ROBERTO COVAZ, NATO A MONFALCONE (1962), 20 ANNI A GORIZIA A ” IL PICCOLO “… ” LA DOMENICA DELLE SCOPE “, 13 AGOSTO 1950 — + ” GORIZIA CAPOVOLTA ” DI ELISABETTA DE DOMINIS, IL PICCOLO, 9 MAGGIO 2018

 

 

 

La Domenica delle scope. Gorizia, 13 agosto 1950

Roberto Covaz

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Editore:LEG Edizioni
Edizione: 3
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 10 agosto 2018
Pagine: 101 p., Brossura
euro 10 prezzo pieno

A ridosso dell’impenetrabile confine tra Gorizia e la neonata Nova Gorica, domenica 13 agosto 1950, accade un evento straordinario. A migliaia, i goriziani rimasti in Jugoslavia dopo il 17 settembre 1947 superano il confine per tornare ad abbracciare amici, parenti e fidanzate, incuranti dei fucili dei soldati jugoslavi, i “graniciari”, ferrei controllori della frontiera tra l’Occidente democratico e la repubblica di Tito, avamposto dell’Est europeo. Durante la loro permanenza a Gorizia, questi suoi ex cittadini si disperdono nei caffè, nelle osterie e nei negozi, rimasti aperti nell’imminenza del Ferragosto. È una giornata di festa interminabile, vissuta all’insegna dell’eccesso e degli acquisti. Gli empori vengono letteralmente vuotati perché al di là della frontiera, in una Nova Gorica ancora in fase di costruzione e nei paesi limitrofi, c’è poco o nulla da comprare. Nemmeno una semplice scopa di saggina, l’articolo che più di tutti verrà acquistato fino a divenire il simbolo di quel memorabile giorno. In questo libro lo sguardo partecipe di Roberto Covaz si posa con leggerezza su una molteplicità di personaggi e vicende, ora curiose ora amare, che compongono un racconto-mosaico in grado di condurci all’essenza dell’idea di confine.

 

 

IL PICCOLO / TRIESTE / 21 APRILE 2012 

https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2012/04/21/news/e-la-gente-spazzo-via-il-muro-di-gorizia-per-un-giorno-nel-1950-1.4398814

 

 

E la gente spazzò via il Muro di Gorizia per un giorno nel 1950

Nel libro “La Domenica delle scope” Roberto Covaz rievoca l’episodio che cambiò i rapporti tra Italia e Jugoslavia

 

TRIESTE.

 

Esce in libreria “La domenica delle scope” dello scrittore e giornalista del “Piccolo” Roberto Covaz (foto), edito dalla Leg (pagg. 101, euro 14,00), che sarà presentato il 20 maggio nell’ambito del festival è Storia, alle 10.30, nella Tenda Apih, in un incontro con l’autore e i giornalisti Giulio Giustiniani e Giorgio Del’Arti.

 

Anticipiamo un brano dell’introduzione al libro di Roberto Covaz.

