LIMES ONLINE n. 2 –2008 :: IL CILE È VICINO — UN PO’ DI STORIA DEL CILE — FONDAMENTALE — MA NON ARRIVA AI NOSTRI GIORNI

LIMES ONLINE n. 2 –2008

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IL CILE È VICINO

Pubblicato in: KOSOVO, NON SOLO BALCANI – n°2 – 2008
Augusto Pinochet (sinistra) con Salvador Allende il 23 Agosto1973 a Santiago. (Foto di: /AFP/Getty Images)

Augusto Pinochet (sinistra) con Salvador Allende il 23 Agosto1973  a Santiago. (Foto di: /AFP/Getty Images)

 

Un percorso in sei tappe nel «paese più europeo» dell’America Latina, alla ricerca delle radici della sua democrazia, del suo sviluppo e della sua integrazione nella regione. Gli storici legami con l’Italia e il peso del passato.

di Maria Rosaria STABILI

La rifondazione del Cile


1. «La transizione politica è finalmente conclusa e oggi entriamo nel nuovo millennio»; «Comincia un tempo nuovo»; «Abbiamo ormai chiuso con l’autoritarismo»; «Somos todas presidentas». Così parlavano le giovani donne che il 15 gennaio 2006 sfilavano allegramente per le strade di Santiago per festeggiare la vittoria elettorale di Michelle Bachelet, prima donna presidente della Repubblica del Cile. È la stessa Bachelet a dare un primo segnale di novità: saputi i risultati del secondo turno elettorale che la danno vincente sul candidato della destra Sebastián Piñera con quasi il 54% dei voti, appare in pubblico avendo accanto soltanto la madre e i figli. Nessun esponente delle istituzioni politiche e nessun rappresentante dei partiti della Concertación, la coalizione di centro-sinistra di cui è espressione, la accompagna.

Un’altra immagine, per contrasto, affiora dai ricordi ed è quella dell’insediamento ufficiale di Patricio Aylwin, primo presidente della Repubblica eletto democraticamente dopo quasi 17 anni di dittatura militare. È l’11 marzo 1990. Il generale Augusto Pinochet e il neoeletto presidente sono uno accanto all’altro circondati dai rispettivi sostenitori. Il primo simboleggia l’ordine e la modernizzazione conseguiti dal paese dopo i convulsi anni che precedono il colpo di Stato del 1973; il secondo la libertà ritrovata dopo un lungo periodo di repressione. È lo stesso Pinochet a consegnare ad Aylwin le insegne del potere repubblicano e il dittatore che se ne va e il presidente democratico appaiono entrambi vincenti. È alquanto singolare che la transizione da una dittatura a una democrazia, per quanto graduale e contrattata essa sia, veda la partecipazione del dittatore agli atti costituzionali e protocollari previsti dalle procedure democratiche. Le immagini appena descritte, fortemente simboliche, suggeriscono che la storia cilena degli ultimi quarant’anni non è di facile lettura.

2. Una preoccupazione costante, quasi compulsiva, dei gruppi dirigenti cileni è quella di differenziare il paese rispetto al resto dell’America Latina, di farlo diventare «il più europeo di tutti», di privilegiare l’ordine e la stabilità politica e sociale garantendo allo stesso tempo il regolare funzionamento dello Stato di diritto. Tra il 1964 e il 1970 il governo del democristiano Eduardo Frei Montalva avvia un programma di riforme, denominato «rivoluzione nella libertà», il cui obiettivo è la realizzazione dello Stato sociale e una graduale democratizzazione della società cilena. Poi, il sogno di Salvador Allende e del suo governo di Unidad popular di realizzare un programma socialista nel rispetto delle regole democratiche va in frantumi quando, nel 1973, in un clima di acuta polarizzazione sociale, un colpo di Stato militare liquida brutalmente tutte le ipotesi riformiste e rivoluzionarie. Va ricordato che esso è salutato con favore non soltanto dalla destra politica ma anche dai partiti di centro e dalla stessa Democrazia cristiana che a più riprese, nel periodo immediatamente precedente, avevano invocato l’intervento delle Forze armate come l’unica soluzione praticabile per porre fine al conflitto sociale. L’esito, con la sequela di repressione e morte, è una radicale inversione di tendenza del paese il cui modello ispiratore diviene il capitalismo liberale di stampo nordamericano con conseguente eliminazione sistematica di tutti gli elementi del «modello europeo» a cui si erano ispirate sino a quel momento, con modalità e intensità diverse, le élite cilene.

Il Cile appare oggi come un paese di straordinari successi macroeconomici in cui la ricchezza prodotta dalla crescita è concentrata nelle mani di pochi gruppi economici, con una distribuzione del reddito e una disuguaglianza sociale considerate intollerabili dalla stessa Chiesa cattolica. Un paese orientato a proteggere la proprietà privata e i diritti individuali anziché quelli sociali e collettivi, che considera la mobilità sociale come materia squisitamente privata, affidata allo sforzo e all’iniziativa individuale: il prestigio e la libertà si ottengono grazie all’accesso alla proprietà, al consumo e a giornate di lavoro prolungate (il Cile è tra i paesi del mondo in cui si dedicano più ore alle attività lavorative), anche se non sembra che il mercato del lavoro promuova la meritocrazia mentre produce sistemi sofisticati di segregazione urbana.

Il mercato è disseminato in tutti gli interstizi della quotidianità – lavoro, salute, istruzione, previdenza sociale – e la condizione di consumatore si impone su quella di cittadino; a quest’ultimo ci si rivolge con le stesse tecniche utilizzate per il consumatore: la promessa di una massimizzazione dei suoi interessi individuali. Di conseguenza tutte le relazioni sociali si caratterizzano per la dimensione utilitarista, per l’illusione di poterle sfruttare per «fare affari», per «stabilire contatti», per «creare reti». È questo uno schema culturale che appare pervasivo e che favorisce il rifiuto dei settori sociali benestanti nei confronti delle politiche di redistribuzione del reddito, la persistenza di alti livelli di frammentazione e disuguaglianza sociale e un sistema educativo chiaramente discriminatorio.

Contemporaneamente, lo Stato di diritto appare consolidato con istituzioni e pratiche che lo allontanano dalla tradizione precedente al 1973: un sistema politico bipo­lare con due blocchi che allo stesso tempo competono e cooperano perché entrambi rispettano le regole democratiche e condividono l’adesione ai princìpi del sistema economico e sociale operante. Dallo scenario istituzionale rimangono emarginate le forze politiche critiche del sistema, che peraltro godono di pochissimi punti percentuali di consenso. Parallelamente si rafforzano i poteri indipendenti come il potere giudiziario, il Tribunale costituzionale e la Banca centrale che funzionano da contrappeso alle spinte riformiste di eventuali maggioranze politiche.

3. Come si è prodotta una trasformazione di tale portata? Visto in prospettiva, il Cile ha sperimentato un processo di modernizzazione liberista e liberale che si è andato consolidando per tappe successive.

