VITTORIO EMANUELE PARSI: TITATNIC. IL NAUFRAGIO DELL’ORDINE LIBERALE, IL MULINO 2018 — INTERVISTA

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Vittorio Emanuele Parsi (Torino1961) è un politologo ed editorialista italiano.

Professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, insegna Relazioni Internazionali nella Facoltà di Scienze politiche e nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. È direttore dell’ASERI dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Già editorialista dei quotidiani La stampa (dal 2008 al 2012) e Avvenire (dal 1999), dal 2013 è editorialista de Il sole 24 ore.

 

 

“Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale” di Vittorio Emanuele Parsi

uscito per Il Mulino nel gennaio 2018

 

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e il vascello sul quale l’Occidente si era imbarcato a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale è stato portato fuori rotta. Su questa rotta, diversa e molto più pericolosa, si staglia, minaccioso, un iceberg, le cui quattro facce sono tutte in grado di affondare il nostro Titanic. Si tratta della crisi della leadership americana e dell’emergere delle potenze autoritarie di Russia e Cina, della polverizzazione della minaccia legata al terrorismo jihadista, della deriva revisionista degli Stati Uniti di Donald Trump e dell’affaticamento delle democrazie schiacciate tra populismo e tecnocrazia. Sullo sfondo, la crisi dell’Europa, che può ancora salvarsi e dare il suo contributo decisivo al ristabilimento della rotta originaria, se saprà riequilibrare al suo interno la dimensione della crescita e quella della solidarietà, ritrovando la capacità di armonizzare le sovranità degli Stati membri tra loro e rispetto al disegno della casa comune europea.

Sono state minate le fondamenta stesse e la possibilità di tenuta dell’ordine internazionale. La sostituzione del liberalismo con il neoliberalismo ha stravolto la relazione tra la natura liberale delle istituzioni politiche e dei valori che ne sono a fondamento, ha infranto il sogno di un capitalismo “popolare” nella duplice accezione del termine (per tutti e in grado di trovare sostegno anche tra chi capitali non ne possiede), ha accentuato la polarizzazione di ricchezza, reddito e persino prospettiva e speranze. Ha fatto del merito la semplice conseguenza delle condizioni di partenza degli individui. Basti guardare i dati diffusi a Davos a metà gennaio sulla concentrazione della ricchezza e del reddito. In Occidente siamo tornati a dati simili a quelli di fine Ottocento. Politicamente è come se ci fossimo bruciati gli esiti del Novecento, l’avvento della democrazia e del mercato di massa, la spinta verso una società meno diseguale di tutte quelle che l’avevano preceduta.

Quali sono le origini e i fondamenti dell’ordine internazionale liberale?
L’Ordine Internazionale Liberale (Liberal World Order, LWO) è l’insieme di principi e istituzioni attraverso i quali il sistema internazionale è stato governato a partire dal secondo dopoguerra. Imperniato sulla leadership degli Stati Uniti ed esercitato attraverso cinque istituzioni principali (le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Accordo generale sul Commercio e le Tariffe, sostituito poi dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, e l’Alleanza Atlantica), esso ha garantito lo sviluppo economico e la sicurezza politica di gran parte del mondo durante la Guerra Fredda. La sua ideazione risale alla Seconda guerra mondiale, quando Roosevelt e Churchill iniziarono a delineare i tratti dell’ordine internazionale che avrebbe dovuto rimpiazzare quello che era stato spazzato via dal conflitto allora in corso.

Le preoccupazioni cui il progetto del nuovo ordine mondiale voleva rispondere erano sostanzialmente due. Da un lato si intendeva ricostituire una struttura istituzionale a vocazione universale e generalista che prendesse il posto della Società delle Nazioni. Pur riconoscendone i limiti, infatti, i leader atlantici ritenevano che il principio che aveva ispirato la sua costruzione andasse salvaguardato, anche facendo tesoro delle fallimentari modalità d’attuazione che lo avevano caratterizzato.

