LIMES ONLINE DEL 24 MAGGIO 2019, I FATTI SALIENTI DELLA SETTIMANA :: Huawei, Modi, Ucraina, Il Piano di pace di Trump per Israele e Palestina, a fine giugno in Bahrein, Venezuela: incontro degli emissari in Norvegia–

 

limes online del 24 maggio 2019

http://www.limesonline.com/notizie-mondo-settimana-huawei-cina-usa-ucraina-venezuela-india/112710

 

Huawei, Modi, Ucraina: il mondo questa settimana

20190524-MAPPA

Carta di Laura Canali.

Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni.

con commenti di Pietro Figuera, Federico PetroniFrancesca MarinoLorenzo TrombettaNiccolò Locatelli


Colonna sonora consigliata per questo articolo: Under the Red Sky – Bob

Dylan

 

 


ASSEDIO A HUAWEI [di Federico Petroni]

In settimana lo strangolamento di Huawei da parte dell’amministrazione Trump ha iniziato a produrre i primi effetti concreti. Molte importanti aziende statunitensi, britanniche e giapponesi (fra cui Google, Intel, Qualcomm, Panasonic, Toshiba, Arm) hanno sospeso in toto o in parte le forniture di software, componentistica e licenze al colosso digitale cinese o smesso di venderne gli apparecchi per ottemperare ai divieti emessi la scorsa settimana da Washington.

La compagnia interessata abbozza, ma il colpo è durissimo. In particolare quello della licenza di Arm. Se Huawei non può installare il sistema operativo Android sui suoi telefoni, sostituirlo non è una tragedia. Lo è molto di più non poter impiegare il progetto dei chip dell’azienda britannica controllata dalla giapponese SoftBank. Ciò comporta inventarne uno nuovo, una sfida per la quale l’industria tecnologica cinese probabilmente non è prontissima. Motivo per cui mercoledì il presidente Xi Jinping ha preparato a una nuova Lunga marcia, dopo quella di Mao, con tutte le sue difficoltà.

Evidenti gli obiettivi statunitensi. Dimostrare di poter mettere fuori mercato Huawei. Diffondere fra gli alleati l’idea che sia un’autentica minaccia alla sicurezza nazionale. Impartire a Pechino una lezione esemplare su fin dove può arrivare la rabbia americana. Ottenere contropartite in campo commerciale. Bloccare gli ingranaggi dell’arricchimento della Repubblica Popolare. Per palesarne le incongruenze interne.

Washington deve però giungere al risultato con una certa rapidità. Prima che di questo boicottaggio profitti la stessa Cina, accelerando lo sviluppo interno di tecnologie alternative. Ottenendo a quel punto l’effetto contrario a quello sperato dalla Casa Bianca. Per allentare la morsa americana, Pechino dispone di una carta piuttosto preziosa: la dipendenza degli Usa dalle terre rare, di cui la Repubblica Popolare è quasi monopolista (90% della produzione mondiale).


LA VITTORIA DI MODI [da un articolo di Francesca Marino di prossima pubblicazione]

Dati alla mano, alle elezioni in India, Narendra Modi, più che il grande divisore, si è rivelato a sorpresa il grande unificatore. I numeri, anzitutto: la coalizione che sosteneva il primo ministro uscente guadagna 352 seggi su 543 disponibili. Il Bjp da solo, il partito del premier, ottiene 303 seggi. Contro i 52 del principale partito di opposizione, il Congress che fu di Nehru e di Indira Gandhi, e i 92 della coalizione da questo sostenuta. Altri 97 seggi vanno a partiti minori.

Il che significa, in parole povere, che a votare per Modi sono state non soltanto le popolazioni della cosiddetta hindi belt affascinate dall’Hindutva e dalla supremazia hindu, ma anche quelle categorie religiose ed etniche che, ragionando su queste basi, avrebbero dovuto naturalmente votare per il Congress liberale e secolare: musulmani, caste e classi svantaggiate.

Modi, inoltre, ha messo l’India al centro della scena internazionale e le ha ridato orgoglio nazionale. Il bombardamento del campo pakistano di Balakot ha chiarito una volta per tutte che la più grande democrazia del mondo ha smesso di porgere metaforicamente l’altra guancia e di giocare al gioco dell’Occidente e del Pakistan, che agitano lo spettro di una guerra nucleare ogni volta che i terroristi la colpiscono. E il fatto che nessuno, né gli americani né i britannici, dopo l’attacco di Pulwama abbia provato a fermare Modi, per la maggioranza dell’India è motivo di orgoglio. Così come i rapporti stretti con Washington e con l’Iran, così come il porto di Chabahar e il rifiuto di piegare la testa di fronte alle nuove vie della seta cinesi.

Un’India forte al centro dell’arena geopolitica è essenziale per il complicato gioco di scacchi in corso al momento tra Cina, Russia e Stati Uniti tra Afghanistan, Iran e repubbliche centro asiatiche. Modi ha stabilito o ristabilito buoni rapporti con tutti i giocatori necessari alla politica estera di Delhi che, per la prima volta da anni, è percepita come indiana e non al traino dell’Occidente.