Una prima tappa – che risale alla dittatura – è la liquidazione della visione dello Stato come agente attivo delle dinamiche economiche e sociali e di partiti politici, sindacati e associazioni professionali come veicoli di mobilità sociale. La giunta militare ridimensiona drasticamente ruoli e funzioni dello Stato nella sfera economica, smantella i pezzi di Stato sociale che erano stati faticosamente costruiti in precedenza e introduce un modello economico basato sul libero mercato, l’apertura commerciale, il ruolo sussidiario dello Stato, il ruolo centrale dell’impresa privata in settori strategici come la previdenza sociale, la salute, l’istruzione, le telecomunicazioni, l’energia. La rapidità, l’efficacia e il successo dei processi di privatizzazione, della drastica razionalizzazione del panorama produttivo e del conseguente processo di concentrazione economica sono possibili grazie all’efficiente e coerente azione di governo del regime che si esprime, tra le altre cose, nella brutale soppressione delle libertà civili, nella violazione sistematica dei diritti umani, nella frantumazione della coesione sociale. La chiave di volta del successo risiede dunque nella combinazione di liberalizzazione economica, autoritarismo politico e sostegno efficace degli organismi economici internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale e Banca interamericana dello sviluppo).

Il progetto di rifondazione dell’economia e della società è accompagnato da un nuovo disegno del quadro politico-istituzionale che punta a costruire, nel lungo periodo, un sistema politico civile di «democrazia protetta». La costituzione del 1980, la cui piena applicazione è prevista dalla giunta militare a partire dall’11 marzo del 1990 – data stabilita per l’insediamento di un presidente della Repubblica eletto democraticamente – contiene disposizioni transitorie che regolamentano minutamente, sino alle elezioni presidenziali e parlamentari del dicembre 1989, il processo di graduale ritorno alla democrazia. Le forze politiche dell’opposizione, riconoscendo che la strada obbligata è quella definita dal regime, negoziano e concordano con quest’ultimo una strategia comune perché il processo si sviluppi in forma pacifica. Danno vita, nel 1986, alla Concertación de partidos por la democracia, in cui la Democrazia cristiana assume un ruolo centrale. Il leader che appare più idoneo a rappresentarla è Patricio Aylwin. Il modello della transizione spagnola, el cambio sin ruptura, viene mutuato dai democratici cileni. I risultati del plebiscito dell’ottobre1988, contemplato nella costituzione del 1980 come una tappa della transizione per scegliere se legittimare il dittatore come presidente della Repubblica, obbligano la giunta militare a indire, per il dicembre 1989, insieme alle elezioni parlamentari, anche quelle presidenziali. I partiti politici della destra, anche quelli più vicini al vecchio dittatore, non rifiutano il dialogo che le forze democratiche e soprattutto la Democrazia cristiana propongono. D’altra parte, insieme ad alcuni esponenti della giunta militare, si sentono abbastanza rassicurati da due elementi contenuti nel programma presidenziale del candidato democratico: le intenzioni di continuare la politica economica del regime – limitandosi a prendere provvedimenti per controbilanciare gli effetti sociali del neoliberismo – e le ripetute rassicurazioni di Aylwin e di altri esponenti della coalizione democratica di voler spianare la strada alla «riconciliazione nazionale» (il tema è quello delle violazioni dei diritti umani).

4. La seconda tappa è quella dei primi due governi della Concertación, quello di Patricio Aylwin (1990-1994) e quello di Eduardo Frei Ruiz-Tagle (1994-2000), figlio del vecchio leader democristiano degli anni Sessanta, e investe soprattutto la sfera politica.

I due governi di centro-sinistra accettano realisticamente che il ritorno alla democrazia non è dovuto alla sconfitta e all’insuccesso dei militari come è avvenuto nella vicina Argentina nel 1982, bensì al successo e alla maturazione di un nuovo ordine economico e sociale impiantato nel paese dalle Forze armate che si rivela molto più solido e profondo di quanto ci si aspettava. Di conseguenza si muovono nel solco già tracciato dai militari, attivando però diverse iniziative di carattere prevalentemente assistenziale, orientate a migliorare e ampliare la rete di protezione sociale, a favorire l’inclusione sociale, la protezione dell’ambiente, a potenziare gli spazi pubblici e a conferire un posto preminente, negli obiettivi del governo, all’arte e alla cultura. Certamente non possono porsi come obiettivo quello di smontare i meccanismi che bloccano il potere di negoziazione dei lavoratori e che producono disuguaglianza ed esclusione sociale. D’altra parte, la paura interiorizzata durante gli anni della dittatura e il timore che i militari possano tornare al potere in qualsiasi momento fanno sì che per quasi tutti gli anni Novanta la società civile faccia fatica a reagire e a riprendere iniziativa d’intervento. Anche le aspettative e le tensioni vincolate alla questione delle violazioni dei diritti umani sono amministrate con estrema prudenza. Aylwin ribadisce più volte che un pieno accertamento della verità è necessario, ma enfatizza il fatto che la scoperta della verità deve portare non alla condanna dei responsabili dei crimini, bensì al perdono e alla riconciliazione nazionale.

Nella sfera politica emerge una struttura bipolare che si accentua al punto da non lasciare alcuno spazio per un terzo polo. C’è una grande differenza rispetto allo schema dei tre poli – rispettivamente di destra, centro e sinistra, differenziati socialmente e ideologicamente – del periodo precedente al 1973, che si basava sul sistema elettorale proporzionale che permetteva la rappresentanza di piccoli partiti con potere di incidere sulle decisioni di governo. Negli anni Novanta, secondo lo schema della costituzione del 1980, si afferma invece un sistema maggioritario con una coalizione di centro-sinistra, la Concertación, e una di destra, la Alianza, costituita dai due partiti vicini all’ex dittatore finché quest’ultimo non viene travolto dagli scandali di corruzione e frode.

Molti pensavano che la struttura bipolare, prodotto dell’opposizione alla dittatura, sarebbe sparita con il consolidamento della democrazia e l’estinzione del pericolo autoritario e che la politica del paese sarebbe tornata alla dinamica dei «tre terzi». Però le coalizioni si rivelano anch’esse più solide del previsto. È certo che la loro esistenza è dovuta al sistema elettorale. Nondimeno, la forza del bipolarismo va oltre lo schema giuridico e legale. Entrambe le coalizioni producono nella cittadinanza un’identificazione che supera quella che generano i partiti che le costituiscono; sommate ottengono in tutte le tornate elettorali l’appoggio di più del 90% degli elettori, senza che una terza forza consistente riesca ad affermarsi.

Emerge anche una cultura politica nuova, che favorisce l’accordo pragmatico tra i diversi attori politici, piuttosto che lo scontro ideologico tipico degli anni Sessanta-Settanta ed esprime la convinzione che le dinamiche politiche debbano essere essenzialmente il risultato di calcoli di ingegneria istituzionale prodotti dai professionisti della politica, e non il risultato della partecipazione e del coinvolgimento dei cittadini.