La seconda preoccupazione di quegli anni era che, finita la guerra, venisse evitato il riproporsi del medesimo schema che negli anni Trenta aveva portato alla formazione di blocchi economici chiusi e al più draconiano protezionismo commerciale. Si riteneva, giustamente, che esso fosse stato corresponsabile dell’ampliamento e dell’approfondimento della crisi del 1929, avendone moltiplicato gli effetti di distruzione di risorse e che – attraverso la diffusione della povertà e dell’ostilità verso la concorrenza sleale da parte degli stranieri –  avesse, tra le due guerre, pavimentato la strada per il successo in gran parte d’Europa e in Giappone dei movimenti fascisti e ultranazionalisti. Tutti temi che ricorrono oggi e che, giustamente, inquietano quanti hanno a cuore la libertà e la democrazia. Temi che però troppo acriticamente vengono arruolati a buon mercato tra gli argomenti di chi vuol far coincidere la difesa della totale libertà di movimento per i fattori di produzione con la difesa della libertà tout court, oltre tutto omettendo graziosamente che troppo spesso se il capitale è libero di muoversi, il lavoro è forzato a farlo, ricavandone per di più ben differenti e inaccettabilmente diversi tassi di remunerazione.

Durante la Guerra Fredda l’Ordine Internazionale Liberale è convissuto con il bipolarismo sovietico-americano e ha strutturato non solo il rapporto euro-americano, ma tutta quella parte di mondo che condivideva l’interesse a non vedere prevalere il comunismo e l’organizzazione politica ed economica che esso postulava. E in questo senso era un sistema globale, un dato di fatto che ha preceduto l’avvento della globalizzazione e l’ha resa possibile.

Non era il paradiso in terra, quello prospettato negli anni Quaranta dai suoi ideatori. Ma c’era la condivisa consapevolezza che una nuova crisi generale dell’ordine internazionale come quella che era seguita alla Prima guerra mondiale avrebbe probabilmente segnato la fine del complesso di valori e di idee che si era gradualmente affermato, non senza lotte e conflitti anche aspri, a partire dall’Illuminismo. Nessuno metteva in dubbio che l’interdipendenza economica e finanziaria globale che si era affacciata prima di quel conflitto, avesse mostrato una duplice natura. Da un lato aveva straordinariamente ampliato le opportunità di crescita del sistema economico internazionale e comunque contribuito a mettere in discussione un ordine sociale ancora ampiamente caratterizzato dal trascinamento di elementi premoderni. Dall’altro aveva evidenziato le crescenti contraddizioni tra la nuova fase che lo sviluppo economico capitalista andava conoscendo e la tenuta dell’assetto sociale che il sistema politico e istituzionale liberale di fine Ottocento, estremamente elitario, esclusivo e fortemente gerarchizzato non riusciva a governare. Il successo delle ideologie autoritarie inclusive e totalitarie rappresentate dal fascismo (in tutte le sue possibili declinazioni) e dal comunismo era stato lo scotto che il liberalismo di inizio Novecento aveva dovuto pagare alla sua incapacità di includere politicamente quelle masse peraltro necessarie e insostituibili al funzionamento e allo sviluppo del circuito economico. C’era cioè una chiara consapevolezza, e conseguentemente una forte gerarchia, tra quali dovessero essere i mezzi e quali i fini, ovvero occorreva che il dissesto economico non mettesse nuovamente a repentaglio la libertà degli individui. Certo non si intendeva con questo consentire che la crescita economica mettesse in discussione le libertà fondamentali e i diritti degli esseri umani.