SETTIMANA TURBOLENTA PER ZELENSKIJ [di Pietro Figuera]

Un avvio ricco di colpi di scena. La prima settimana del neopresidente dell’Ucraina non è di certo passata nell’anonimato.

Il giorno stesso del suo insediamento, Zelenskij ha deciso di sciogliere la Verkhovna Rada, il parlamento di Kiev. Gesto forte ma in qualche modo necessario: da qui al prossimo autunno, ovvero alla scadenza della legislatura, Zelenskij avrebbe avuto le mani legate senza una propria maggioranza. Anticipando le elezioni al 21 luglio, l’ex comico cercherà di sfruttare l’onda lunga del suo successo elettorale, il più ampio della storia delle presidenziali ucraine.

Dovrà però stare attento agli umori dell’elettorato, che di certo non avrà gradito i suoi primi provvedimenti: tra di essi, le nomine ai vertici amministrativi, in linea con lo spoil system già ampiamente (ab)usato dai predecessori, ma in contrasto con la campagna contro corruzione e nepotismo che l’ha aiutato a vincere. Mosse in realtà in parte obbligate, data la sovranità limitata di cui dispone il neopresidente. È ormai noto infatti quanto egli sia espressione dell’oligarca Kolomoiskij, appena rientrato dall’esilio israeliano e già attivo, a quanto sembra, per ristabilire un certo ordine di cose. Difficile pensare che giunga del tutto casuale la notizia delle indagini avviate dalla procura generale su Petro Poroshenko. L’ex presidente è sospettato di alto tradimento in merito ai controversi fatti dello Stretto di Kerch del dicembre scorso, e mercoledì ha ricevuto ulteriori nuove accuse.

Nel frattempo, sul fronte dei rapporti con la Russia, Zelenskij continua a mandare segnali contrastanti. Da una parte, in linea con gli orientamenti di Kolomoiskij,  chiede agli americani un inasprimento delle sanzioni ai danni di Mosca, ribadendo che “l’Ucraina è il miglior amico di Washington”; dall’altra apre a una trattativa coi russi e alla possibilità di un referendum interno sui nuovi accordi da stringere con essi. Gesto opportunistico e privo di ratio strategica, se non quella di attenuare le polemiche interne e mantenere una certa immagine di trasversalità e volontà di cambiare le cose, entrambe necessarie per le prossime elezioni.


IL PIANO DI PACE DI TRUMP PER LA PALESTINA [di Lorenzo Trombetta]

A fine giugno si terrà in Bahrein una conferenza internazionale durante la quale Jared Kushner, genero e consigliere speciale del presidente Donald Trump, presenterà gli aspetti economici del tanto atteso “piano di pace” per la questione israelo-palestinese.

Nessun dettaglio sul contenuto è stato finora reso noto. Ma in base a quanto trapelato, l’incontro di giugno sarà un’occasione per raccogliere denaro da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e dallo stesso Bahrein. Fondi complementari alla formalizzazione – favorevole allo Stato ebraico da un punto di vista diplomatico – della questione. Da tempo, i paesi arabi del Golfo vicini agli Usa hanno aperto direttamente o indirettamente a Israele. E sono pronti a spendere risorse in cambio di influenza e di sostegno delle loro politiche interne e nella guerra (fredda o calda) col vicino rivale iraniano.

Israele dal canto suo intende allargare il suo controllo formale sui territori in Cisgiordania. Al tempo stesso, ha bisogno che la questione di Gaza venga risolta nel medio termine. Per far questo, servono tanti soldi. Ma sulla strada lastricata di petrodollari ci sono alcuni importanti ostacoli.

Continua a leggere l’articolo


IMPASSE IN VENEZUELA [di Niccolò Locatelli]

Dopo il fallito rovesciamento di Nicolás Maduro il 30 aprile, non è stata ancora rotta l’impasse in Venezuela.
L’opzione militare non è percorribile: le Forze armate nazionale sono rimaste fedeli al presidente chavista, quelle statunitensi non pensano di intervenire. Il Senato degli Stati Uniti – compreso Marco Rubio – punta su un’offensiva diplomatica, non armata.
L’opzione politica passa per trattative su più tavoli dei quali il regime ha mostrato in questi anni di sapersi egregiamente servire per guadagnare tempo. In Norvegia i rappresentanti delle opposizioni – riunite nel sostegno all’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidó – e quelli del regime si sono incontrati solo con i mediatori, non ancora tra di loro. A Caracas Maduro ha accolto gli emissari del Gruppo internazionale di contatto ricordando loro che dispone di due milioni di miliziani pronti a difendere il Venezuela da un’invasione, per poi dirsi disponibile a elezioni anticipate – del parlamento, ossia dell’unico organo rimasto fuori dal controllo del chavismo.
Per ora, il regime può ammettere tranquillamente di non avere alcuna fretta di arrestare Guaidó.


Iscriviti gratuitamente alla newsletter de Il mondo oggi

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *