+++ FEDERICO LARSEN, Questa volta è diverso: l’Argentina dei Fernández non sarà quella dei Kirchner–LIMESONLINE DEL 28 OTTOBRE 2019

 

LIMESONLINE DEL 28 OTTOBRE 2019

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Questa volta è diverso: l’Argentina dei Fernández non sarà quella dei Kirchner

 

Sostenitori di Cristina Kirchner festeggiano la vittoria di Alberto Fernández alle elezioni presidenziali argentine del 27 ottobre 2019. Foto di ALEJANDRO PAGNI/AFP via Getty Images.

Sostenitori di Cristina Kirchner festeggiano la vittoria di Alberto Fernández alle elezioni presidenziali argentine del 27 ottobre 2019. Foto di ALEJANDRO PAGNI/AFP via Getty Images.

 

 

La vittoria del candidato peronista Alberto Fernández contro il presidente uscente Mauricio Macri riapre le porte della Casa Rosada a Cristina Fernández de Kirchner, moglie di Néstor e a sua volta capo di Stato tra il 2007 e il 2015.Il contesto interno e internazionale è però mutato completamente.

 

di Federico Larsen

L’Argentina cambia. E a quanto pare lo fa più perché pentita del cammino intrapreso negli ultimi quattro anni sotto il presidente Mauricio Macri che perché entusiasta verso quello cominciato con le elezioni di domenica 27 ottobre 2019.


Il 10 dicembre il peronista Alberto Fernández, candidato dell’eterogeneo Frente de Todos con Cristina Fernández de Kirchner vicepresidente, prenderà le redini di un paese dalle possibilità limitate (e) dall’ampio indebitamento. Si impone da subito una fitta agenda di negoziazioni per dare al nuovo governo il margine di manovra necessario a compiere, almeno in parte, il suo programma elettorale.


Fernández ha promesso l’espansione delle politiche sociali, il rafforzamento del ruolo dello Stato nella distribuzione della ricchezza e un programma di incentivi alla produzione per riattivare l’economia, in recessione ormai per il secondo anno consecutivo. Secondo quanto detto in campagna elettorale, i soldi per portare a termine una agenda così ambiziosa ci sono: basta toccare i favolosi guadagni che il governo di Macri avrebbe garantito al settore finanziario e speculativo. Eppure, a prima vista, non sembrerebbe così facile.


Il primo grande ostacolo che Alberto Fernández dovrà affrontare è la negoziazione delle scadenze del debito con i creditori internazionali pubblici e privati. Secondo stime recenti il paese dovrà sborsare 156 miliardi di dollari, un quarto del pil, entro il 2023. Un importo chiaramente impagabile, parte dell’eredità che Macri lascia al suo successore. A settembre 2015 il debito totale dell’Argentina era pari al 45% del pil (258 miliardi di dollari), ora è schizzato all’86%. Gli interessi del debito estero sono aumentati del 114% tra il 2015 e il 2018, specialmente dopo l’accordo tra il governo e gli holdouts, i proprietari di bond argentini caduti in default nel 2001 che nel 2015 hanno ottenuto una sentenza favorevole nei tribunali di New York per il risarcimento della totalità del loro valore più gli interessi.


I vari problemi collegati a questa situazione sono quasi tutti di ordine politico. La maggior parte del debito (il 62% secondo un rilevamento ufficiale di giugno 2019) è in dollari, moneta che per ragioni internazionali ed endogene si è apprezzata enormemente negli ultimi anni. Quando Macri è arrivato alla Casa Rosada, la sede della presidenza argentina, il dollaro era mantenuto artificiosamente a 9,45 pesos; il giorno prima delle elezioni di domenica si vendeva a 64 pesos nel quartiere finanziario di Buenos Aires. Un aumento di oltre il 400% dovuto alla fiducia quasi religiosa del governo nella libertà totale del mercato di valute. Era stata proprio l’allora capo di Stato Cristina Kirchner (2007-2015, preceduta da suo marito Néstor ) a introdurre forti limiti alla compravendita di dollari.


L’Argentina è una delle economie più fragili del mondo secondo Bloomberg; avere siffatto debito in dollari e produrre – sempre meno – in pesos non è un equazione allettante in questa congiuntura. Specie se i settori in grado di esportare in cambio di dollari (quelli legati all’agro-alimentare) sono pochi e tutti strenui oppositori del progressismo peronista incarnato da Cristina. Ecco perché sia nella composizione delle liste elettorali sia presumibilmente in quella di governo, il nuovo presidente appare come un moderato, aperto al dialogo anche con settori ostili al suo schieramento.


Una cosa è certa: Alberto non è Cristina. Non solo perché i due, a prescindere dal cognome, non sono imparentati. L’ex presidente ha avuto un ruolo di spicco nella candidatura di Fernández, ma ha mantenuto sin dalla presentazione della coalizione Frente de Todos un profilo basso, lontano dalla retorica avvelenata che l’ha caratterizzata negli ultimi anni alla Casa Rosada. Acerrimi oppositori del suo operato, tra cui (dopo il 2008) lo stesso Alberto, formano parte di questo eterogeneo progetto; molti di loro hanno permesso a Macri di governare e approvare riforme nel solco dell’austerità pur non avendo la maggioranza legislativa. I primi dubbi sorgono quindi intorno alla capacità del prossimo presidente di portare a casa dagli incontri col Fondo Monetario Internazionale (Fmi) una proposta che accontenti sindacati, l’Unione Industriale, i movimenti sociali e i governatori locali, veri pilastri dell’exploit elettorale dell’esperimento politico in corso.

 

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Carta di Laura Canali

Il ritorno al potere di Kirchner, considerata dai mercati la responsabile delle politiche protezioniste dell’Argentina pre-Macri, ha influito negativamente sul rendimento internazionale dei titoli argentini. Oltre ad essere imputata in casi di corruzione, Cristina è associata internazionalmente con quella sinistra latinoamericana legata a figure come Hugo Chávez, Rafael Correa o Evo Morales.


Fernandez ha già preso posizioni che per lo zoccolo duro legato alla sinistra peronista di Cristina sono difficili da digerire: la preferenza verso una moneta deprezzata rispetto al dollaro, la condanna della “deriva autoritaria” in Venezuela. Bisognerà vedere nei prossimi mesi se l’accettazione di tali posizioni era puro calcolo elettorale o se i settori che rispondono all’ex presidente sono disposti a mantenere le fila dietro al nuovo esecutivo. Oltre alla classica distribuzione di incarichi per accontentare un po’ tutti, Alberto potrà giocare la carta della legislazione sociale, già intrapresa da Cristina ai tempi, per dare ai settori più frizzanti dell’alleanza qualche vittoria da mostrare in ambiti non strutturali: la legalizzazione dell’aborto e del consumo di marijuana sono in cima alla lista.


Nei prossimi mesi si potrebbe assistere a una drastica revisione dell’allineamento internazionale del governo argentino. Tra le mosse più prevedibili, l’abbandono del Gruppo di Lima sul Venezuela e l’adesione esplicita al più moderato Gruppo di Puebla, assieme al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, a quello uscente dell’Uruguay Tabaré Vázquez, all’ex primo ministro spagnolo Zapatero e agli ex presidenti del Brasile Lula da Silva e Dilma Rousseff.


Fernández sa di arrivare al potere in un contesto regionale molto instabile. Solamente negli ultimi tre mesi, gravissime crisi si sono registrate in Perù, Ecuador, Cile e nubi oscure cingono i risultati delle elezioni del 20 ottobre in Bolivia. Il principale socio commerciale dell’Argentina, il Brasile, sta attraversando un periodo di contrazione economica. E dal punto di vista politico, il presidente Jair Messias Bolsonaro ha già chiarito la sua posizione pochi giorni prima delle elezioni argentine: in caso di vittoria del peronismo, ha sostenuto la settimana scorsa, è disposto a sospendere l’Argentina dal Mercosur pur di non avere a che fare con Cristina Kirchner. Il primo passo in questo senso lo ha già fatto, anticipando il prossimo summit del blocco al 5 dicembre, per evitare la presenza del nuovo governo del paese vicino.