Il fatto paradossale è che i protagonisti della modernizzazione politica sono, perlomeno per quanto attiene agli esponenti della Concertación, gli stessi del periodo della polarizzazione precedente al colpo di Stato militare: più anziani, più grigi e forse più saggi, ma sempre, con qualche eccezione, gli stessi. Tutto questo contribuisce, tra le altre cose, a incrementare il tasso di disaffezione delle generazioni più giovani nei confronti della politica in generale e dei partiti in particolare, che si evidenzia già con il rifiuto di iscriversi ai registri elettorali in occasione delle elezioni parlamentari e presidenziali del 1989, ma che acquista crescente rilevanza nel decennio successivo.

RICARDO LAGOS, PRESIDENTE DEL CILE DAL 2000 AL 2006 –SOCIALISTA

5. La terza tappa del processo di modernizzazione si produce a partire dal 2000 con l’elezione alla presidenza della Repubblica del socialista Ricardo Lagos. La rottura del vecchio ordine culturale appare come il filo che lega molti degli episodi che caratterizzano il suo mandato (2000-2006). Innanzitutto il consenso e l’adesione che riscuote nel mondo imprenditoriale e nei circoli finanziari per le sue scelte di politica economica, in sostanziale continuità con quelle dei due governi precedenti e che fanno cadere la pregiudiziale «socialista» attivatasi nei suoi confronti durante la campagna elettorale. In secondo luogo, l’ampio consenso parlamentare raggiunto per l’approvazione di una legge sul divorzio e sulla fine della censura cinematografica; l’attenzione prestata a zone oscure della società come la pornografia infantile e l’abuso di minori; la desacralizzazione delle élite sottomesse a una valutazione sempre più inquisitrice da parte dei mezzi di comunicazione; la disposizione della società a incorporare il passato, includendo i suoi episodi più traumatici come le violazioni dei diritti umani commesse durante la dittatura, nella memoria nazionale; la forte reazione pubblica di fronte ai casi di corruzione che porta ad adottare meccanismi di maggiore trasparenza nell’amministrazione dello Stato; il ristabilimento della supremazia del potere civile sulle Forze armate e la riforma della costituzione politica del 1980, con l’eliminazione di alcuni vincoli più autoritari. Secondo alcuni osservatori, l’apice di questa ulteriore ondata modernizzatrice è la rimozione della pregiudiziale di genere per le alte cariche dello Stato con l’elezione, nel gennaio 2006, alla presidenza della Repubblica di una donna socialista, figlia di un militare, madre single e vittima diretta della repressione di Pinochet.

In linea con questa volontà di affrontare questioni che sembravano sino a non molto tempo fa tabù, il tema della disuguaglianza sociale si impone nel dibattito nazionale. Così nell’ultima campagna elettorale per le presidenziali (2005) accade una cosa un po’ bizzarra: dalla sinistra alla destra la promessa di una maggiore protezione socia­le sostituisce l’offerta di una maggiore crescita economica, offerta che aveva segnato, dal ritorno alla democrazia, le precedenti tornate elettorali. Ciò che si produce in Cile è, perlomeno a livello del discorso politico, una convergenza politica su posizioni che potrebbero definirsi socialdemocratiche.

Risultati immagini per ricardo lagos presidente del cile

MICHELLE BACHELET, MINISTRA DELLA SALUTE E DELLA DIFESA DURANTE LA PRESIDENZA LAGOS, POI PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, PRIMA DONNA IN CILE

34º e 36º Presidente del Cile
Durata mandato 11 marzo 2006 –
11 marzo 2010
Predecessore Ricardo Lagos
Successore Sebastián Piñera
Durata mandato 11 marzo 2014 –
11 marzo 2018
Predecessore Sebastián Piñera
Successore Sebastián Piñera

( DATI WIKIPEDIA)

6. Il fatto inedito di avere una donna come presidente del Cile può essere certamente letto come l’esito coerente della progressiva modernizzazione indotta dalla democrazia liberale in quanto espansione dei diritti ed esercizio di una cittadinanza piena. Allo stesso tempo, però, e a uno sguardo più ravvicinato, rivela tensioni e resistenze che potrebbero essere interpretate come elementi iniziali di una discontinuità rispetto al passato di non facile amministrazione.

Innanzitutto c’è da dire che la candidatura della Bachelet non era prevista dai partiti della Concertación, che sono spiazzati e alquanto irritati quando il suo nome comincia ad apparire nei sondaggi di opinione e acquista, inspiegabilmente, sempre più forza. Indiscutibilmente ha svolto bene il suo lavoro di ministro della Salute e si rivela un ottimo ministro della Difesa durante il governo Lagos, eppure nella vita politica gioca un ruolo di secondo piano e non brilla certo per iniziative eclatanti né per contributi teorici di respiro: il suo stesso partito la considera fragile politicamente, ma di fronte al grande consenso popolare di cui gode, Lagos – presidente in carica e non rieleggibile immediatamente – matura la decisione di proporla come la candidata ufficiale della coalizione di governo, candidatura che viene confermata dalle elezioni primarie in seno alla Concertación. Non si può escludere che nei calcoli di Lagos – uomo forte e autoritario – abbia avuto il suo peso la considerazione, nel caso di successo elettorale, di poter influenzare e controllare le decisioni politiche della Bachelet e poter quindi più agevolmente lavorare per una propria successiva ricandidatura.

Rimane da spiegare il suo successo popolare. Forse va considerato che proprio quando il nuovo ordine economico e sociale si consolida e se ne possono apprezzare con maggiore rigore le luci e le ombre, la maggioranza dei cileni paga un prezzo alto per i successi macroeconomici e non vede i risultati individuali, provando perciò un crescente malessere, che dà vita ai movimenti per le pari opportunità o contro la disuguaglianza sociale. Non è un caso che oggi, come ricordavamo, nel discorso di tutti i partiti politici questi temi siano prioritari. Affiorano anche altre insoddisfazioni che hanno a che vedere con il rapido processo di cambiamento vissuto dalla società cilena nel suo insieme e dai suoi singoli componenti, collegate all’erosione della dimensione collettiva e sociale dell’agire quotidiano e al sentimento di solitudine, isolamento e mancanza di protezione che tale erosione genera. I cileni e le cilene vanno alla ricerca di una leader più concreta e quotidiana, meno dirigista e più conciliante, meno autoritaria e più partecipativa, meno impegnata sul fronte delle politiche strutturali e più attenta al benessere delle persone. I gesti di informalità della Bachelet, il suo volto sorridente, il saluto amichevole della sua mano, le promesse di un governo di «partecipazione cittadina» composto da una nuova generazione di politici e rispettoso nei numeri della parità di genere che prevede come prioritarie misure di protezione sociale, la connotano come una presidente simpatica e facilmente avvicinabile, una figura materna che fa intravedere il possibile soddisfacimento della richiesta di pari opportunità per tutti. Il suo fascino, soprattutto dopo tre governi di transizione democratica gestita da uomini che adombrano la figura del padre autoritario, fanno convergere sul suo nome le preferenze anche di una buona parte delle donne tradizionalmente di destra.

