PEDRO ROSAS, ECONOMISTA GIORNALISTA DEL CARACAS CHRONICLES, LIMES 17 APRILE 2019 :: CHI STA CON MADURO E CHI CON GUAIDÓ IN VENEZUELA

 

 

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limes online –17 aprile 2019

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Pedro ROSAS – Economista residente in Venezuela, scrive di politica ed economia venezuelana per Caracas Chronicles e altre testate.

 

CHI STA CON MADURO E CHI CON GUAIDÓ IN VENEZUELA

Pubblicato in: VENEZUELA, LA NOTTE DELL’ALBA – n°3 – 2019

Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019

Maduro resta in sella grazie all’appoggio di paramilitari, cubani e famigli. Le opposizioni scontano divisioni e repressione, ma per ora stanno a galla. Il ruolo degli Stati Uniti dietro Guaidó. Esercito e chavisti dissidenti sono le grandi incognite.

di Pedro Rosas

1. Il 23 gennaio 2019 Juan Guaidó, giovane e semisconosciuto deputato eletto due settimaneprima alla presidenza del parlamento venezuelano, ha alzato la mano davanti a migliaia di simpatizzanti dell’opposizione riuniti in un ampio viale di Caracas per prestare giuramento come presidente ad interim del Venezuela. Guaidó ha invocato gli articoli della costituzione che indicano nel presidente del parlamento il responsabile dell’esecutivo, se all’inizio di un mandato presidenziale manca un presidente eletto.


Il giuramento di Guaidó ha aperto un nuovo capitolo della crisi politica venezuelana iniziata nel dicembre 2015, quando l’opposizione – conquistati due terzi dei seggi all’Assemblea nazionale (parlamento) – si insediò, solo per vedersi immediatamente esautorata dal governo di Nicolás Maduro. Da quella sconfitta elettorale, l’esecutivo ha fatto tutto il possibile per non essere spodestato attraverso il voto: ha violato leggi elettorali, incarcerato oppositori, messo fuori legge partiti e creato un parlamento parallelo. Il boicottaggio delle presidenziali 2018 da parte dell’opposizione, che – insieme a decine di cancellerie nel mondo – non ne ha riconosciuto i risultati, ha creato le condizioni affinché il parlamento dichiarasse vacante la presidenza, dando il via al nuovo tentativo di cacciare Maduro.


Per far fronte a questa strategia dell’opposizione, appoggiata da oltre 50 paesi, Maduro può contare su una base politica, sociale e militare sempre più esigua. Nel 2013 egli ereditò da Hugo Chávez una coalizione composta da vari gruppi, tre dei quali in particolare sono divenuti gli elementi dominanti nel governo. Sebbene i confini tra un gruppo e l’altro appaiano sovente sfumati (alcune persone fanno parte di più gruppi), una ricognizione di queste fazioni è utile a comprendere chi comandi oggi nel Venezuela di Maduro.


Nel governo di Chávez – un ex soldato che aveva guidato il colpo di Stato fallito del febbraio 1992 – la componente militare svolgeva un ruolo importante a vari livelli: ufficiali in servizio o in congedo erano presenti nel gabinetto governativo, nonché al vertice di numerose istituzioni e imprese pubbliche. Maduro ha ulteriormente incrementato la presenza dei militari nelle posizioni di potere, cedendo alle Forze armate il controllo di grandi organismi e industrie pubbliche, specie in campo petrolifero e minerario, moltiplicando così le opportunità di corruzione. Alla fazione militare del chavismo appartiene il ministro della Difesa, generale Vladimir Padrino López (in carica dal 2014), e i generali a lui leali presenti nell’Alto comando. Tra le figure di spicco vi è anche l’ex militare Diosdado Cabello, sodale di Chávez nei colpi di Stato del 1992, considerato la seconda figura più potente dentro l’apparato chavista. Cabello presiede oggi l’Assemblea costituente nazionale, il legislativo parallelo creato dal governo in spregio alla costituzione. Altri militari attivi e in congedo occupano diverse poltrone nel governo e nel partito governativo, il Psuv (Partito socialista unito del Venezuela): 8 dei 33 ministri, 7 dei 23 governatori, 12 dei 60 direttori generali e consiglieri del Psuv.