Proprio alla luce di simili esperienze, in termini di concezione del rapporto tra economia e politica, tra mercato e democrazia, gli artefici dell’Ordine Internazionale Liberale non nutrivano alcuna illusione fideistica nelle (supposte) capacità autoregolative del mercato, in special modo quello finanziario. Avevano viceversa sperimentato come la crisi del Ventinove avesse messo in luce tutte le insufficienze del mercato e soprattutto i danni che un mercato finanziario malregolato poteva causare. Nel momento in cui prospettavano un sistema economico e finanziario aperto, fondato sulla libera circolazione di beni e servizi, erano quindi ben consci che a un mercato mondiale dovesse corrispondere una struttura di governance solida e che solo attraverso un accorto sistema di regole sarebbe stato possibile evitare che un mercato globale potesse prendere il sopravvento su democrazie necessariamente locali. Che è esattamente quello che da alcuni decenni ormai si sta realizzando, con lo smantellamento sistematico delle strutture di welfare pubblico. Questo rappresenta il modo neppure troppo occulto con il quale si stanno derubricando una serie di diritti, classificandoli come il mero corrispettivo di prestazioni, che possono essere erogate in maniere molteplici e diverse e che devono adeguarsi al livello delle medesime prestazioni: che in tal modo finiscono col riempirli o (sempre più spesso) svuotarli, fino a farli cessare di esistere, come diritti, nel momento in cui, per tutt’altre logiche, dovesse essere deciso di sospendere del tutto l’erogazione delle stesse prestazioni. Per questa via si segna, semplicemente, la primazia della logica del potere economico su quello politico; lo svilimento dello Stato, che è il solo possibile implementatore di diritti concepiti come universali, comporta lo svilimento dei diritti stessi e il ribaltamento della logica propria dell’ordine liberale, nonché della sua stessa possibilità.

È stato l’Ordine Internazionale Liberale, costruito sulle premesse che oggi sono in discussione e sotto attacco, ad aver fornito lo spazio politico ed economico al cui interno l’Occidente ha prosperato, a consentire la protezione sociale che avrebbe garantito una crescita ordinata  e lo sviluppo di quell’embedded liberalism, quel liberalismo vincolato che, come ha affermato per primo John Ruggie, creava delle free-market societies e non semplicemente dei liberi mercati: ovvero assetti sociali e istituzionali che perseguivano il welfare State, attraverso politiche del lavoro in grado di valorizzare le persone anche se economicamente non tutte e sempre altamente produttive. Questo non costitutiva uno spreco di risorse, tutt’altro. Esso faceva sì che venisse preservato un equilibrio di lungo periodo tra le esigenze della competizione economica e quella dell’ordine sociale, consentendo al secondo di adattarsi gradualmente alle necessità di sviluppo della prima e alla prima di non distruggere l’assetto su cui si fondava e che la rendeva possibile. Il risultato era la realizzazione di un capitalismo che inverasse la profezia di una distruzione creatrice, e non di una distruzione pura e semplice, nella consapevolezza della necessità di preservare quelle virtù “pre-mercatistiche” (per citare Adam Smith, e non Karl Marx) che sole possono consentire la nascita, la sopravvivenza e la crescita del mercato. Ora, a prescindere dall’attuale crisi economica e dal dibattito teorico e empirico incentrato sul ripensamento del paradigma su cui si sono basati i sistemi di welfare nei Paesi a tradizione liberal-democratica, è certo che un sistema economico capitalistico integrato con un sistema di sicurezza sociale è profondamente diverso da un analogo sistema privo di ammortizzatori sociali.

Per rimanere nella metafora cui questo libro si richiama, non c’era nessuna pretesa che l’ordine che si stava varando fosse inaffondabile. Al contrario, si era pienamente consci che, come qualunque vascello, esso necessitava di un’instancabile e continua manutenzione, che la sua rotta venisse costantemente verificata e che il suo carico fosse ben assicurato e disposto in maniera equilibrata, affinché uno sbilanciamento repentino o anche graduale dei pesi, a sfavore di un ambito e a favore di un altro, non portasse all’impossibilità di governo e persino al naufragio. Tutte dimensioni che sembrano essere andate perdute proprio nel momento del trionfo, quando il 9 novembre 1989 “il Muro” crollò, tanto fragorosamente quanto inaspettatamente.