Domenica 13 agosto 1950 a ridosso dell’impenetrabile confine tra Gorizia e la neonata Nova Gorica accade un evento straordinario. A migliaia, i goriziani rimasti in Jugoslavia dopo il 17 settembre 1947 abbattono il confine per tornare ad abbracciare amici, parenti e fidanzate, incuranti dei fucili dei soldati jugoslavi, i graniciari, implacabili controllori della frontiera tra l’Occidente democratico e la repubblica di Tito, avamposto dell’Est europeo. Durante la loro permanenza a Gorizia, gli jugoslavi si disperdono nei caffé cittadini, nelle osterie e nei negozi, rimasti aperti vista l’imminenza del Ferragosto. È una giornata di festa, di acquisti, di eccessi. Gli empori vengono letteralmente vuotati perché al di là della frontiera, in una Nova Gorica ancora in fase di costruzione e nei paesi limitrofi, non ci sono botteghe e c’è poco o nulla da comprare. Nemmeno una modesta e semplice scopa di saggina, l’articolo che più di tutti viene acquistato in quel memorabile giorno a Gorizia. In questo libro si narra di quella domenica, restituendo la Gorizia più autentica di una interminabile giornata dell’agosto del 1950 attraverso vicende, personaggi e curiosità capaci di riflettere il fascino e la complessità storica di questa intrigante città. L’“appuntamento” era stato fissato per domenica 6 agosto. L’avevano deciso le autorità italiane e jugoslave. Altri “appuntamenti”, clandestini però, c’erano stati nei giorni precedenti ma i partecipanti, in quelle occasioni, avevano corso il rischio di prendersi in mezzo alla fronte una pallottola sparata dai graniciari, i militari jugoslavi che sorvegliavano la frontiera. Non pareva vero a tanti goriziani di potersi avvicinare, senza correre rischi, al reticolato e ai cavalli di frisia posti al confine tra Gorizia e Nova Gorica, ovvero tra l’Occidente democratico e la Jugoslavia, avamposto del socialismo reale. Non un semplice confine, ma un baratro di cui non si vedeva la fine. La cortina di ferro era stato battezzato. Anche Gregorio aveva sentito parlare dell’“appuntamento”. Del resto non si parlava d’altro in quei giorni. I suoi alunni erano tutti eccitati dalla prospettiva di poter incontrare quella domenica i nonni, gli zii, i cuginetti e gli amici rimasti dall’altra parte del confine. Gregorio era un maestro elementare e insegnava a Savogna. In quell’agosto del 1950 aveva organizzato una sorta di colonia. Aveva chiamato a raccolta i suoi ragazzi che volentieri trascorrevano l’estate accanto al loro maestro, buono e dallo sguardo immalinconito. A trent’anni suonati, Gregorio non era sposato, non aveva figli e nemmeno la fidanzata. O, meglio, la fidanzata ce l’aveva, ma pure quella era rimasta di là. Il maestro, sei anni prima, era giunto a Gorizia dalla sua terra d’origine, l’Abruzzo. Che il regime fascista declinava al plurale, gli Abruzzi, per la solita mania di grandezza imperiale. Forse per lo stesso motivo le regioni del Nordest venivano indicate come Venezia Euganea, Venezia Tridentina e Venezia Giulia. Slogan più che nomi. Proprio nella Venezia Giulia il neo-maestro aveva trovato lavoro. Il regime agevolava l’invio di insegnanti da tutte le parti d’Italia in queste terre di confine. Meglio se provenivano dal Meridione. Il loro compito era di italianizzarle, come si diceva allora. Semplicemente, si voleva cancellare ogni elemento non italiano. Così, decine e decine di maestri avevano trovato una cattedra nei paesi della valle del Vipacco, nell’alta valle dell’Isonzo, territori allora in provincia di Gorizia e dove la componente slovena, e di conseguenza la lingua, era maggioritaria da sempre. Senza costituire una minaccia per nessuno. Anzi, era un arricchimento la commistione di tante culture e tradizioni: l’italiana, la slovena, la tedesca e la friulana. L’impero austro-ungarico l’aveva ben compreso e aveva governato a lungo e senza tanti problemi. I maestri italiani, come li avevano astiosamente battezzati le popolazioni slovene, erano stati incentivati ad accettare destinazioni lontane con l’attribuzione gratuita da parte dello Stato di un anno di contribuzione ogni cinque effettivamente svolti. Sarebbero andati in pensione molto prima degli altri colleghi. Quando giunse a destinazione, il maestrino Gregorio ignorava ovviamente dove si trovasse esattamente Savogna. Era il settembre del 1944 e, nonostante il tepore estivo, aveva avvertito un’accoglienza molto fredda. C’era la guerra e, come non bastasse quella già immane tragedia, italiani e sloveni del Goriziano si erano incamminati lungo la strada dell’inimicizia che avrebbe causato, nel dopoguerra, più lacerazioni e lutti che non nel periodo bellico.