La coalizione di Chávez comprendeva anche i suoi alleati cubani, con i quali aveva stretto forti legami e che considerava suoi amici e consiglieri. Cuba ha beneficiato enormemente dell’amicizia con Chávez e Maduro. Tra i vantaggi figurano forniture di petrolio a prezzi stracciati, che l’isola caraibica paga prestando «servizi» a Caracas. Con Maduro, il peso di Cuba nella coalizione chavista è aumentato: le sue visite all’Avana sono state frequenti e i cubani hanno esercitato una maggiore influenza sulle strategie del governo venezuelano. Quest’ultimo ha infatti «consiglieri» cubani permanenti in aree cruciali come la difesa, l’intelligence e la sicurezza, la cui presenza nelle basi militari è stata denunciata per anni da soldati dissidenti. L’aumento dell’influenza cubana è visibile nel ruolo giocato dal Fronte Francisco de Miranda (Ffm), gruppo d’ispirazione castrista-marxista fondato a Cuba nel 2003 da Chávez e Fidel Castro. Il grosso dei membri dell’Ffm, che in teoria fa parte del Psuv, è della generazione successiva a quella di Chávez, Maduro e degli altri leader storici del chavismo. Sono politici la cui carriera si è svolta interamente all’interno del regime chavista, da quando Chávez prese il potere nel 1998; dopo anni passati a scalare posizioni, oggi sono tra i gruppi dominanti nel governo. L’Ffm è strettamente vincolato ai paramilitari filogovernativi che operano al margine della legge con l’avallo esplicito dell’esecutivo.


Il terzo gruppo che più ha beneficiato di Maduro è composto da amici e familiari dello stesso.Gli incarichi governativi più importanti sono infatti ricoperti da persone vicine a lui e a sua moglie, Cilia Flores, inclusa la vicepresidenza e i ministeri coinvolti nella formulazione della politica economico-finanziaria. Altri organismi presieduti da questa cerchia ristretta sono la procura generale, la Corte costituzionale, la Corte dei conti e il Consiglio elettorale generale. L’unica istituzione pubblica non leale a Maduro è il parlamento, dichiarato «residuale» – e pertanto completamente ignorato dal governo nel momento in cui è passato all’opposizione.


CARACAS, VENEZUELA - APRIL 13: Venezuela's President Nicolas Maduro speaks with Venezuela's National Constituent Assembly (ANC) President Diosdado Cabello during a military parade to commemorate the Day of the Bolivarian Militias, the Armed People and the April Revolution at Los Proceres on April 13, 2019 in Caracas, Venezuela. Civil militia were created by Hugo Chavez in 2002 during a so-called US backed coup attempt. While accusing the US of plotting an invasion to Venezuela, Nicol·s Maduro had announced a campaign to reach the number of million armed civilian volunteers to two million. (Photo by Marco Bello/Getty Images)

Maduro e Cabello a Caracas, aprile 2019. Foto di Marco Bello/Getty Images.


2. Altri soggetti dell’èra chavista hanno avuto una sorte diversa da quella delle tre fazioni sopra descritte.


Diversi politici che hanno occupato quasi ininterrottamente per circa tre lustri incarichi governativi con Chávez sono stati rimossi da Maduro nel suo primo anno di governo. Jorge Giordani, che ha diretto la politica economica di Chávez per 11 dei suoi 13 anni al potere, ha rimesso l’incarico accusando Maduro di scarsa leadership. Héctor Navarro, che sotto Chávez ha diretto ben cinque ministeri, è stato destituito e oggi di Maduro dice che è stato il peggior errore di Chávez. Molti di questi politici avevano nell’affinità personale con Chávez la loro unica garanzia. Non avevano fatto carriera nelle Forze armate, non avevano legami con i collettivi (i gruppi paramilitari creati dal bolivarismo), non erano tra i favoriti di Cuba, non avevano preso parte ai colpi di Stato chavisti. Quando morì Chávez, venne meno la loro fortuna. Alcuni si sono convertiti in pubblici detrattori di Maduro, arrivando a formare nuovi partiti.