Quando nel 1989, dopo il crollo del Muro, la possibilità di realizzare un mercato davvero globale si fece realtà – e venne attuata in un tempo sorprendentemente breve – le cose erano decisamente cambiate rispetto agli anni Quaranta. I fautori del mercato globale erano ora quelli che nel decennio precedente avevano spinto a favore della deregulation e della ritirata dello Stato dal sistema economico: le politiche attuate e propagandate da Margareth Thatcher e Ronald Reagan nei rispettivi Paesi e poi dilagate in tutto l’Occidente. Paradossalmente, proprio mentre un poderoso mercato globale veniva ad esistere, le strutture, la ratio, gli obiettivi di controllo del sistema economico venivano ridotti, si consentiva che i legittimi vantaggi ottenuti da alcuni nel campo dell’azione economica si trasferissero sotto forma di inaccettabili privilegi nell’arena politica, per citare Tocqueville. Si trattò di un vero e proprio tradimento rispetto a quanto era stato disegnato originariamente, con ben altra saggezza, nel concepire un mercato globale: le regole vennero abbandonate, aggirate, alleggerite e il mercato venne interpretato non come una raffinata istituzione artificiale, frutto dell’incontro tre le leggi e il desiderio di ricchezza, ma come una pretesa istituzione naturale, analoga alla famiglia, tanto per intenderci. Analogia evidentemente impropria anche per chi la valutasse con l’occhio scevro da convinzioni religiose, se solo si considera che tutti i primati (e non solo loro peraltro) conoscono un’organizzazione famigliare, pur senza avere divinità, clero e chiese, mentre non conoscono nulla di analogo al mercato.

Non si trattò di un complotto orchestrato da qualche “Spectre” globale (l’organizzazione del male dei romanzi e dei film di James Bond). Fu invece l’esito delle esperienze diverse che avevano plasmato le concezioni e le strategie dei fautori del New Deal e quelle dei sostenitori della nuova global economy. Dei primi, con la loro visione economica keynesiana, abbiamo già detto. I secondi, che potremmo definire “friedmaniani” – tanto per assegnare anche a loro, simmetricamente, un economista santo patrono, Milton Friedman premio Nobel e padre del monetarismo – si erano confrontati invece con la progressiva ossificazione delle economie sviluppate, imputata a un insieme di “lacci e lacciuoli” e alla pervasività di una burocrazia asfissiante, che dovevano essere “liberate” dagli eccessi di una cattiva e ipertrofica regolamentazione. Il loro contraltare polemico ero lo Stato nella sua proiezione interna e non l’assenza di una dimensione pubblica internazionalecome invece era per i padri fondatori dell’Ordine Internazionale Liberale, si badi bene, e la dimensione economica di riferimento era costituita innanzitutto da quella nazionale e in secondo luogo da quella globale o anche soltanto regionale.

I loro argomenti vennero peraltro raccolti da leader politici interessati a farne cavalli di battaglia per la lotta politica domestica, ancorché convinti magari in perfetta buona fede della correttezza di questi ragionamenti. Se un collegamento o un’alleanza venne trovata tra Thatcher e Reagan, per citare i due campioni di questa nuova visione politica prima ancora che economica, lo fu in termini di spalleggiamento reciproco da impiegare nella lotta politica interna. Tanto la prima che il secondo erano peraltro gelosi custodi della sovranità nazionale dei propri Stati. Anzi, la dimensione del nazionalismo e più in generale la messa in discussione dei valori liberal che avevano caratterizzato il decennio precedente era parte integrante di quella “rivoluzione conservatrice” che avrebbe portato, successivamente, alla fusione del neoliberalismo economico con il neoconservatorismo politico e culturale, ovvero quel patto che sarebbe stato cruciale per ottenere il consenso dei ceti medi e mediobassi a politiche economiche che avrebbero oggettivamente favorito, sia in termini di potere sia in termini di benefici, le classi superiori e danneggiato tutte le altre, ridefinendo i rapporti di potere tra le classi in senso sfavorevole alla lunga “rivoluzione liberale” che aveva caratterizzato il secondo dopoguerra. Non è necessario evocare alcun “complotto” ordito dal “grande capitale internazionale” al fine della conquista del “potere mondiale” per spiegare quello che è successo; ma le conseguenze indubitabilmente sono state quelle di ridefinire i rapporti di forza e di potere tra i detentori e gli intermediari di grandi mezzi finanziari e chi sul mercato porta esclusivamente o prevalentemente le proprie capacità lavorative. L’esito finale è stato quello, paradossale solo in parte, di impossessarsi dello Stato, ovvero di trasformarlo in un agente dell’affermazione dell’egemonia culturale neoliberale, oltre che nell’autore di leggi che consolidano ulteriormente i nuovi rapporti di potere.

