teoria e tecnica del film di Pasolini, a cura di Antonio Bertini ed edito dalla Bulzoni editore. Se ne consiglia la lettura per avere un quadro completo della tecnica filmica di Pasolini.

Tra le carte del mio lavoro con Pasolini (1962-1963), torvo un appunto relativo a La rabbia, l’ultimo film al quale ho collaborato con lui. Probabilmente una sua dichiarazione.

Dice Pier Paolo: “Il film La rabbia e’ un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi dieci anni. Tali documenti sono presi da cinegiornali e da cortometraggi e montati in modo da seguire una linea, cronologico-ideale, il cui significato e’ un atto di indignazione contro l’irrealta’ del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilita’ storica. Per documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede profondamente la realta’. La realta’, ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione puo’ dare”. La rabbia; un film di montaggio, un film-saggio politico, un film poetico. Meglio, un testo in poesia espresso per immagini, con la rabbia in corpo. La rabbia di Pasolini. La sua rabbia. Contro il mondo borghese, contro la barbarie, contro l’intolleranza, contro i pregiudizi, la banalita’, il perbenismo. Contro il Potere che, soprattutto allora inveiva contro di lui (che non era ancora il Pasolini di poi) in modo persecutorio. Contro. Contro. Contro.

Perche’ La rabbia e’ stato proprio un film-contro, e per molti versi anticipatore.

Gia’ all’inizio nacque contro il partener, Giovannino Guareschi, autore della seconda parte. Quel Guareschi, simbolo dell’umorismo da sacrestia di quegli anni, il quale incarnava meglio e piu’ di ogni altro lo spirito del ’48, della piccola borghesia, dei Comitati civici, dell’Italia degasperiana, quasi una liala del qualunquismo.

Si’, perche’ l’idea del produttore fu quella di sfruttare l’idea del “visto da destra…. e vista da sinistra”, le due vignette che settimanlmente distinguevano la prima pagina del Candido mettendo in berlina i comunisti (“trinacituri”) secondo le norme piu’ bieche dell’anticomunismo della guerra fredda. Attraverso l’incontro/scontro Pasolini-Guareschi, il produttore era certo di compiere un’operazione commerciale di sicuro successo. Scandalo. Prestarsi a un’operazione del genere! Pasolini appariva gia’ e sempre scandaloso, e a quei tempi poi! Ora addirittura si prostituiva a favore di un’operazione commerciale che lo vedeva affiancato a un tale figuro. (E pensare che la nostra moviola era perfino distante dieci metri da quella di Guareschi, in fondo a un corridoio di un appartamente di Viale Liegi. Di lui si intravedevano, ogni tanto, i baffi, perche’ i due non si salutavano neppure). Il film fu un totale insuccesso commerciale. A Roma due giorni di programmazione, credo due a Milano, a Firenze uno. Poi basta. E cosi’, sulle ceneri di questo insuccesso, rimase splendidamente sola, la parte di Pier Paolo, questo eccezionale documento (capito soltanto negli anni a venire) che implicitamente dimostrava ancora una volta l’autonomia della creazione, della poesia, della cultura. Questo film fu un lavoro eccitante, complesso, superiore a quello per Mamma Roma e per La ricotta. Perche’ non si tratto’ soltanto di scegliere insieme tra in novantamila metri di Mondo libero (il cinegiornale degli anni della guerra fredda confezionato dal nostro produttore) e di tanti altri documentari d’ogni tipo, ma di un paziente e vivace lavoro, sia dal punto di vista tecnico che da quello creativo: ricerca e scelta dei piu’ svariati materiali fotografici e di documentazione, riprese dal vero e in truka di varie sequenze, prove e riprove di montaggi differenziati, costruzioni di sequenze di collegamento tra un tema e l’altro, ricerca dell’unitarieta’ stilistica, infine tante e tante discussioni vive e accese su tutto perche’ in quei mesi, d’un colpo, tutto cio’ che era accaduto e accadeva d’importante nel mondo, era davanti ai nostri occhi, li’ sul piccolo schermo della moviola.

Quindi: amarezze indifferenza iprocrisia delusioni tragedie e anche illusioni speranze. La rivoluzione. L’utopia. Bisognava stringere, scegliere, contenere. Gli argomenti si assotigliarono: la morte di De Gasperi, la guerra in Corea, le alluvioni, la televisione, l’Ungheria, l’anticomunismo, Egitto/Israele, l’assassinio di Lumumba, Nasser, Sukarno, la liberazione di Tunisia, Tanganika, Togo, Cuba, il canale di Suez e poi Sophia Loren, l’incoronazione della regina d’Inghilterra, Eisenhower, la morte di Pio XII (e’ morto un Papa di famiglia eletta – grandi agrari del Lazio…”), l’elezione di Giovanni XXIII (“Uguale al padre furbo e al nonno bevitore di vinelli pregiati, figura umana sconosciuta ai sottoproletari della terra, ma anch’esso coltivatore di terra – il nuovo Papa nel suo dolce, misterioso sorriso di tartaruga, pare avere capito di dover essere il pastore dei Miserabili; pescator di pescecani, pastori di jene, cacciatori di avvoltoi, dei seminatori di ortiche, perche’ e’ loro il mondo antico, e non son essi che lo trascineranno avanti nei secoli, con la storia della nostra grandezza”.), il realismo socialista e l’arte astratta, la Francia e l’Algeria, stermini, impiccagioni, esecuzioni, torture, De Gaulle. Poi l’inno a Marylin (“Del pauroso mondo antico e del pauroso mondo futuro / era rimasta solo la bellezza, e tu / te la sei portata dietro come un sorriso obbediente”). Infine, l’atomica, i voli nel cosmo, la grande era. Pier Paolo concludeva: “Perche’ compagni e nemici, / uomini politici e poeti, / la rivoluzione vuole una sola guerra, / quella dentro gli spiriti / che abbandonano al passato / le vecchie, sanguinanti strade della Terra”.

Un ultima cosa: Pier Paolo detestava i doppiatori e quindi leggere questo testo bellissimo divento’ un problema non secondario. Ebbe l’idea di farlo leggere da due voci altre, agli amici Giorgio Bassani e Renato Guttuso. Testo a due voci: la voce in poesia e la voce in prosa, la voce della pacatezza (Bassani), la voce della rabbia, dell’invettiva (Guttuso). Bassani e Guttuso si sentirono protagonisti-attori, impegnati nel testo. Non fu facile, ma anche questo risultato fu singolare.

 

Carlo Di Carlo

 

 TESTO  tratto da “Le belle bandiere”

Il testo che segue, scritto da Pier Paolo Pasolini, e’ apparso sul n. 38 del 20 settembre 1962 sulla rivista Vie nuove, con cui Pasolini collaborava, ed e’ stato raccolto, insieme agli altri interventi sulla rivista, nel volume Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, edito da Editori Riuniti.

E’ un film (La rabbia, ndr) tratto da materiale di repertorio (novantamila metri di pellicola: il materiale cioe’ di circa sei anni di vita di un settimanale cinematografico, ora estinto). Un’opera gioranalistica, dunque, piu’ che creativa. Un saggio piu’ che un racconto.

Per dargliene un’idea piu’ precisa, le accludo il “trattamento” del lavoro: le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio. Tenga quindi conto della destinazione di questo scritto: una destinazione che implica da una parte una certa ipocrita prudenza ideologica (il film sara’ molto piu’ decisamente marxista, nell’impostazione, di quanto non sembri da questo riassunto), e dall’altra parte una certa goffagine estetica (il film sara’ molto piu’ raffinato, nel montaggio e nella scelta delle immagini, di quanto non si deduca da questa affrettate righe).

  La rabbia

 Cos’e’ successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalita’.

Gia’, la normalita’. Nello stato di normalita’ non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come “normale”, privo della eccitazione e dell’emozione degli anni di emergenza. L’uomo tende ad addormentarsi nella propria normalita’, si dimentica di riflettersi, perde l’abitudine di giudicarsi, non sa piu’ chiedersi chi e’.

E’ allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica.

Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l’Italia, la morte di De Gasperi.

La rabbia comincia li’, con quei grossi, grigi funerali.

Lo statista antifascista e ricostruttore e’ “scomparso”: l’Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalita’ dei tempi di pace, di vera, immemore pace.

Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.

Egli osserva con distacco – il distacco dello scontento, della rabbia – gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti….E… il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volonta’ dell’Italia a partecipare all’Europa Unita.

E’ cosi’ che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aereoporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell’aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.

Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l’anticomunismo. E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa; si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.

Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.

Finche’ si arriva a Ginevra, all’incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che e’ consacrazione della potenza e conformismo, non puo’ che crescere ancora.

Cos’e’ che rende scontento il poeta?

Un’infinita’ di problemi che esistono e nessuno e’ capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, e’ irrealizzabile.

Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un’altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.

O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.

O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell’uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. E’ l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. E’ l’odio per tutto cio’ che e’ diverso, per tutto cio’ che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese. Guai a chi e’ diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.

Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.

E’ cosi’ che riscoppia la crisi, l’eterna crisi latente.

I fatti d’Ungheria, Suez.

E l’Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.

Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve.

Morti sventrati sotto il solleone del deserto.

La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre piu’ integrale e profonda, l’illusione della pace e della normalita’.

Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l’Europa moderna:

il neocapitalismo;

il MEC, gli Stati Uniti d’Europa, gli industriali illuminati e “fraterni”, i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell’alienazione.

La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale.

Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.

Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.

Cosi’, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa piu’ raffinata e per pochi, questi “pochi” divengono, fittiziamente, tanti: diventano “massa”. E’ il trionfo del “digest” e del “rotocalco” e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre piu’ irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.

Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, e’ un mondo che uccide.

Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalita’ che rallegra e uccide.

Forse tu hai preso la strada giusta, ce l’hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano cosi’, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realta’ dannata, alla fatalita’ del male.

Perche’: finche’ l’uomo sfruttera’ l’uomo, finche’ l’umanita’ sara’ divisa in padroni e in servi, non ci sara’ ne’ normalita’ ne’ pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo e’ qui.

E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro societa’ e’ la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.

Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.

E vedete questi? Uomin umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passono ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili on in tragici grattacieli: quesi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.

E’ da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.

La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici e’ il futuro di questa divisione.

Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile… una soluzione che nessun profeta puo’ intuire… una di quella sorprese che ha la vita quando vuole contiuare… forse…

Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, e’ il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.

                                                                                                                      Pier Paolo Pasolini


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2 risposte a LA RABBIA (1963) , DOCUMENTARIO DI PIER PAOLO PASOLINI — durata: 50 minuti circa — TESTI DI ANGELA MOLTENI, DI CARLO DI CARLO, AIUTO REGISTA DI PASOLINI, DA ” LE BELLE BANDIERE ” DI PIER PAOLO PASOLINI –PUBBLICATI DA BRUNO ESPOSITO –FACEBOOK ERETICO & CORSARO—

  1. nemo scrive:

    Bello e coinvolgente. Quante speranze e quanto dolore. Grazie, cara Chiara.

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