ANTONIO GNOLI INTERVISTA ROMANO MADERA–REPUBBLICA 13 MAGGIO 2019

 

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Romano Màdera

di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli

 

Si può dire che ogni vita è un campo di battaglia: «Se alla fine ne ho avute più d’una è chiara l’opportunità che mi è stata data di rinascere. E allora viene in mente una vecchia frase. Non sento il rumore della pioggia, disse l’allievo. Devi averla udita in un’altra vita, gli rispose il maestro. Ora quel che senti è che stai nuovamente cambiando». Anche nelle tre o quattro vite di Romano Màdera si avverte il cambiamento. Dal suo racconto affiora il combattente interiore che nel curare le proprie ferite ha imparato ad affrontare quelle degli altri. Ci sono dunque storie che per trapassare devono essere smentite dalle durezze della vita. Storie alle quali non daremmo particolare credito se non fossero il frutto di una rinuncia piuttosto che di una conquista, di un sacrificio che non la mera affermazione incisiva e squillante di una vittoria. E poi: quale vittoria è mai così eclatante ed esaustiva da apparirci definitiva? La testa di Màdera, gli occhi di Màdera, perfino la bocca e le mani di Màdera sembrano concentrarsi in un punto invisibile tra me e il piccolo vuoto della stanza che ci ricomprende. Nella grigia penombra di un tardo pomeriggio milanese le parole di Màdera sembra vogliano riscattare l’atmosfera soffocante del piccolo studio. Noto un armadio, un divano, una poltrona, un tavolo, un abat-jour acceso e una sabbiera con la quale egli esercita il ruolo di analista junghiano. La sabbia, penso, come specchio di creatività e infelicità altrui, è una tecnica che Màdera ha appreso alla scuola di Paolo Aite: «Sono stato in analisi con Aite nel momento forse mentalmente più eccitante e tragico per me. Avevo scoperto Jung e poi Bernhard intuendo, come un naufrago, che una zattera mi avrebbe trascinato su qualche lembo di terra ferma».

La sua crisi a quando risale?

«Forse al 1976 o 1977. Insegnavo in una scuola tecnica. Italiano e storia. Nel programma La Divina Commedia. Nell’aula gli studenti si nascondevano sotto i banchi o dietro le colonne. Cominciai: “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”. Sentii un intruso tuffarsi nella mia testa, gli schizzi si riverberavano nelle parole che pronunciavo, in quello che vedevo. Crebbe lo smarrimento. Dove ero? Chi avevo davanti? Non lo sapevo più. In termini tecnici potrei definirla una crisi di panico. Mi avviai lentamente verso l’uscita. Le voci, prima distinte, divennero un brusio. Lì in quel momento ebbi la nettissima sensazione che qualcosa stava morendo; che un periodo della mia vita se ne stava andando. Non avevo soldi per fare un’analisi. Pensai che la sola terapia a disposizione fosse la scrittura. Mentre moriva una parte di me, stava nascendo il primo libro».

Un libro che è stato appena ripubblicato da Mimesis: “Sconfitta e utopia”. Chi era lo sconfitto?

«C’era un lato personale in quella sconfitta, per tutto quello che avevo fatto e per ciò in cui avevo creduto. Scrissi il libro in gran furia e fu un modo di fare i conti con la grande ignoranza giovanile che aveva funestato il Sessantotto. Nella lettura che diedi di Marx scoprii qualcosa di interessante».

Cosa esattamente?

« La sua teoria del capitalismo impediva qualunque uscita da quelle regole economiche. Può sembrare paradossale, ma se si esamina seriamente il suo pensiero ci si accorge che non c’è spazio per la rivoluzione, non c’è nessuno spazio per quel mito che noi ragazzi

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