Le sue prime azioni di governo fanno però riemergere i rigurgiti di maschilismo, faticosamente tenuti a bada durante la campagna elettorale, dei suoi compagni di coalizione e introducono elementi di discontinuità forte rispetto al passato.

Il suo primo gabinetto ministeriale non solo non tiene conto dei suggerimenti e delle pressioni dei partiti della Concertación che vengono a conoscenza della lista dei ministri soltanto qualche minuto prima della conferenza stampa, ma riserva sgradevoli sorprese, nel senso di mancate nomine, ad alcuni dei suoi più vicini sostenitori durante la campagna elettorale. Bachelet mantiene la promessa di una composizione che rispetta nei numeri la parità di genere e la presenza nell’esecutivo di una nuova generazione nonostante, con lodevoli eccezioni, i volti nuovi e le figure femminili non spicchino per esperienza politica e capacità di gestione delle complesse relazioni istituzionali. Il processo di «pensionamento» politico che avvia all’interno della Concertación e la sua presa di distanza rispetto alle tensioni interne dei partiti di centro-sinistra acuiscono le difficoltà e la costringono a un primo rimpasto di governo ad appena quattro mesi dall’insediamento. Il suo programma di riforme sociali, che prevede numerose iniziative per favorire una maggiore redistribuzione del reddito e misure incisive di protezione sociale, non favorisce certo la simpatia nei suoi confronti dei circoli economici e finanziari, che esprimono senza mezzi termini il loro dissenso e rallentano notevolmente la marcia delle iniziative previste. L’apparente incapacità del governo fa esplodere l’insofferenza sociale.

La «rivoluzione dei pinguini», ossia la protesta degli studenti delle scuole secondarie pubbliche, appoggiati dagli studenti di quelle private, esplode nell’autunno del 2006 con forza imprevedibile e pone sul tappeto la riforma urgente del sistema educativo vigente, che contempla un settore pubblico inservibile per i poveri e i ceti medi e uno privato in mani imprenditoriali per i figli delle famiglie ricche che hanno garantite le migliori università in Cile e all’estero. Gli studenti sottolineano che il cuore del problema non è l’assegnazione di nuove risorse finanziarie, ma un sentimento diffuso di vulnerabilità e discriminazione.

Tuttavia, la vicenda che acutizza il malcontento popolare e offre alla destra e ad alcuni esponenti politici della Concertación l’occasione, veramente ghiotta, per scatenare una raffica di aspre critiche è l’applicazione del Plan Transantiago, iniziativa che cambia la struttura del sistema di trasporto pubblico dell’area metropolitana della capitale, progettato dal governo di Lagos ma non realizzato prima della fine del suo mandato. Ereditato dalla Bachelet, viene reso operativo nel febbraio 2007. Pur raccogliendo una domanda storica molto sentita come quella della modernizzazione del trasporto urbano di Santiago, il progetto contiene una serie di errori (percorsi che lasciano scoperti alcuni settori della città, contratti d’appalto mal concepiti, numero insufficiente dei nuovi mezzi, mancata fase di sperimentazione) che rendono esplosiva la situazione. I risultati della messa in atto del nuovo sistema sono lunghissime code alle fermate degli autobus, tempi di mobilità doppi e tripli rispetto al passato, soprattutto per gli abitanti delle zone più periferiche che devono cambiare sino a quattro mezzi per arrivare a destinazione. In parlamento esponenti di spicco della Democrazia cristiana votano, assieme alla de­stra, contro un ulteriore finanziamento per correggere gli errori del piano e fanno saltare la maggioranza parlamentare. Le difficoltà finanziarie che si sommano a quelle tecniche nel raddrizzare la situazione fanno lievitare lo scontento e la rabbia dei cittadini e spiegano il calo drammatico di consenso nei confronti del governo. Il voto sfavorevole del parlamento e l’espulsione dalla Democrazia cristiana di esponenti di vecchia data e assai prestigiosi sono l’occasione per rendere evidente la profonda crisi che attraversa il partito e il deterioramento grave delle relazioni all’interno della Concertación .

La responsabilità delle dinamiche distruttive innescatesi all’interno della coalizione di governo viene ovviamente addossata, da più parti, alla presidente della Repubblica, alla sua mancanza di visione strategica e all’incapacità di dare risposte convincenti alla crisi politica che si è creata.

Da un lato si chiede alla Bachelet di essere la «grande madre» del Cile e dall’altro di mettersi i pantaloni e assumere un piglio autoritario tutto maschile. In realtà, c’è una crisi di rappresentatività del sistema politico, crisi dovuta essenzialmente alla sua origine autoritaria (costituzione dell’80) e agli elementi di continuità profonda – mantenuti durante i primi quindici anni di transizione democratica – con il modello di modernizzazione complessiva introdotto dal regime militare e che di fatto hanno aggravato progressivamente la polarizzazione economica e sociale che divide i cileni. Questa crisi prescinde in buona parte dalle responsabilità dell’attuale governo anche se le debolezze e incertezze di quest’ultimo certamente non mancano.

La perdita della maggioranza parlamentare della Concertación è ovviamente molto grave, soprattutto se si pensa che la Bachelet ha davanti a sé ancora due anni di mandato presidenziale e un’importante agenda legislativa, e se si considera che il suo governo è il primo della transizione ad aver ottenuto il controllo di entrambe le camere del Congresso.

Il risultato è che si è gia aperto il dibattito sul futuro candidato presidenziale. Un’inchiesta dello scorso dicembre rivela che il 54,6% ritiene che il futuro capo di Stato debba essere un uomo, il 32% si dimostra indifferente al genere e solo il 9,2% pensa che debba essere ancora una donna. Il 34,3% degli intervistati crede che Sebastián Piñera, candidato del Partido Renovación Nacional della destra moderata sarà il futuro presidente della Repubblica.

Le tensioni che agitano attualmente il Cile interessano, con dinamiche diverse, anche altri paesi dell’Occidente e hanno anche a che vedere con il consumarsi storico di modelli e pratiche politiche che hanno caratterizzato il Novecento. Esprimono il bisogno di nuove forme di espressione e organizzazione politica più rispondenti ai bisogni e alle sfide del presente.


Un passato che non passa 
di Marcos FERNÁNDEZ LABBÉ


A quasi vent’anni dalla dine della dittatura militare, la società e la politica del Cile risentono ancora di quegli eventi. Ci sono oggi due paesi in una situazione geografica molto particolare: uno sta sopral’altro, coprendolo, rimpicciolendolo, asfissiandolo quasi, come in quell’immagine del 1810 che inaugura la caricatura politica cilena, in cui i popoli del Cile (un paese) sono rappresentati come una branco di animali incitati da una bestia da soma (lo Stato), che a sua volta è aizzato e guidato da un élite (un altro paese) che mira al suo esclusivo profitto.

Paradossalmente, l’immagine – che risale all’origine della commemorazione – è stata proposta come l’evento storico-simbolico che avrebbe dovuto dare inizio al pieno sviluppo del paese: l’anno 2010, in occasione del quale si celebreranno i 200 anni dall’indipendenza. Tuttavia è evidente che il Cile che si è costruito negli ultimi vent’anni e che commemorerà il bicentenario dell’emancipazione nazionale è un paese diverso da quello che sperimentò prima il governo di Unità Popolare e poi la dittatura. Nondimeno esso assomiglia ancor meno al Cile che buona parte della popolazione immaginava nel 1989, quando si metteva fine a 17 anni di governo autoritario: ciò che rende peculiare il Cile di oggi è la novità che la sua esperienza rappresenta nell’immaginario collettivo. Cavalcando questa novità – probabilmente con tracce di evasione, di sradicamento, d’infanzia – la società cilena si è autorappresentata come una società moderna e progressista, persino liberale, dopo anni in cui si era autoconcepita come conservatrice, grigia, piccola rispetto ai suoi vicini, sconosciuta nello scenario internazionale. Dal 1990 in poi, i cileni e le cilene sembrano avidi di futuro – o per lo meno molto più incuriositi da questo che dal passato – disposti a dimenticare quella parte della storia che ostacola il cammino del proprio paese e dell’intera America Latina. Con gli occhi sgranati, i cileni più giovani sono, e si percepiscono, integrati nei linguaggi, nelle questioni e negli obblighi prima individuali e poi globali. Di locale solo il paesaggio e le sue opportunità.

Uno studio del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Pnud) stabilì che gran parte della popolazione cilena agli albori del XXI secolo non trovava argomenti o simboli del paese con cui identificarsi, e che il Cile, anche se proiettato discorsivamente verso il futuro (e verso gli ideali di progresso, ricchezza, stabilità), era per certi versi malato, incapace di affrontare e risolvere un passato considerato oscuro e doloroso (violenza, impunità, povertà). Veniva confermato il timore dei cileni e delle cilene, la loro insicurezza dinanzi al futuro, la scomparsa delle reti di coesione sociale, l’infima esperienza di cittadinanza attiva con la quale il cittadino medio si confronta giorno per giorno. Così, per certi versi, il passaggio del secolo era dominato dall’incertezza.

Accumulazione: l’ordine della distribuzione della ricchezza

Indirettamente, se non altro dal 2005, la totalità degli attori politico-sociali e tecnico- accademici del Cile concorda nel considerare la sperequazione nella distribuzione della ricchezza il più importante dei problemi del paese. Gli studi economici hanno dimostrato che la diminuzione della quantità assoluta di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è stato un risultato importante dal 1990 ad oggi: da quasi cinque milioni di persone si è scesi a circa due milioni. Ma, e questo è l’aspetto più rilevante, nello stesso periodo in cui è diminuito il numero di poveri, è aumentata la distanza che separa questi ultimi dai settori più abbienti della società, portando il Cile a una sperequazione nella distribuzione della ricchezza inferiore nella regione solo a quelle del Brasile e del Venezuela 1. In tal modo, un paese che si rappresentava – e tutt’ora si rappresenta – come il paradiso del ceto medio, si è trasformato in una società polarizzata, ingiusta, regressiva nel suo meccanismo centrale di funzionamento. Così, mentre il tasso di profitto delle istituzioni finanziarie è aumentato e la parte rappresentata dai dividendi dell’investimento produttivo raggiungeva alla fine degli anni Novanta praticamente un 40% del pil, i salari reali sono cresciuti molto poco (dal 4 a 5% annuale) e la distanza che esiste tra il 20% della popolazione più povera e il 20% di quella più ricca è stata calcolata a metà dello stesso decennio con un coefficiente Gini di 0,55; ovvero, il reddito della seconda è in media 14 volte maggiore di quello della prima 2.

Alcuni elementi rendono questa situazione paradossale: nonostante la spesa sociale sia cresciuta costantemente, la povertà non si è ridotta quanto ci si aspettava. Inoltre, il Cile, in termini economici è cresciuto in media del 7% all’anno dal 1990 al 1997 e, in seguito, ha mantenuto un tasso di crescita intorno al 5%, crescita favorita sia dal clima economico internazionale sia dall’aumento dei prezzi delle materie prime di esportazione cilena (il rame, la cellulosa di origine forestale e la farina di pesce). A ciò si aggiunga una aggressiva politica di intese commerciali bilaterali con l’Unione Europea, Stati Uniti e Cina – tra gli altri paesi – e un flusso crescente di investimenti diretti stranieri destinati prevalentemente al settore minerario. Tutto ciò ha spinto gli economisti a sostenere che nel caso del Cile, la diminuzione della povertà deve essere attribuita soprattutto alla crescita economica – che grazie alla creazione di nuovi posti di lavoro ridistribuisce automaticamente la ricchezza – piuttosto che alle politiche di lotta alla povertà intraprese dallo Stato. Inoltre, il sistema impositivo cileno è stato descritto come regressivo – nel senso che i settori più poveri destinano, rispetto ai ricchi, una quota maggiore del proprio reddito al pagamento delle tasse; le percentuali di sindacalizzazione e di partecipazione politica continuano a scendere dal 1990 e aumenta ogni anno il numero di persone – per la stragrande maggioranza giovani – che si autoescludono dalle elezioni presidenziale e legislativa. Sul piano delle percezioni, il cittadino medio teme fondamentalmente di perdere il lavoro o di essere vittima della delinquenza: la sua preoccupazione si riferisce alle conseguenze dirette di questa ingiusta distribuzione della ricchezza. Ergo , per la politica cilena – governi, partiti politici di maggioranza, sinistra extraparlamentare e opposizione di destra – il tema della gestione della ricchezza e il contenimento della povertà è stato un serio motivo di preoccupazione.

Inclusione/esclusione: cittadinanza e politica in tempi di Concertazione

Dopo l’interminabile notte del governo militare, uno degli obiettivi che l’amministrazione democratica considerò prioritario fu l’elaborazione di una strategia per ricomporre la coesione sociale che la repressione politica, la povertà e l’individualismo avevano frantumato. Lo Stato creò un ministero specifico per l’occasione (il ministero per la Pianificazione e cooperazione) e giunse, per tutti gli anni Novanta, a impiegare fino al 70% delle risorse per le spese sociali 3. Grazie a ciò si applicò il concetto base di «crescita con equità» che consisteva fondamentalmente nell’affidare al mercato il compito di ridistribuire con equità la ricchezza prodotta: sostanzialmente attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro che la crescita economica rendeva possibile. Tuttavia già dal 1992 si osservò sia che la crescita economica aumentava smisuratamente rispetto alla creazione di posti di lavoro, sia che questi ultimi erano, in prevalenza, di tipo informale e precario, nel senso che non fornivano ai lavoratori e alle lavoratrici un livello minimo di protezione sociale (fondo pensionistico e assistenza sanitaria). In fondo, entrambi gli elementi confermavano la tesi che il mercato da solo non sarebbe in grado di diminuire la povertà e, ancor più importante, che non sarebbe capace di diminuire la distanza esistente tra i settori ricchi e quelli poveri della società cilena. È per raggiungere questo obiettivo che, per tutto il periodo in questione, si sono messe in moto la maggior parte delle misure di politica sociale 4.