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Roberto Covaz

 

Roberto Covaz è nato nel 1962 a Monfalcone dove risiede. Giornalista, è responsabile della redazione di Gorizia-Monfalcone de Il Piccolo. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni.  Per Libreria editrice goriziana ha pubblicato “Gorizia nella Grande guerra” (2014) e “La domenica delle scope” (2012). Tra gli altri lavori da segnalare “Gorizia-Nova Gorica, niente da dichiarare” (2007), “Le abbiamo fatte noi. Storia del cantiere e dei cantierini di Monfalcone” (2008), “I pescatori di Grado” (2009), “Memorie di Silvino Poletto, il partigiano Benvenuto” (2010), “Amianto, i polmoni dei cantierini di Monfalcone” (2013) editi da Edizioni Biblioteca dell’Immagine. In proprio ha pubblicato “La rosa di Gorizia, storia del radicchio goriziano”.

https://www.pordenonelegge.it/

 

Gorizia capovolta

Roberto Covaz

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Illustratore:Federica Moro
Anno edizione: 2018
In commercio dal: 2 maggio 2018
Pagine: 176 p., ill.
13 euro, prezzo pieno

La città di frontiera, la Nizza austriaca, il salotto dell’Impero: tante definizioni hanno accompagnato Gorizia fino ai giorni nostri, ma nessuno ha ancora compreso quale possa essere il ruolo e il destino di questa città, spesso ferita dalla Storia, ma sempre ricchissima di fascino. Il rapporto tra sloveni e italiani, tra Nova Gorica e la città, tra la Prima guerra mondiale e il ruolo mitteleuropeo, tra occasioni mancate e ferite ancora aperte: una città sempre in bilico, in perenne contraddizione dove spesso sono i morti sepolti nel cimitero a raccontarci come sono effettivamente andate le cose.

IL PICCOLO —  9 MAGGIO 2018

https://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2018/05/08/news/gorizia-capovolta-con-rimpianto-1.16811100

 

 

 

Gorizia capovolta con rimpianto

Il racconto della città firmato da Roberto Covaz

 

Come una donna non amata abbastanza, Gorizia vive nascostamente. Ripiegata su un cuore che fa fatica a battere e indifferente alla bellezza che potrebbe palesare. Sa cos’è stata, ma non cos’è. Quasi che, avendo un passato glorioso, creda di non dover dimostrare di avere un presente. Eppure se non mostri cosa sei, non sei.

Nel libro “Gorizia capovolta” che esce domani (Bottega Errante Edizioni, pagg. 175, euro 13,00), con amore rabbioso il giornalistae narratore Roberto Covaz scuote e capovolge Gorizia come fosse «una di quelle sfere di vetro con la neve finta» nella speranza di rivitalizzarla. È una città «indecisa se essere europea, italiana, internazionale e che intanto è diventata una delle tante periferie di Kabul ospitando centinaia di richiedenti asilo».

Roberto Covaz ha vissuto vent’anni a Gorizia, come responsabile della redazione de Il Piccolo, e l’ha osservata, studiata, raccontata. Se n’è andato con il rimpianto di non averla vista crescere, superare un passato certamente lacerante, però così cosmopolita che avrebbe potuto farla guardare lontano. Oltre quel muro che invece «ha oscurato parte del suo orizzonte».

Nonostante il Castello imponente, la simbolica stazione Transalpina, l’antichissima sinagoga, l’azzurro Isonzo, il fiorito giardino Viatori, i parchi lussureggianti e i tanti sontuosi palazzi, che scandiscono la sua storia dal 1300 in poi, «è una città in perenne ricerca di vocazione». Perché nulla di tutto questo è davvero vissuto da chi la abita. Simile a una Jolanda e un Emilio ai quali non interessa conoscere la storia della propria città, ma solo festeggiare un Natale dopo l’altro con un pranzo abbondante accompagnato da un buon vino del Collio.

Covaz non le manda a dire ai goriziani e si toglie più di un sassolino dalla scarpa. Ne ha tirati su molti di sassolini percorrendo i viali del camposanto nella disperata ricerca di capire la città attraverso i cognomi sulle lapidi, che dimostrano «come in questa terra i confini siano cose da uomini in carne e ossa».

Lo scrittore scopre che Jolanda Pisani è stata una delle prime giornaliste goriziane ed Emilio Cravos un fruttivendolo sempliciotto: non hanno condiviso la vita reale bensì quella ideale di Gorizia morendo per l’italianità.