La transizione da Chávez a Maduro ha beneficiato dunque di tre tipologie di soggetti: quelli capaci di esercitare e controllare la violenza, cioè militari e paramilitari dei collettivi; Cuba; e i famigli della coppia Maduro-Flores. I perdenti sono quanti non avevano modo di estorcere una quota rilevante di potere mediante l’uso della violenza. Questi ultimi oggi accusano Maduro di settarismo, perché accentra il potere nelle mani dei suoi più stretti alleati a danno di molte altre figure presenti nell’originaria coalizione chavista.


Negli ultimi tre anni, i «perdenti» hanno preso a criticare Maduro e si sono convertiti in fonti importanti di dissenso e di risentimento verso il chavismo. Le voci più critiche si sono levate dal Psuv e in alcuni casi sono state arrestate. Così Miguel Rodríguez Torres, per 11 anni direttore dell’intelligence sotto Chávez e poi ministro dell’Interno con Maduro, in carcere da un anno. Al momento del suo arresto, stava approntando la sua candidatura alla presidenza. Luisa Ortega Díaz, procuratrice generale dal 2007 all’agosto 2017, è invece riuscita a fuggire in Colombia dopo essere stata destituita dall’Assemblea costituente. Durante le proteste di piazza della prima metà del 2017, aveva accusato agenti dei corpi di sicurezza di assassinare gli oppositori. Dall’esilio colombiano ha continuato ad accusare il regime di crimini contro l’umanità. Rodríguez Torres e Ortega Díaz sono solo i casi più noti. Maduro non gode della popolarità di Chávez, nemmeno all’interno del chavismo. Tra i gruppi bolivaristi più moderati serpeggia lo scontento per il settarismo del governo, per le politiche economiche e sociali e per la creazione dell’Assemblea costituente nel 2017. Persino nell’Alto comando dell’Esercito, che pure è rimasto fedele all’esecutivo, vi è forte insofferenza. Questa aumenta ulteriormente tra i ranghi medio-bassi delle Forze armate, che al pari dei civili scontano la crisi economica, l’iperinflazione, la scarsità di cibo e medicinali e il deterioramento dei servizi.


Se lo contento degli ambienti militari non si è tradotto in ammutinamento è soprattutto perché il rischio personale è altissimo. I corpi di sicurezza (i collettivi) e la propensione del governo a usare senza scrupoli la violenza contro i suoi rivali si sono convertiti nella principale forza del regime. Questo usa i paramilitari per controllare e attaccare l’opposizione e gli stessi militari: i comandanti di battaglione sono strettamente sorvegliati, le loro comunicazioni spiate; ufficiali di ogni rango sono arrestati con frequenza, al minimo sospetto. Secondo un rapporto pubblicato a gennaio da Human Rights Watch, l’intelligence arresta e tortura gli ufficiali in odore di sedizione, ma anche i loro familiari. Stando al rapporto, le torture includono «pestaggi brutali, tagli con lamette sulla pianta dei piedi, scariche elettriche, privazione del cibo e dell’accesso al bagno, minacce di morte».


Tuttavia, anche così non è possibile escludere una ribellione militare. I soldati vicini al chavismo hanno beneficiato finanziariamente del regime, pertanto hanno interesse a mantenerlo in carica, ma la situazione potrebbe rivelarsi insostenibile. La maggior preoccupazione dell’Alto comando è da sempre «evitare una rottura nella catena di comando», ovvero scongiurare la guerra civile tra fazioni dell’Esercito. Nel 2002 i militari dovettero confrontarsi con questo scenario. Mentre le massicce proteste dell’opposizione si avvicinavano al Palazzo presidenziale e i manifestanti erano bersagliati dai cecchini governativi, Chávez ordinò all’Esercito di occupare le strade e disperdere la folla. I comandanti di un’importante guarnigione militare di Caracas si rifiutarono. L’Alto comando, invece di costringerli all’obbedienza, decise che Chávez dovesse andarsene e gli chiesero di dimettersi. Se oggi la situazione si ripresentasse, è altamente improbabile che i militari deciderebbero di uccidersi tra loro per difendere Maduro. Più verosimile che quest’ultimo sia costretto alla resa.