In ciascuno dei settori tipici della politica sociale lo Stato operò attraverso una duplice – e a prima vista contraddittoria – caratterizzazione: da un lato aveva ridotto di gran lunga le proprie dimensioni e il proprio potere economico durante la dittatura; dall’altro, continuava ad aumentare le proprie entrate, destinandone una parte sempre più cospicua ai settori della politica sociale e alla riduzione della povertà. In questa circostanza, le amministrazioni della Concertazione di partiti per la democrazia hanno seguito la linea politica dei militari, in termini di definizione, municipalizzazione e privatizzazione delle prestazioni destinate alla parte più povera della popolazione. Le risorse si concentravano in quei settori più vulnerabili, e alcuni di questi servizi (in particolare istruzione e alloggi) erano gestiti da enti privati. A partire dal 2001 è iniziato il programma Cile solidale, con il quale si intende indirizzare l’insieme dei sussidi statali verso le 200 mila famiglie più emarginate, stabilendo una sorta di «contratto» tra queste e lo Stato. In questo modo, si è mantenuta l’abolizione del carattere universale delle politiche sociali con il quale si era identificato il welfare state prima della dittatura, considerando che l’ammontare delle risorse richieste per garantire l’accesso ai beni sociali minimi si deve ottenere mediante l’apporto sia dei beneficiati che dello Stato sussidiario. Quei settori della popolazione definiti non-poveri devono procurarsi l’accesso a questi servizi in forma privata, ovvero, secondo una logica di distribuzione regolata esclusivamente dal mercato.

Pertanto in Cile i meccanismi di mercato e la definizione delle politiche sociali hanno creato efficienti spazi di inclusione sociale per ridurre la povertà in senso assoluto, ma al prezzo di approfondire l’ingiustizia nella distribuzione della ricchezza. Ciò ha portato alla perdita della legittimità dell’azione politica.

L’evidente deficit di partecipazione sociale, così come l’incapacità e la lentezza del sistema di rappresentanza politica formale – svilito dalla persistenza di enclave autoritarie e da un sistema elettorale binominale che favorisce la creazione di coalizioni politiche che si spartiscono la rappresentatività tra due grandi conglomerati (Concertazione di partiti per la democrazia e Alleanza per il Cile) escludendo raggruppamenti minori anche quando questi raggiungono una percentuale superiore al 5% dei consensi su base nazionale – spiegano la creazione, durante il governo di Michelle Bachelet (che si proclama «governo cittadino») di commissioni per rendersi conto dei bisogni della popolazione, dotate di un’agenda specifica e con il compito di formulare raccomandazioni tecniche. Formulate da specialisti del settore, dirigenti sociali, rappresentanti ecclesiastici e da gruppi senza rappresentanza nel parlamento, queste commissioni si presentano come soggetti centrali di una strategia di dialogo sociale che cerca sia d’integrare settori di scarsa presenza nei mezzi di comunicazione e nella lobby politica – con la considerevole eccezione della Chiesa Cattolica e della grande impresa – sia di intercettare un capitale di legittimità politica («cittadina») che serva come mezzo di pressione affinché il parlamento trasformi in legge le loro raccomandazioni.

Probabilmente gli indicatori più evidenti dell’assenza di impegno politico o per lo meno della riluttanza rispetto ai canali formali di partecipazione politica sono rappresentati dai livelli di partecipazione nei processi elettorali dal 1989 ad oggi, e da quelli di sindacalizzazione.

Uno dei segnali più esemplificativi dell’immediato ritorno alla democrazia fu l’alto grado di partecipazione che si registrò nelle prime elezioni presidenziali del 1989. In quella occasione votò più del 92% degli iscritti nei ricostruiti – erano stati distrutti dalla dittatura – registri elettorali . Ma si trattò di un evento eccezionale dal momento che nelle successive elezioni presidenziali la percentuale scese al di sotto dell’85%, per poi salire al secondo turno del 1999 al 90% (in un contesto in cui, peraltro, i programmi della Concertazione e dell’Alleanza erano sostanzialmente simili). Nel caso delle elezioni parlamentari, le cifre in questione diminuiscono radicalmente: per quelle indette nel 1997 votò meno del 60% degli aventi diritto, mentre nel 2001 solo il 58,2%.

A questi dati bisogna aggiungere la crescita sostenuta del numero di coloro che scelgono di consegnare schede in bianco o di annullare il proprio voto durante le elezioni (alle parlamentari del 1997 più di 1,2 milioni di persone, pari al 18% degli aventi diritto, ha votato nullo o in bianco) e l’enorme quantità di cittadini e cittadine che pur avendo raggiunto l’età per votare scelgono di non iscriversi nei registri elettorali (più di due milioni e mezzo di persone nel 2001, quando poco meno del 60% dei cileni ha scelto di non votare6). La stragrande maggioranza di questo segmento della popolazione non iscritta o che annulla il proprio voto comprenderebbe persone tra i 18 e i 30 anni di età, e cioè tutti coloro i quali non vissero la dittatura militare – e le dinamiche socio-politiche di partecipazione che essa causò – e che, al contrario, sono stati educati civicamente in un contesto di governi della Concertazione.

Riguardo ai tassi di sindacalizzazione, se si considera come punto di partenza la fase di grande ostilità nei confronti dell’associazionismo operaio durante la dittatura, la fine di questa provocò nel paese un aumento sostenuto della quantità di sindacati organizzati – che nel 2003 erano più del doppio di quelli esistenti nel 1989 – e della quantità dei lavoratori e lavoratrici affiliati a questi: da meno di 400 mila nel 1986 a circa 700 mila nel 2003. Tuttavia, a fronte di una forza lavoro complessiva – ma anche in riferimento ai tassi di occupazione effettiva della stessa – che continua a crescere, la percentuale di aderenti a un certo tipo di organizzazione sindacale non fa che diminuire, si attesta su una media dell’11% dal 1990 ad oggi. I tassi in questione sono, a loro volta, ancora più bassi se si scompongono in variabili territoriali e di genere, dal momento che giovani e donne hanno mantenuto un livello di sindacalizzazione molto modesto. Tutto ciò si è verificato in un quadro di persistenza del codice del lavoro elaborato ai tempi della dittatura militare, di pressioni da parte delle organizzazioni padronali al fine di applicare misure che aumentino i livelli di «flessibilità» del mercato del lavoro e di debole posizione assunta generalmente dal ministero del Lavoro in questioni come la negoziazione collettiva e aspetti relativi al diritto del lavoro 7.