Quali conseguenze è destinato a produrre, a Suo avviso, il declino della leadership americana e l’emergere delle potenze autoritarie russa e cinese?
Parlare di un’esplicita e condivisa strategia da Russia e Cina volta a svellere la supremazia americana è probabilmente eccessivo e sicuramente prematuro. Occorre però registrare come, in questi anni, gli approcci tra Mosca e Pechino per provare a individuare una possibile piattaforma comune in grado di arginare l’egemonia americana siano stati ricorrenti: dalla Shanghai Initiative(poi trasformata in Organizzazione) agli accordi sulla fornitura di gas da parte russa (impantanatasi per ora sulla necessità di realizzare una gigantesca e costosa rete di distribuzione, insostenibile in tempi di prezzo calante degli idrocarburi e sulla cui ripartizione dei costi non è stato ancora raggiunto un accordo effettivo), fino al sostegno russo alle pretese del “dragone” nel Mar della Cina. Lo stesso Documento sulla Dottrina Strategica Russa, rilasciato dal Cremlino nel dicembre 2016, nel dichiarare esplicitamente la volontà russa di tornare a essere un global veto player nel sistema internazionale – oltre che un campione di un “neosovranismo” che di fatto manda in soffitta sia la Responsibility to Protect (l’acquisizione forse più significativa del sistema delle Nazioni Unite allo scavalco del millennio) sia il regime dei diritti umani – indicava proprio nella ricerca di maggiore sintonia con la Cina uno degli assi su cui orientare la politica estera del prossimo decennio.

Nel dipanarsi della crisi nordcoreana, d’altronde, la collaborazione fattuale tra Pechino e Mosca è stata già evidente. La crisi ha rischiato, e continua a rischiare, di portare la regione e, almeno potenzialmente il mondo, all’interno di una guerra che potrebbe anche vedere l’impiego di armi nucleari. I fatti sono noti. È dalla fine degli anni Ottanta che il regime di Pyongyang ha intrapreso una corsa al nucleare caratterizzata dalla sua natura proclamata, piuttosto che conclamata. Invece di tentare di occultare le prove del suo coinvolgimento, Kim Yong Un ne ha fatto motivo di vanto e propaganda verso l’interno e verso l’esterno.

È qui che si palesa come l’interesse cinese e russo di vedere allentata la presenza americana in Asia Orientale, peraltro condiviso dalla Corea del Nord, prevalga sull’interesso condiviso dai tre grandi di evitare un conflitto (e men che meno un conflitto nucleare) nella regione. Su questo punto occorre la massima chiarezza. Come abbiamo detto, nessuno, neppure i cinesi, intendevano vedere la Corea del Nord trasformata in una potenza nucleare. E, in una certa misura, i cinesi hanno cercato di trattenere il loro alleato nordcoreano dall’intraprendere e dal proseguire su un simile cammino. Allo stesso tempo però, e in maniera sempre più consistente negli ultimi anni, Pechino avverte l’ingombro, il peso, della presenza militare americana nella regione e del ruolo che gli Stati Uniti giocano nell’impedire alla Cina di poter conseguire un’egemonia sul Pacifico orientale e sul Mar della Cina. Washington ha del resto perseguito una simile politica nel corso dell’ultimo secolo: prima in chiave anti giapponese (e di lì originò la decisione giapponese di attaccare Pearl Harbour), poi in funzione anticinese.

