CASA SCACCABAROZZI, ” PALAZZO FETTA DI POLENTA “, TORINO, DELL’ARCHITETTO ALESSANDRO ANTONELLI, QUELLO DELLA MOLE ANTONELLIANA… IMMAGINI + ARTICOLO DE LA STAMPA DEL 9 APRILE 2008

 

CASA SCACCABAROZZI – PALAZZO FETTA DI POLENTA

TORINO, VIA GIULIA DI BAROLO 9

  • ARTISTAAlessandro Antonelli
  • DOVE: Torino, Via Giulia di Barolo 9
  • REALIZZAZIONE: 1840 – 1881
  • INDIRIZZO: Via Giulia di Barolo 9
  • TELEFONO: 011 882208
  • APERTURA: L’interno del palazzo non è visitabile.
  • TRASPORTI: Fermata 566 S. Maurizio: linee 15, 30, 55.
  • DURATA VISITA: 1 ora circa

DESCRIZIONE:
Questo curioso edificio fu costruito da Alessandro Antonelli su un terreno triangolare di sua proprietà (1840-81) e prese il nome dalla moglie, Francesca Scaccabarozzi. Le particolari dimensioni del terreno costrinsero l’architetto a costruire un edificio alto 24 metri con lati di dimensioni differenti, che vanno dai 16 metri di via Giulia di Barolo, ai 4,35 metri su corso San Maurizio fino ai 54 cm sul lato opposto. Immediati furono a quel tempo i dubbi circa la stabilità della struttura, che a causa del suo aspetto fu chiamata in brevissimo tempo “Fetta di Polenta”.

http://www.arte.it/luogo/casa-scaccabarozzi-palazzo-fetta-di-polenta-368

 

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un lato…

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l’altro lato.

 

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ALESSANDRO ANTONELLI

 

«L’Antonelli è un artista sullo stampo di quelli del Rinascimento; nel suo vasto cervello ogni concetto piglia una grandiosità che si spinge fino ai limiti dell’ineffettuabile; avrebbe dovuto vivere al tempo dei Medici, sotto un Leone X, e avrebbe lasciato di sé qualche colosso immortale come la cupola di San Pietro, o il Palazzo Pitti, a dire perennemente il suo nome.»
(Vittorio Bersezio— Ateneo veneto, Rivista mensile, p.131-132 )

 

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Alessandro Pietro Ercole Sigismondo Antonelli (Ghemme14 luglio 1798 – Torino18 ottobre 1888) è stato un architetto e politico italiano.

Divenuto deputato del Regno di Sardegna nel 1849, deve la sua notorietà soprattutto alla Mole Antonelliana, la sua opera più famosa. A lui lo scrittore Sebastiano Vassalli ha dedicato un libro, Cuore di pietra.

 

La cupola piramidale della Mole Antonelliana–Torino–Livioandronico2013 – Opera propria

La cupola della Basilica di San Gaudenzio a Novara.–Alessandro Vecchi – Opera propria

Il santuario del Crocefisso di Boca, Piemonte —F Ceragioli – Opera propria

La Rotonda antonelliana di Castellamonte – Progetto di Antonelli–Laurom – Opera propria

Villa Caccia di Romagnano Sesia-Porgetto di Alessandro Antonelli —Laurom – Opera propria

https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Antonelli

 

 

 

 

 

 

la stampa del 9 aprile 2008

https://www.lastampa.it/2008/04/09/cultura/nella-casa-pi-pazza-del-mondo-PBfZmnaFaAfaP12eRgZvPN/pagina.html

 

 

 

 

 

Stregato da una casa. Da cinquant’anni. Consumato dal desiderio di vedere com’è fatta dentro. È una perversione spiegabile se quella casa è «la fetta di polenta» che Alessandro Antonelli ha edificato all’incrocio fra corso San Maurizio e via Giulia di Barolo su uno striminzito fazzoletto di terra. Un trapezio isoscele. Una notte sono andato a prendere le misure: le due basi misurano una 4 metri e l’altra 57 centimetri. I lati congruenti sono lunghi 16 metri, perciò l’area (somma delle basi per l’altezza diviso due) è di 36,5 metri quadrati. Un single che lavora al call center non accetta di vivere in meno di 40 metri. E lui, quel visionario che doveva edificare una sinagoga e l’ha fatta diventare la Mole, per gareggiare in altezza con l’ingegner Eiffel di Parigi, ha tirato su una casa di civile (?) abitazione su 9 piani di cui 2 interrati. 

 

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È naturale che questa «casa impossibile» abbia, fin dall’inizio, ispirato fantasie e leggende metropolitane. E un’ossessione, la mia. Non chiedevo la luna, volevo solo vedere com’era fatta dentro. Non era possibile, era abitata da privati. Potevo suonare al citofono come un testimone di Geova? Dire: «Mi manda Guariniello, per un controllo?». Li avrei spaventati a morte. E per niente, poi. Ho chiesto in giro, mi hanno raccontato che i precedenti proprietari avevano affidato l’arredamento all’architetto e scenografo Renzo Mongiardino il quale, sovraccaricando gli ambienti di mobili, tappeti, drappeggi, aveva trasformato le stanze in altrettanti vagoni dell’Orient Express. «Hai presente l’Orient Express?» «Come no, per anni ho fatto il pendolare». Ero da capo un’altra volta, evitavo persino di passare da quelle parti. Poi ho letto che l’ultimo proprietario, Franco Noero, dopo un lungo, accurato e rispettoso lavoro di risanamento conservativo, l’ha trasformata in una galleria d’arte contemporanea, inaugurata il 3 aprile con la mostra dell’artista inglese Simon Starling. Ho subito prenotato una visita e sabato pomeriggio ci sono andato. «Dove vai?» mi hanno chiesto mentre uscivo. «A vedere una mostra di arte concettuale». «Ma se non ti è mai piaciuta». «Potrò cambiare idea? O devo prima chiedervi il permesso?». Senza mancare di rispetto a Simon Starling, è valsa la pena spasimare per tutti questi anni.