Contea vasta e potente fino al 1500, Gorizia poi è divenuta parte dell’impero asburgico ritagliandosi il ruolo di bella e mite cittadina dell’impero dove svernare. Un giorno non si è accontentata più di questa posizione subalterna e, con la nascita del regno d’Italia, parte del suo cuore ha cominciato a battere per l’identità italiana. I motivi sono molteplici e complessi, ma è l’inizio della conflittualità tra sloveni e italiani.

Gorizia per un secolo si troverà a fare i conti anche con le sue altre identità: tedesca, austriaca, ebraica. Alla fine della seconda guerra mondiale quel muro che ha diviso persino il cimitero di Merna a metà, separando le teste dai corpi dei morti, ha in verità separato le anime e i corpi dei vivi. Che si sentono tuttora un po’ di qua e un po’ di là e da nessuna parte, accorgendosi solo dopo mezzo millennio di non essere più «al centro del mondo», semmai ai margini dell’Italia. E la scritta “Tito” incombe sempre dal crinale sopra Salcano, frazione di Nova Gorica, il che non trasmette un messaggio di distensione.

Dieci anni dopo l’entrata della Slovenia in Europa – conclude Covaz – si stenta ancora a individuare i benefici della caduta del confine. Non c’è traccia della piena riappacificazione né della condivisione della memoria. Una speranza riposta nei giovani, i quali purtroppo non l’hanno ancora raccolta.

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3 risposte a ROBERTO COVAZ, NATO A MONFALCONE (1962), 20 ANNI A GORIZIA A ” IL PICCOLO “… ” LA DOMENICA DELLE SCOPE “, 13 AGOSTO 1950 — + ” GORIZIA CAPOVOLTA ” DI ELISABETTA DE DOMINIS, IL PICCOLO, 9 MAGGIO 2018

  1. Donatella scrive:

    Affascinante il ritratto di questa città, di cui si ignora, in genere, quasi tutto, tranne la canzone “O Gorizia tu sei maledetta!”, il che non è una bella presentazione!

  2. Donatella scrive:

    Affascinante il ritratto di questa città, di cui si ignora, in genere, quasi tutto, tranne la canzone “O Gorizia tu sei maledetta!”, il che non è una bella presentazione!
    A proposito di storia e di arte, ieri ho visto un film di Andrzej Wajda, “Il ritratto negato”, dedicato al pittore polacco Wladyslaw Strzeminski. Si tratta dell’ultimo film del grande regista polacco,completato poco prima di morire nel 2016, a 90 anni. Nella Polonia del secondo dopoguerra il famoso pittore Wlladyslaw Strzeminski, grande artista e coautore della teoria dell’Unismo, insegna all’Accademia delle Belle Arti di Lodz, che ha contribuito a fondare. I suoi studenti vedono in lui ” il messia della pittura moderna”. Siamo in pieno stalinismo e il pittore, che non vuole compromettere la sua arte, si rifiuta di obbedire ai canoni del realismo socialista. Sarà licenziato e inizia per lui un vero calvario. Pur adattandosi a lavori umili, viene mano a mano licenziato dappertutto, perseguitato dall’onnipotente Partito Comunista. Cade in estrema povertà e malattia, mentre la figlia, quasi adolescente, viene accettata all’orfanatrofio. Soccorso in mezzo alla strada e portato in ospedale, troverà ancora la forza di andare a deporre un mazzo di fiori blu sulla tomba della moglie ( blu era il colore degli occhi della donna). Questa tragica vicenda è narrata senza enfasi, con estrema semplicità di mezzi. Prevalgono i colori grigi di una Polonia sottomessa ad una dittatura che, per molti aspetti e per il modo con cui si impadronisce delle anime, ricorda quella precedente nazista. Il grigiore dell’atmosfera polacca contrasta con i bei quadri astratti dell’artista, molti dei quali vengono distrutti. Wajda considera Strzeminski ” uno degli artisti polacchi di maggior talento” e un eroe della libertà del pensiero e dell’arte. Il film esprime con semplicità e realismo il guasto che le dittature fanno all’anima di un popolo e la tortura che impongono alle poche, eroiche persone che non possono rinunciare alla propria libertà di pensiero.

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