Eppure il peronismo della nuova coalizione al potere in Argentina non può certo essere associato al bolivarismo del Venezuela. Un po’ per ragioni ideologiche, essendo Fernández oggi uno dei difensori più in vista dell’idea di conciliazione interclassista che sta alla base della dottrina peronista; un po’ per ragioni congiunturali, visto il palese sfacelo in cui è caduta la corrente chavista in tutto il continente. Per questo Alberto ha fatto il possibile per svincolarsi dall’associazione che a livello internazionale si è fatta della sua figura con quella della Kirchner. Ha visitato la Spagna, con cui l’ex presidente ebbe un durissimo scontro a causa della nazionalizzazione della compagnia petrolifera YPF controllata da Repsol, e il premier Sánchez ha dimostrato il suo apprezzamento nei confronti del candidato peronista. I suoi consiglieri economici, in maggioranza liberali, si sono riuniti con i rappresentanti dell’Fmi e della Banca interamericana per lo sviluppo. Fernández sa che il suo profilo internazionale sarà una carta importantissima da giocare nelle trattative sul debito e sugli investimenti, da cui dipende il successo del suo governo.


Anche sul fronte interno la situazione è delicata. L’elettorato attende a breve un miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Fmi, il paese chiuderà il 2019 con un’inflazione del 57,3%, la terza più alta al mondo. L’organismo stima che l’economia quest’anno calerà del 3,1%, la settima peggior performance globale; si prevede altresì che nel 2020 l’inflazione sarà del 39% e la contrazione economica del 1,3%. Insomma, per il prossimo presidente sarà una vera e propria sfida far sentire a chi lo ha votato che la strada della ripresa è stata imboccata.


Un buon banco di prova sarà la transizione del potere nella provincia di Buenos Aires, la più popolosa del paese, dove l’ex ministro dell’Economia di Cristina, Axel Kicillof, ha stravinto contro la dirigente più in vista del macrismo, Eugenia Vidal. Buenos Aires è tra le provincie più indebitate ed è sul baratro di una grave crisi. Il resto del mondo osserverà con attenzione se il passaggio di testimone avverrà in modo ordinato o se si cadrà nell’infantilismo dimostrato nell’avvicendamento tra Cristina e Macri del 2015. Già durante la notte di domenica banchieri e investitori ponevano l’accento sull’importanza dei toni da usare onde evitare di dare un’impressione di inaffidabilità istituzionale che porterebbe turbolenze esterne evitabili. Le dichiarazioni di Macri e Fernández alla chiusura dei seggi domenica notte sono di buon auspicio.


In America Latina, povertà e debito non sono due flagelli risolvibili nello stesso momento.All’inizio del XXI secolo, e a fronte del boom dei prezzi delle materie prime che i paesi sudamericani esportavano, si era riusciti a stabilire un modello che aveva ridotto disuguaglianze e debiti in modo soddisfacente, ma aveva creato altri problemi sistemici. I governi di destra come quello di Macri erano arrivati al potere assicurando di avere la ricetta giusta per risolverli; stando al caso argentino, li hanno solo peggiorati.


Quello di Alberto Fernández sarà sicuramente un governo teso all’equilibrio: nei negoziati coi debitori, nella coalizione di governo, nelle relazioni interne al Mercosur, nel posizionamento internazionale. Non può, ora, permettersi uno sbilanciamento esagerato come quello di Cristina nei primi anni Duemila. Un passo falso in un ambito metterebbe a rischio l’equilibrio in un altro settore dell’azione governativa.


La moderazione finora gli è valsa la vittoria alle elezioni presidenziali. Ora dovrà pensare come sostenerla nel tempo.

 

 

Carta di Laura Canali

Carta di Laura Canali

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