In galleria ho avuto la fortuna di incontrare il giovane architetto Alberto Daviso dello studio Civico13 che ha curato i lavori. Grazie a lui ho potuto dissipare il velo di leggende che avvolge la fetta di polenta. La vulgata sostiene che per Antonelli si è trattato di vincere una scommessa; invece la molla iniziale è stata una sana speculazione. L’autore della Mole aveva collaborato alla lottizzazione del borgo Vanchiglia nel corso della quale, per collegare via Giulia di Barolo con corso san Maurizio, si era dovuta sacrificare casa Colomba alta tre piani: ne era rimasta solo una fettina, rappresentata dalle due basi del trapezio. Con un piccolo dettaglio: quel terreno apparteneva alla moglie di Antonelli, la cara e indimenticabile signora Scaccabarozzi. Antonelli sarà stato anche un visionario ma, nato a Ghemme, era soprattutto un piemontese e noi «non buttiamo mai via niente, non si sa mai, potrebbe sempre tornare utile». Un altro si sarebbe accontentato di tirare su le mura mancanti e fare una casa di tre piani. Non un geniale sperimentatore che amava le sfide impossibili. E allora vai con la sopra elevazione per altri quattro piani, per finire con un tetto a capanna che poi, in deroga, sollevando le falde, diventerà piatto, ricuperando altro spazio.

L’interno, con le stanze imbiancate, si offre come un campionario di mille geniali artifici per sfruttare lo spazio. Le scale sono collocate nella parte più stretta del trapezio, nell’imbuto che non poteva ospitare le stanze; sono a forbice con le lance sovrapposte e gli scalini larghi a metà, ma, essendo anche le ringhiere dimezzate, l’occhio le percepisce come normali. Ci sono due rampe per ogni piano e all’ammezzato sono collocati i bagni, uno per appartamento. Le finestre da sole meritano la visita; sono costruite in modo che le ante aperte non invadano l’esiguo spazio interno ma siano contenute dentro lo spessore dei muri, che appare notevole. Lo spessore è un’illusione, lo si scopre uscendo sul relativo balconcino e realizzando che ogni finestra in realtà è un bow window.

La destinazione a galleria d’arte, con le stanze bianche e spoglie, consente di ammirare agevolmente l’ingegnosità di Antonelli. I due piani ipogei, non visitabili, ospitano il primo la cucina e il secondo un bagno turco. L’ingresso degli appartamenti è al 9 di via Giulia di Barolo. Sopra la porta, una lapide, a cura del Comune di Torino, m’informa che «in questa casa abitò e operò Niccolò Tommaseo». Mi commuovo collocando in una di queste stanzette dal soffitto basso il bizzoso e irritabile patriota dalmata, quasi cieco (un regalo della sifilide) mentre scrive per l’editore Pomba le voci del suo vocabolario della lingua italiana su striscioline di carta (come Proust nella stanza imbottita di sughero!). Non è vero, naturalmente; per scoprirlo sarebbe bastato confrontare due date: Tommaseo soggiornò a Torino dal maggio 1854 all’ottobre 1859, per trasferirsi poi a Firenze dove morì nel 1874. La «fetta di polenta» fu terminata nel 1881. Se proprio vogliamo metterci un cesellatore della parola, un traduttore eccelso, degno di stare accanto al Tommaseo, offriamo ospitalità al nostro Guido Ceronetti. Lo vedo bene all’ultimo piano, all’attico, con la scala che penetra direttamente nell’ambiente e con un’altra piccola rampa conduce a una vasca da bagno foderata sui bordi da tessere di mosaico in oro e verde blu sui fianchi e sulle pareti. Tutto intorno corre un balcone che procura deliziose vertigini poiché la ringhiera è molto bassa e la casa è inclinata verso la strada di 34 centimetri. Sembra di stare sospesi su una strada di Montparnasse.

È ora di uscire e contemplare la classica eleganza della facciata inquadrata da quattro lesene di color giallo paglierino che si staccano dal muro di color rosso persichino, con tre ordini di finestre inquadrate da forti cornici e rastremate verso l’alto. A questo punto mi si svela la fascinazione esercitata dalla «fetta di polenta». Con quest’opera Alessandro Antonelli compie un gesto di estrema audacia, ma lo maschera dandogli un involucro di elegante classicità che tranquillizza l’osservatore. Perfetta metafora del carattere di noi torinesi, capaci di coltivare fantasie estreme ed oltraggiose del buon senso, purché sia possibile rivestirle di assoluta rispettabilità.

 

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