Epilogo: memoria contingente e potere costituente

Nel corso degli ultimi dieci anni tre eventi di carattere storico-politico hanno agitato profondamente la coscienza storica di alcuni settori della società cilena, evidenziando, per certi versi, la persistenza del passato, la difficile soluzione di conflitti ampiamente occultati e i limiti della «giudizializzazione» di questi conflitti come strategia di chiusura: l’arresto di Augusto Pinochet a Londra per violazione di diritti umani; la pubblicazione del cosiddetto Rapporto Valech, che accertava i numerosi casi di tortura e di detenzione per motivi politici avvenuti in Cile dal 1973 al 1990, e indicava provvedimenti riparatori nei confronti delle vittime; la morte di Pinochet alla fine del 2006.

La storia del Cile si può raccontare secondo la logica di scontro persistente tra fazioni (oligarchia vs«bassa cittadinanza»), con le Forze armate che hanno sistematicamente svolto il ruolo di potere decisivo, arrivando a imporre, in circostanze eccezionali, un ordine costituito orientato verso il consolidamento e l’espansione degli interessi oligarchici. Quest’ordine, una volta normalizzato lo stato d’emergenza, è stato amministrato docilmente ed efficientemente da oligarchie civili e «democratiche » le quali hanno ceduto – forzatamente o consensualmente – la propria legittimità alle Forze armate quando la «bassa cittadinanza» ha infranto l’ordine stabilito. L’effettiva sovranità politica risiede però nella «bassa cittadinanza», quella che attualmente sembra allontanarsi risolutamente dalle istanze formali di partecipazione politica, ma che non può né deve dimenticare che il suo potere costituente risiede nell’esperienza storica della resistenza, dapprima di fronte agli impeti della dittatura militare, poi del neoliberalismo e delle sue logiche di accumulazione.

Pertanto, il bilancio degli ultimi vent’anni deve registrare insieme alla persistenza della memoria della dittatura e delle sue cicatrici, l’approfondimento dell’ordine socio-economico da essa stessa instaurato e modificato solo superficialmente dalle amministrazioni del periodo democratico. Nel gioco di luci e di ombre, le cifre della crescita economica impallidiscono dinanzi all’evidenza della disparità sociale e la conquista della democrazia si deforma se osservata tenendo conto dell’anomia politica e della depoliticizzazione. Con efficienza e con un innegabile capitale di legittimità politica post-dittatoriale, i governi della Concertazione hanno ridotto la povertà assoluta ma hanno aumentato quella relativa. Per questo motivo, nell’ultimo decennio si sono indebolite la fiducia nel governo e la credibilità dell’intero sistema politico. In mezzo a tutto ciò, declassate già a utopia del passato, le aspettative del principio degli anni Novanta (l’approfondimento della democrazia, il miglioramento della partecipazione popolare, la ridistribuzione delle ricchezze, il giudizio definitivo ai carnefici della dittatura) sono a malapena ricordate da coloro che le difendevano.

(traduzione di Simona Forino)


Cile, un’economia di successo
di Alicia FROHMANN e Eugenio LAHERA


1. La liberalizzazione commerciale e la globalizzazione sono temi ampiamente dibattuti in tutto il mondo e anche in America Latina, una regione che – secondo il detto di Porfirio Díaz – «è così lontana da Dio e così vicina agli Usa». Il Cile ha seguito un percorso particolare in America Latina, con politiche economiche di apertura internazionale, volte a sfruttare le opportunità che la globalizzazione offre a un’economia piccola e distante dai principali flussi commerciali, e a diversificare la sua base produttiva. Il consolidamento delle istituzioni e le politiche sociali hanno permesso lo sviluppo e la coesione, riducendo al minimo i possibili impatti negativi dell’apertura ai mercati internazionali.

Gli accordi di libero commercio negoziati tra il 1990 e il 2007 hanno garantito al Cile un accesso privilegiato e un sistema di regole stabili con i principali centri di potere economico (Usa, Unione Europea, Cina, Corea e Giappone), trasformando il settore delle esportazioni nel motore della sua economia. In America Latina, Santiago ha indirizzato i suoi sforzi di integrazione regionale lungo tre direttrici: ha cercato di migliorare le intese con i paesi confinanti, ha portato a termine accordi di libero commercio con tutti i paesi della regione, e si è spesa per raggiungere un’integrazione regionale sul piano macroeconomico come su quello politico.

2. La specificità del Cile – che naturalmente condivide la maggior parte dei problemi strutturali del subcontinente – si basa su tre fattori:

• un particolare stile di sviluppo che ha permesso di combinare con successo la crescita economica, l’apertura commerciale e la riduzione della povertà;

• un modello di applicazione delle politiche pubbliche che ha sostenuto e consolidato i risultati raggiunti;

• la natura della sua transizione «negoziata» alla democrazia e il sistema di concertazione politica che da essa è scaturito, capace di assicurare la stabilità e la governabilità democratica.

Concentriamoci sui primi due.

Il grafico mostra l’incremento delle esportazioni, la crescita economica e la riduzione della percentuale di popolazione sotto il limite di povertà in Cile tra il 1990 e il 2006: la simultaneità dei processi di crescita economica e di sviluppo dell’esportazione, e della drastica riduzione della povertà non ha paragoni con nessun altro paese dell’America Latina e ha permesso al Cile di superare abbondantemente gli obiettivi del millennio stabiliti dalle Nazioni Unite. Questo articolo non ipotizza una relazione automatica di causa ed effetto di questo processo, bensì cercherà di comprenderlo e spiegarlo.

Sin dall’inizio dei governi presieduti dalla Concertación de partidos por la democracia (Concertazione di partiti per la democrazia), nel 1990, si è mantenuto un indirizzo strategico che combina cinque opzioni: 1) un’impostazione politica nazionale o inclusiva; 2) l’attivazione di politiche sociali; 3) l’inserimento nell’economia internazionale; 4) l’istituzionalizzazione economica; 5) la diversificazione della base produttiva.

Questi orientamenti hanno prevalso dopo la fine della dittatura, al potere in Cile tra il 1973 e il 1990, tanto sul piano politico come su quello sociale ed economico.

Lo sviluppo economico è stato perseguito con specifiche politiche commerciali:

• diminuzione unilaterale dei dazi doganali. Il livello di apertura è arrivato al 68% del pil nel 2006 (16,2% nel 1972);

• partecipazione attiva nel sistema multilaterale del commercio (Omc, Apec e, se si realizzerà mai, Alca);

• accordi commerciali bilaterali con 60 paesi;

• attivazione di meccanismi di facilitazione commerciale (per esempio: sportello unico nel settore dell’esportazione);

• miglioramento del quadro regolamentare (sovrintendenze, autonomia della Banca centrale, norme sanitarie e fitosanitarie).

Gli accordi commerciali rappresentano il caso di maggior espansione del mercato nella storia cilena. Sono una grande opportunità per la creazione di posti di lavoro e per il progresso sociale: nel 2007 la disoccupazione è scesa ai minimi storici del 7%, raggiungendo una situazione di quasi pieno impiego.

Simili trattati non hanno lo scopo di esportare più materie prime; piuttosto, permettono che i prodotti con maggior valore aggiunto possano giungere nei mercati a condizioni più competitive. Eliminando l’ostacolo doganale, proporzionale al valore aggiunto delle esportazioni, gli accordi consentono maggiore libertà nello scegliere la specializzazione produttiva. Questa è stata una richiesta costante dei paesi in via di sviluppo e dei loro leader nei decenni passati.

Gli accordi stabiliscono regole comuni riferite a elementi che vanno ben oltre il commercio, per economie di dimensioni disuguali:

• consolidano la democrazia e la correttezza macroeconomica;

• richiedono la coesione e il dialogo sociale;

• sono un’opportunità per la crescita culturale;

• implicano l’impegno per un lavoro dignitoso, lo sviluppo sostenibile e la responsabilità sociale degli imprenditori.

3. L’integrazione commerciale della regione incontra molte difficoltà a causa dei conflitti politici e delle enormi differenze nei coefficienti di commercio internazionale dei paesi, ma anche per colpa dell’instabilità dei cambi e macroeconomica dei diversi paesi.

Il Cile ha inseguito e raggiunto risultati concreti nei meccanismi di integrazione subregionali, i quali non dipendono necessariamente dagli accordi politici dei governi centrali. Per esempio il lavoro svolto dai Comités de integración y de frontera (comitati di integrazione e di frontiera) con Argentina, Bolivia e Perú; lo Zicosur 1; le alleanze imprenditoriali tra regioni, province o dipartimenti confinanti; e iniziative come la Macro Rueda de Negocios (macro incontro di affari) tenutasi a Iquique nel novembre del 2007, in cui le imprese esportatrici di Cile, Argentina, Bolivia e Perú si riunirono con i grandi acquirenti del Sud-Est asiatico.

L’integrazione economica è una meta, ma c’è molto da fare in ambito sociale, culturale e politico per passare dalla retorica integrazionista ai fatti.

I successivi governi della Concertación hanno sostenuto in modo energico il consolidamento delle istituzioni economiche e politiche. Sul piano politico, a partire dal 1990, il Cile è ritornato a un regime democratico che richiedeva e continua a richiedere perfezionamento.

Sul piano economico, il Cile è giunto ad avere un’economia di mercato.

I governi della Concertación che si sono succeduti hanno ritenuto che la migliore assegnazione delle risorse economiche si realizza grazie a mercati trasparenti e competitivi. Allo stesso tempo, hanno provato a mantenere politiche economiche equilibrate e a migliorare l’efficienza del settore pubblico per poter affrontarne le nuove sfide. Tutto ciò ha comportato una supervisione rigorosa dell’attività economica, un sistema di regole chiare e una regolamentazione appropriata.

I principali elementi in ambito di politiche macroeconomiche sono stati:

• politica fiscale basata sulla norma che prevede un avanzo strutturale equivalente all’1% del pil (applicata sistematicamente dal 2001);

• politica monetaria collegata agli obiettivi dell’inflazione (oscillazione del 2-4% con un orizzonte politico di 12-24 mesi);

• fluttuazione dei cambi.

Sono state modernizzate le istituzioni economiche, come la Banca centrale (autonoma) e il Tribunale della libera concorrenza. Il sistema finanziario e quello del mercato di capitali sono stati riformati.

Il primo è ora adeguatamente capitalizzato, gestito con professionalità, con una moderna cornice di regole e supervisione, e mostra indici di penetrazione e copertura migliore di quelli dei paesi in un analogo livello di sviluppo; il mercato di capitali è sostenuto da un sistema di fondi pensionistici che mobilita un crescente volume di risorse di risparmio e garantisce una fonte di finanziamento a medio e lungo termine.

In Cile, come pure in altri paesi dell’America Latina, la diversificazione della base produttiva interna è un obiettivo ancora da raggiungere. Si è tentato un miglioramento attraverso la promozione e la diffusione delle nuove tecnologie: sostegno all’aggiornamento tecnologico e alle competenze lavorative, come pure lo sviluppo finanziario in favore di quei settori che generano impiego e capacità di esportazione.

Una piccola parte della rendita del rame è stata riorientata verso l’innovazione, il rafforzamento della competitività dinamica e l’incorporazione delle Pymes (piccole e medie imprese) nel processo produttivo. Tutto ciò sarà fondamentale per continuare a procedere sul cammino dello sviluppo.

4. Nel 1990 le politiche sociali non erano solo una richiesta legittima della maggioranza della popolazione ma anche il modo più veloce per migliorare la distribuzione del reddito e per ridurre i possibili impatti negativi dell’apertura globale.

A una più ampia politica sociale e una riforma del mercato del lavoro si sono aggiunti servizi pubblici più efficienti e con maggior copertura. È stata creata una nuova istituzione, Mideplan (ministero della Pianificazione e della cooperazione), con il compito di coordinare una serie di azioni a favore di quei gruppi che hanno specifiche debolezze. La base territoriale dei servizi si è consolidata, con una partecipazione crescente dei municipi in ambito sociale.

Nel campo dell’istruzione si è cercato di aumentare la qualità e l’equità con programmi universali e focalizzati. In quello della sanità sono state introdotte e assicurate una serie di prestazione basilari. Sono state costruite più case per le classi medio-basse, con possibilità di riscatto collettivo. Allo stesso tempo è stato istituito un programma speciale contro l’indigenza, Chile solidario (Cile solidale), con un’estensione e un miglioramento dei benefici della rete di assistenza sociale.

Ci sono stati cambiamenti metodologici in alcuni programmi e servizi, come il Fosis (Fondo di solidarietà e investimento sociale), destinati alla riduzione della povertà. Sono stati creati programmi di promozione, con un’enfasi particolare in favore della partecipazione sociale e comunitaria e del capitale sociale, esaltando l’importanza dell’associazionismo con progetti, fondi e programmi a cui accedere attraverso concorsi pubblici. È stata studiata a fondo la tecnicizzazione della politica sociale mediante il perfezionamento degli strumenti esistenti e la valutazione dei processi, dei risultati e dell’impatto dei programmi. Le politiche hanno dato un maggiore risalto ai diritti e alle responsabilità, con diritti garantiti e un resoconto pubblico di quanto realizzato.

5. Oggi in Cile si assiste ad accesi dibattiti a proposito delle scelte da fare in futuro in diversi e specifici ambiti politici, anche se non sembra che venga messa in discussione l’attuale impostazione di fondo. Esiste la percezione generalizzata che il paese funziona.

L’integrazione nella società globale in un modo socialmente includente rappresenta la sfida storica di tutta l’America Latina. Non sembra esserci un compito programmatico più grande.

(traduzione di Giorgio Di Dio)


PER CHI VOLESSE, NEL LINK ALL’INIZIO CI SONO ANCORA DUE STUDI DI CUI UNO SUI MAPUCHE

 

 

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