Il problema dei militari dissidenti è il coordinamento: lo scontento non manca, ma la stretta sorveglianza rende molto difficile organizzarsi. Sebbene molti nelle Forze armate vorrebbero disfarsi di Maduro, nessun alto quadro ha sin qui preso l’iniziativa con una ribellione armata o una richiesta di dimissioni. Ma se un comandante importante si risolvesse a compiere il passo, è assai probabile che il grosso dell’Esercito lo appoggerebbe. Ribellarsi a Maduro, però, non comporta ipso factoappoggiare l’opposizione. Con ogni probabilità i militari vorrebbero un presidente di transizione che garantisca la sicurezza di quanti, tra gli ufficiali, hanno appoggiato il governo. Vari generali in servizio sono stati sanzionati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, inclusi Padrino López e gran parte dell’Alto comando, per cui va negoziata un’amnistia prima che l’opposizione possa andare al governo. La figura di transizione potrebbe essere proprio Padrino López, o un politico chavista non vicino a Maduro.


3. Il governo sa bene quanto sia volatile la situazione nelle Forze armate e non si fida di esse.  Recentemente, ha evitato il più possibile di dispiegare militari nelle strade per reprimere le proteste. Negli anni passati, il controllo dell’ordine pubblico era appannaggio della Guardia nazionale e della polizia, entrambe accusate di violazione dei diritti umani nella gestione delle proteste e sanzionate da Stati Uniti ed Europa. Ma in questi corpi di sicurezza lo scontento è alto, sicché il governo li usa con minor frequenza per timore che disobbediscano agli ordini innescando una ribellione. Il loro posto è stato preso dai collettivi e dalle Forze speciali d’azione, una polizia paramilitare creata nel 2017 al fine di «combattere il crimine e il terrorismo» e accusata di compiere esecuzioni sommarie. Negli ultimi mesi questo corpo ha agito apertamente nelle strade insieme ai collettivi, reprimendo le proteste con le armi.


Maduro è riuscito a mantenere unita la sua cerchia di potere, ma questo gruppo di fedelissimisi va assottigliando sempre più, al pari della base popolare. Il governo lo sa bene; per questo, da quando alle politiche del 2015 è andato sotto di 15 punti, si è guardato bene dal consentire lo svolgimento di elezioni libere e competitive. Da allora, peraltro, l’appoggio al chavismo è ulteriormente scemato (meno del 20% secondo i sondaggi) e difficilmente il governo replicherebbe il 40% del 2015. Insomma: permettere lo svolgimento di libere elezioni implica, per il chavismo, rinunciare al potere. La sfida di Maduro è dunque restare in sella quando il grosso del paese, Forze armate comprese, vuole che se ne vada. Malgrado le difficoltà, Maduro è riuscito a mantenere il ferreo controllo dello Stato grazie all’uso spregiudicato dei corpi di sicurezza e dei collettivi. I pochi sindaci e governatori dell’opposizione non sono in grado di agire da contrappeso al governo centrale; diversi di loro sono stati arrestati e alcuni si sono visti destituiti dal Tribunale supremo dopo «processi» di un paio d’ore. Tuttavia, il controllo dell’ordine pubblico da parte del governo è sempre più incerto. Ogni giorno sorgono proteste spontanee per l’assenza di servizi pubblici e, a differenza degli anni passati, la maggior parte di queste si verifica in zone dove l’esecutivo contava su un forte sostegno popolare.


L’opposizione tenta di trarre vantaggio dall’infima popolarità del governo e dalle fratture interne al chavismo, ma si presenta come una congerie di partiti scarsamente coesa. La crisi politica degli ultimi tre anni ha infatti frantumato la coalizione (Piattaforma di unità democratica) che sulla carta univa le numerose anime – quattro partiti principali e una dozzina di formazioni minori – antichaviste. Le divisioni tra questi soggetti vertono su due grandi temi: elezioni e negoziati. Il tema dirimente è il processo negoziale iniziato nel 2016 tra governo e opposizione. Le due parti si sono confrontate in tre occasioni su costituzione e parlamento, aiuti umanitari, libertà dei prigionieri politici ed elezioni libere alla presenza di osservatori internazionali, senza giungere a un accordo. Per alcuni partiti dell’opposizione l’unica via d’uscita dalla crisi passa per il negoziato con il governo, mentre per altri quest’ultimo non ha intenzione di rispettare i patti e usa i colloqui solo per guadagnare tempo. Oltre a dibattere sul processo negoziale, le opposizioni discutono se partecipare o meno alle elezioni. La maggioranza dei partiti d’opposizione ha preso parte al voto fino al 2017, quando il governo ha installato il «suo» parlamento parallelo. Le formazioni antigovernative non hanno partecipato all’elezione dell’Assemblea costituente perché il governo non ha indetto un referendum prima di crearla, come previsto dalla costituzione. Il giorno del voto i seggi rimasero quasi deserti, ma ciò non impedì al governo di annunciare che quasi otto milioni di persone si erano recate alle urne: un numero che supera le migliori performance di Chávez. Il Consiglio elettorale non ha mai pubblicato i risultati ufficiali. Poco dopo, alle amministrative cui parteciparono solo alcuni partiti d’opposizione, il Consiglio elettorale dichiarò vincitore un candidato chavista anche se i dati dei seggi davano per certa la vittoria dell’oppositore. Da allora il grosso dell’opposizione ha boicottato le successive elezioni, comprese le presidenziali del 2018, convocate dall’Assemblea costituente con mesi d’anticipo. In questi anni vi sono state ulteriori condotte governative che hanno spinto diversi partiti dell’opposizione a ritirarsi dalla competizione elettorale finché non siano ripristinate condizioni di libertà e pluralismo. Vari candidati sono stati interdetti dai pubblici uffici, alcuni per oltre dieci anni; altri sono impossibilitati a fare politica perché in carcere. Numerosi partiti sono stati messi fuori legge: per la precisione, 19 sui 20 che si erano presentati alle elezioni del 2015. Nel 2016, il governo ha poi frustrato il tentativo delle opposizioni di rimuoverlo per via referendaria e indire nuove elezioni, come previsto dalla costituzione.


Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali


4. I dissidi tra le opposizioni in materia di negoziati ed elezioni continuano a produrre divisione e minacciano di sabotare l’agenda di Guaidó. Il suo partito (Volontà popolare) e l’altro che lo appoggia (Primero Justicia, Giustizia innanzitutto) mirano alla rinuncia o alla rimozione di Maduro, affinché un governo di transizione designato dal parlamento convochi libere elezioni. Altri partiti d’opposizione, come Azione democratica e Un tempo nuovo, vogliono evitare qualsiasi ruolo dei militari nell’addio di Maduro; essi intendono sfruttare la debolezza del governo per negoziare lo svolgimento di elezioni libere, che le opposizioni vincerebbero facilmente. Chi si oppone a tale proposta sostiene però che il governo non tratti in buona fede e che non accetterà mai un risultato elettorale ad esso sfavorevole. Un terzo gruppo di oppositori, più piccolo degli altri due ma deciso nelle sue rivendicazioni, afferma che se l’Esercito venezuelano non prende l’iniziativa di destituire Maduro, occorre chiedere un aiuto militare esterno. Questa opzione resta invisa al grosso dell’opposizione e agli altri paesi della regione, compresi quelli – come Colombia e Brasile – che hanno appoggiato Guaidó.


Volontà popolare e Giustizia innanzitutto sono i partiti meglio introdotti negli Stati Uniti. Specie il primo, quello di Guaidó. La decisione di quest’ultimo di giurare da presidente il 23 gennaio è stata influenzata da Washington. L’opposizione aveva infatti soppesato tale opzione, ma restava indecisa. Guaidó e il suo gruppo si risolsero a procedere nella notte del 22 gennaio, dopo che un alto esponente del governo statunitense – il vicepresidente Mike Pence, secondo fonti dell’opposizione venezuelana – gli disse che poteva contare sull’appoggio degli Stati Uniti. La squadra di Guaidó è rimasta in stretto contatto con il dipartimento di Stato (l’attore chiave a Washington per quanto concerne il Venezuela), specie sulle questioni relative al patrimonio di Caracas negli Usa – come l’impresa petrolifera Citgo – e agli aiuti umanitari. L’Assemblea nazionale ha designato un rappresentante del Venezuela negli Stati Uniti – Carlos Vecchio, membro di Volontà popolare – e un rappresentante al Gruppo di Lima – Julio Borges, di Giustizia innanzitutto – che sono serviti da trait d’union tra l’opposizione e Washington. Borges, presidente dell’Assemblea nazionale nel 2017, ha svolto un ruolo cruciale nel sollecitare le sanzioni statunitensi ed europee e negli ultimi mesi del 2018 si è speso per garantire l’appoggio dell’amministrazione Trump e dei governi latinoamericani a Guaidó. Questi e il suo entourage continuano a consultare gli Stati Uniti e i loro alleati in America Latina sui loro piani ed evitano di muoversi senza l’avallo esterno, per evitare di annunciare azioni che poi non possono eseguire. Ad esempio, ultimamente Guaidó ha abbandonato i toni bellicosi, sapendoli sgraditi agli Usa e agli altri governi della regione. Nei vari incontri si sono registrate divergenze tra l’opposizione e gli emissari statunitensi, specie sulla nomina dei nuovi dirigenti di Citgo (Washington preferiva che nel nuovo consiglio d’amministrazione sedesse un manager statunitense, mentre l’opposizione ha designato un cda di soli venezuelani).


Le divisioni nell’opposizione sono anche il risultato di un’offensiva del governo condottamediante gli apparati di sicurezza e di intelligence, che hanno arrestato, colpito e spinto all’esilio numerosi politici. A essere attaccati con più forza sono stati quelli che non vogliono negoziare o partecipare alle elezioni (principalmente Volontà popolare e Giustizia innanzitutto); viceversa, ai partiti più concilianti (Azione democratica e Un tempo nuovo) è lasciata relativa libertà d’azione. Il leader di Volontà popolare, Leopoldo López, è stato arrestato nel 2013 e attualmente sconta una condanna a 13 anni di reclusione, mentre Julio Borges, leader di Giustizia innanzitutto, vive esiliato in Colombia da un anno. Questi trattamenti differenziati seminano il sospetto tra le opposizioni. Le faide interne all’opposizione ne hanno minato l’immagine presso la popolazione, sebbene il governo resti senza dubbio il più impopolare. Gli oppositori più noti scontano i ripetuti fallimenti, negli ultimi anni, dei tentativi di cacciare Maduro, ma anche la sfiducia della base verso quanti insistono per negoziare con il governo.


Guaidó, che fino a gennaio era poco conosciuto anche in Venezuela, gode ancora di un vasto favore, pari al 60% degli elettori secondo recenti sondaggi. Tuttavia, dopo anni di delusioni la pazienza dei sostenitori appare agli sgoccioli. Se tra qualche mese l’opposizione non si sarà ancora disfatta di Maduro e insisterà nei negoziati, Guaidó potrebbe cadere in disgrazia come i suoi predecessori.


5. Per l’opposizione, la principale sfida consiste nel trarre vantaggio dalla scarsa popolarità dell’esecutivo, tra i civili come tra i militari. Dopo quasi sei anni di governo e cinque di recessione, il grosso della popolazione non crede che Maduro possa offrire soluzioni. Il regime dà la colpa della crisi alla «guerra economica» ingaggiata da paesi nemici, opposizione e settore privato, ma pochi credono a questa scusa. Secondo un sondaggio realizzato da Datanálisis, solo il 4% della popolazione ritiene che sia in atto una «guerra economica», circa il 70% incolpa Maduro e il suo governo per la recessione e il 97% vede la situazione del paese grave o molto grave.


Con un’opposizione che invita l’esercito a ribellarsi e un governo determinato a resistere, vi è il rischio che la situazione sfoci in guerra civile. Nelle condizioni attuali, però, un simile conflitto non vedrebbe opposti governo e opposizione, bensì parti della coalizione chavista. Esistono solo due gruppi armati nel paese: l’esercito da un lato, i collettivi e i corpi paramilitari dall’altro. Oggi questi due schieramenti condividono i medesimi interessi, ma in futuro potrebbe non essere così. Se Maduro venisse deposto dalle Forze armate, è molto probabile che i paramilitari imbraccino le armi per difendere il regime e attaccare un eventuale governo d’opposizione. Ciò potrebbe scatenare una guerra civile tra esercito e paramilitari. Un terzo gruppo che potrebbe appoggiare il chavismo è l’Esercito di liberazione nazionale colombiano, il gruppo guerrigliero marxista presente nel Sud del Venezuela, dove estrae illegalmente minerali con la compiacenza di Caracas.


Maduro e altri dirigenti chavisti sono stati piuttosto espliciti sul ruolo che i collettivi giocherebbero in caso di golpe, a difesa del governo. In un recente discorso televisivo, Maduro ha esortato i collettivi alla «resistenza attiva». Questi gruppi armati hanno le loro basi in quartieri poveri e densamente popolati (dove in genere vivono i loro membri), il che rende difficile combatterli senza mettere a repentaglio la vita di migliaia di civili. I capi sono stati addestrati all’azione paramilitare e alla guerriglia a Cuba e posseggono fucili di grande calibro, esplosivi e armi da guerra. L’opposizione non ha gruppi armati e sinora nessuno dei suoi esponenti ha sollecitato la creazione di formazioni paramilitari. Negli ultimi mesi del 2017, un piccolo gruppo di civili e militari dissidenti capeggiato dal poliziotto Oscar Pérez (senza legami apparenti con l’opposizione) ha attaccato dei depositi della Guardia nazionale rubando armi e minacciando il governo in alcuni video. Il gruppo è stato sterminato a gennaio 2018 nel suo covo. Ad agosto, un altro piccolo gruppo ha fatto detonare esplosivi portati da un drone vicino a un palco su cui stava parlando Maduro; i suoi membri sono stati arrestati poco dopo. Questi sono gli unici due casi accertati di attacchi armati al governo. Maduro ha additato come mandanti le opposizioni, ma non ha addotto prove credibili.


Nell’ipotetica guerra civile tra militari e chavismo, quest’ultimo potrebbe ricevere aiuto da Cuba. Anche Russia e Cina hanno forti interessi economici (il Venezuela deve loro miliardi di dollari ed entrambe detengono quote di Pdvsa, la compagnia petrolifera venezuelana), ma appoggiare militarmente il chavismo potrebbe risultar loro difficile. A metà marzo Mosca ha inviato centinaia di militari in Venezuela, ma la maggior parte era personale tecnico trattenutosi alcuni giorni per fare manutenzione ai sistemi d’arma russi acquistati da Caracas anni fa. Tale visita è stata una pubblica attestazione di appoggio politico, non l’esordio di una presenza militare fissa. Il caso di Russia e Cina illustra una delle principali debolezze di Maduro: quanti oggi lo appoggiano potrebbero decidere che l’opzione migliore sia farlo cadere e concordare con l’opposizione la tutela dei loro interessi. Ciò potrebbe avvenire anche all’interno dell’alleanza chavista e delle Forze armate. Secondo recenti notizie di stampa, esponenti del chavismo desiderosi di prendere le distanze da Maduro hanno proposto a Bruxelles di propiziare un esito elettorale alla crisi. Una soluzione negoziata – che per essere accettata dall’opposizione deve contemplare l’uscita di scena di Maduro – permetterebbe al resto del chavismo di sopravvivere politicamente e alle Forze armate di evitare una guerra fratricida.


In caso di ulteriore peggioramento della situazione socioeconomica, il rischio principale per Maduro non viene dunque dall’opposizione o dagli Stati Uniti, ma dalla sua stessa coalizione.

(traduzione di Fabrizio Maronta)


Carta di Laura Canali - 2019

Carta di Laura Canali – 2019

 

 

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