A mano a mano che una lunga serie di amministrazioni americane – con notevole continuità a partire da quella di George W. Bush, poi con Barack Obama e quindi con Donald Trump – hanno accentuato la propria politica di confronto con Pechino, la Cina ha manifestato  una crescente insofferenza verso la nuova assertività americana. È una partita a scacchi delicata quella giocata tra Washington e Pechino, nella quale entrambe le potenze tentano di utilizzare la pedina nordcoreana per conseguire anche i propri obiettivi. Gli USA vogliono dimostrare di essere in grado di tutelare i propri alleati e in tal modo riaffermare con forza il proprio ruolo di overseas balancer in Asia Orientale, ovvero di essere ancora i soli possibili garanti di un ordine al cui interno la Cina deve e può trovare il proprio ruolo – subordinato – ma non certo pensare di sovvertirlo. Allo stesso tempo, un’efficace azione di contenimento della minaccia coreana che avvenisse sotto la guida americana (sia pur limitata a un serio inasprimento del regime delle sanzioni economiche e a una sua più stringente applicazione) costituirebbe un motivo di attrazione verso l’orbita a stelle e strisce di quei Paesi dell’area che sono preoccupati del crescere della potenza cinese e della sua maggiore assertività: dal Vietnam alla Malesia.

Questo è ciò che, oramai, Pechino non può accettare. Lo sforzo cinese di questi anni è stato quello di dimostrare, innanzitutto, ai vicini di essere una potenza affidabile, la cui crescita economica, politica e anche militare non costituisce una minaccia per nessuno. “Armonia” è stata la parola d’ordine di tutta la comunicazione politica cinese verso il mondo esterno, la pietra angolare sulla quale provare a costituire il suo soft power, in concorrenza a quello americano e, poi, una rete di alleanze. Fino a un certo punto, la massiccia presenza americana nella regione è stata funzionale a questo disegno, concorrendo a tranquillizzare i vicini eventualmente intimoriti dalla crescita di Pechino. Ora però non è più così. Se la Cina vuole veder crescere il suo status, il suo rankinginternazionale, deve progressivamente sostituirsi a Washington nella funzione di leader regionale. In questo senso, il fallimento americano sul dossier nordcoreano rappresenterebbe un oggettivo successo per Pechino, a maggior ragione se questo non fosse seguito da un conflitto nella Penisola Coreana ma invece dal buon esito della mediazione cinese, magari con l’aiuto russo.

Ne emergerebbe un innegabile ridimensionamento del ruolo americano nell’area e della sua stessa credibilità nel prestare effettiva protezione ai propri alleati, persino di fronte a una minaccia seria come quella nucleare. Nell’immediato convincerebbe gli indecisi che, piuttosto che assumere rischi inutili nel concorrere al bilanciamento della Cina associandosi agli americani, convenga saltar sul carro del vincitore, quello di Pechino, e ottenere le migliori condizioni possibili per la sua protezione. E, nel lungo periodo, a trovarsi costretti a percorrere la via per la capitale del nuovo “celeste impero” sarebbero anche i giapponesi e i sudcoreani.

Come si intuisce, non solo queste politiche di potenza sono tra loro incompatibili, ma sono anche estremamente pericolose. Pechino non ha nulla da guadagnare da una “vittoria” nordcoreana; ma ne ha molto nel lasciare che il cerino acceso da Pyongyang bruci le mani americane, possibilmente tenendole impegnate il più a lungo possibile. Ma se l’America reagisse anche solo riportando le proprie testate nucleari tattiche sotto il 32° parallelo, la prospettiva di uno scacco matto a Washington si ribalterebbe in uno nei confronti di Pechino. D’altronde persino la strada dell’inasprimento delle sanzioni non è per nulla in discesa, se  solo si pensa a come la Cina ha reagito duramente alla loro applicazione da parte americana nei confronti di alcune sue aziende accusate di intrattenere relazioni commerciali “proibite” con la Corea del Nord (anche se alla fine di settembre pare che Pechino abbia dato ordine alle proprie banche regionali di cessare di fare operazioni con Pyonyang). Washington, dal canto suo, sa che trovare la rotta giusta tra la fermezza e il dover scegliere un’opzione militare estremamente incerta e pericolosa – che potrebbe attirarle lo sdegno del mondo in un momento in cui già l’amministrazione non gode certo dei favori della stampa e dell’opinione pubblica interna e internazionale – è tutt’altro che facile.

L’Occidente si trova attualmente stretto tra populismo identitario e sovranista e l’oligarchia apolide e tecnocratica: quali gli sviluppi futuri?
Quello cui assistiamo è la deriva dalla democrazia alla “post-democrazia”. Quest’ultima la si può definire e idealizzare in molti modi diversi, ma nella sostanza ha coinciso con l’allontanamento delle masse dalla politica e con l’ascesa di oligarchie sempre più coese, che hanno reso obsoleto il rassicurante discorso di Robert Dahl e degli elitisti democratici sul pluralismo delle élite. Diversamente da quanto descritto dal grande teorico della democrazia americana del secondo dopoguerra, al di là della loro eventuale diversa provenienza sociale (dato sempre più confutabile, non solo in Italia), una volta raggiunte le posizioni di vertice dei diversi sottosistemi di cui sono espressione, le élite tendono a saldarsi e a far convergere i propri interessi in quello più complessivo della conservazione delle posizioni raggiunte, come ben aveva intuito Charles Wright Mills, ad istituire nuove enclosures, così da precludere agli altri le vie di accesso alle proprie posizioni di potere e privilegio. Questo slittamento è tanto più facile quanto più le élite economiche sono riuscite a imporre la propria logica, i propri valori e i propri interessi come egemonici (per dirla con Antonio Gramsci), acquisendo un potere di agenda setting ormai incontrastato. È appena il caso di notare che questo processo sia avanzato di pari passo con la svalutazione dell’egalitarismo e della politica, nell’affermazione di quel preteso “modello realista della democrazia” (Palano, 2015) che ha spinto la gente comune a disaffezionarsi alla politica, attraverso la progressiva rinuncia dello Stato a intervenire concretamente nelle vite dei propri cittadini. Sono state le decisioni politiche adottate a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta a sbilanciare l’equilibrio, sempre precario, tra l’ambito economico e quello politico, tra il mercato e la democrazia, consentendo ai vincitori della competizione economica di trasferire tutto il peso del loro successo nell’arena politica, realizzando quella stortura neoliberale del liberalismo che ha consentito di avere, e legittimare, élite sempre più ricche, potenti, arroganti e privilegiate, in tal modo tradendo il presupposto principale della teoria democratica classica (e del liberalismo dei Padri Fondatori): la fiducia, se non la vera e propria fede, nelle capacità e nella virtù del popolo.

L’ammaloramento della democrazia è ciò che ha fornito linfa al populismo che in questi anni è dilagato in Europa e negli Stati Uniti e che in Italia, oltre al dar vita o a rinforzare formazioni che in qualche modo ne costituiscono esplicito punto di riferimento ha anche inquinato il dibattito pubblico e la cultura politica di partiti che si vorrebbero presentare come un baluardo rispetto a questa deriva e che invece ne hanno molto più spesso provato a inseguire, scimmiottandole, le proposte e le suggestioni politiche: spesso con risultati elettorali deludenti, immemori dell’adagio che “l’imitazione è sempre meno credibile dell’originale”.

Il paragone con il Titanic, riguarda anche la sua fine?
Molto dipende da che succederà in Europa. Oggi la questione che attraversa l’Europa e non solo l’Europa non è quella del cosiddetto sovranismo, che rappresenta un mero sintomo del problema o una sua grossolana e sbagliata risposta: semmai è quello delle trasformazioni che la sovranità deve affrontare non per scomparire graziosamente, ma per essere riaffermata in una maniera che le consenta di essere uno scudo efficace per i diritti politici, civili e sociali che continuano a riempire e dare senso alla nozione di cittadinanza. Se una cosa è emersa con chiarezza negli anni trascorsi dal 1989 è che la riduzione della sovranità, la ritirata dello Stato, la sua delegittimazione in quanto attore terzo, credibile regolatore della competizione tra gli interessi e interprete e tutore dell’interesse generale non sono stati processi neutrali. Questi ultimi hanno infatti privilegiato gli interessi più forti e più concentrati (ovvero di una minoranza) a scapito di quelli più deboli e diffusi (cioè della maggioranza).

Se non ripartiamo da un recupero del valore positivo della sovranità politica – articolata tra i livelli nazionali e quelli europei, efficacemente rappresentata nelle istituzioni e responsabile rispetto ai cittadini-elettori –  non sapremo mai raccogliere la sfida della sua ricostruzione per rimediare all’erosione patita lungo ormai quasi tre decenni. Non si tratta di avere nostalgia per un mondo che non può tornare, ma di essere consapevoli che il mondo in cui viviamo è frutto dell’azione artificiale dell’uomo e in quanto tale può essere decostruito e ricostruito in maniera diversa e migliore. Uno degli errori più macroscopici operato dalla grande sostituzione della fine degli anni Ottanta, della collocazione di un Ordine Globale Neoliberale al posto dell’originario Ordine Internazionale Liberale, è stato quello di credere che un ordine internazionale fosse possibile a prescindere dalla tenuta delle singole unità che lo componevano: e che per giunta un ordine senza Stati sovrani, o, per meglio dire, un ordine fondato su Stati dalla sovranità programmaticamente evanescente potesse dirsi liberale.

Il futuro dell’Unione Europea – le cui acquisizioni anche positive sia in termini di crescita economica sia in termini di parziale costruzione di un’identità politica e di una cittadinanza comune europea sia, ancora, in quelli di contributo alla pace e alla diffusione della democrazia nel Vecchio Continente sarebbe folle negare e ancora più folle perdere – dipende in gran parte dall’atteggiamento con cui sapremo e vorremo porci la sfida di una riarticolazione nei suoi rapporti con gli Stati membri che non ne mortifichi le necessarie sovranità, ma che si ponga piuttosto il problema di armonizzarne la pluralità e di renderne compatibili gli obiettivi. E che preveda un sempre più improcrastinabile riequilibrio tra la dimensione sociale e quella economica e finanziaria dell’Unione. Per quanto possa apparire un compito arduo, non esistono scorciatoie o alternative perché, giova ribadirlo, solo accettando di ripartire dalla sovranità sarà possibile garantire un futuro tanto alla democrazia politica quanto all’economia di mercato.

Una via per affermare una sovranità europea che contenga, armonizzi e completi le singole sovranità degli Stati membri è quella di impostare la questione della frontiera comune europea. Si tratta di un tema tutt’altro che semplice, ma che, se correttamente affrontato, consentirebbe di far compiere un passo avanti significativo al processo di costruzione di una casa comune europea. Gli effetti positivi sono facilmente comprensibili. Da un lato, il sorgere di un effettivo confine europeo, vigilato congiuntamente e sotto una comune responsabilità dalle forze militari e di polizia dei singoli Stati che compongono l’Unione consentirebbe di abbattere nuovamente le frontiere interne, pericolosamente e necessariamente risorte proprio a causa della porosità del “non-confine” dell’Unione. Dall’altro questa responsabilità comune nei confronti della sicurezza collettiva europea alimenterebbe il senso di appartenenza e di cittadinanza europea con tutti quei simboli finora appannaggio esclusivo della residua sovranità degli Stati. Non si tratterebbe di avocare all’Unione la responsabilità e il comando permanente delle forze militari e di polizia o di costituire un esercito europeo (operazione del tutto velleitaria, in assenza di una per ora utopistica trasformazione in senso federale dell’Unione): bensì di riservare all’Unione la funzione di coordinamento dell’impiego di questi strumenti relativamente alla vigilanza dei confini esterni dell’Europa.

A scanso di equivoci, frontiere più vigilate e meglio difese non significa di necessità chiudere ermeticamente i propri confini, sbattere la porta in faccia ai migranti e ai potenziali titolari di un diritto di asilo. Ma renderebbe sicuramente più efficace il controllo e la gestione dei flussi stessi, facendo delle pratiche di accoglienza e ricollocamento o di respingimento e rimpatrio, una questione sussunta all’interno del tema più generale della sovranità europea e della sua frontiera comune.

Sui confini sono state svolte in questi anni molte riflessioni, e sono volate anche tante chiacchiere in libertà. Occorre ribadire che relativizzare la valenza partitoria dei confini implica importare all’interno dei singoli Stati, o delle unioni di Stati, caratteristiche, influenze e incognite peculiari del sistema internazionale, di fronte alle quali lo Stato si trova impossibilitato a reagire o comunque in seria difficoltà rispetto alle decisioni da assumere o alle strategie da attuare.

 

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