ENRICO DEAGLIO, Strage Piazza Fontana: il quadro della situazione — REPUBBLICA.IT / IL VENERDI’ – 27 NOVEMBRE 2019

 

REPUBBLICA.IT / IL VENERDI’ – 27 NOVEMBRE 2019

https://rep.repubblica.it/pwa/venerdi/2019/11/27/news/il_quadro_della_situazione-242037327/

 

 

La Banca nazionale dell’agricoltura in Piazza Fontana, Milano, dopo l’attentato del 12 dicembre 1969 (Perrucci/ RCS/ Contrasto)

 

 

il venerdì- 

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Strage Piazza Fontana: il quadro della situazione

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27 NOVEMBRE 2019
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Si intitola I funerali dell’anarchico Pinelli e lo dipinse Enrico Baj pensando a Guernica di Picasso. Solo ora però ha trovato degna collocazione. Perché la sua è una storia complicata. Inizia con una bomba

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DI ENRICO DEAGLIO

 

 

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MILANO. La verità su Piazza Fontana? Sta in un deposito della famosa Galleria Fondazione Marconi di via Tadino. È una “cosa” molto grande – 13 pannelli di panforte di betulla finlandese – ormai vecchia di 47 anni e quindi deve essere trattata con cura, smontata e rimontata, protetta, mantenuta. Per decenni è stata considerata troppo pericolosa; forse ora, finalmente, rivedrà la luce. È un quadro. La storia comincia così. Il 12 dicembre 1969, per la prima volta in Europa dalla fine della guerra, il terrorismo arriva nel centro di una grande città. A Milano una bomba viene collocata in una banca affollata: 17 morti, 80 feriti.Passerà alla storia come “la strage di Piazza Fontana”, il primo tentativo di colpo di Stato in Italia, l’inizio di una stagione di piombo che ci ha accompagnato per decenni e di un’avvilente stagione di depistaggi, furti di verità, impotenze giudiziarie, che ancora oggi non è finita.

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Tutto, di quei giorni, rimanda a un’emozione fortissima: la polizia che annuncia subito di aver trovato i colpevoli, gli anarchici, e di aver arrestato un ballerino, Pietro Valpreda, come autore materiale dell’attentato; i funerali delle vittime, con la presenza muta e maestosa del popolo milanese, che impedì, con il suo silenzio, che chiunque provocasse i disordini attesi per proclamare la necessità di uno “stato di emergenza”. La precipitazione, dal quarto piano della Questura, di Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico che la polizia immediatamente archivia come “suicidio” e, anzi, prova di colpevolezza.

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Oggi, mezzo secolo dopo, si può dire – senza bisogno nemmeno di bisbigliarlo –   che gli anarchici non c’entravano niente, che le bombe le mise un potente gruppo nazifascista, che agiva con la copertura dei vertici del ministero degli Interni; e che polizia, servizi segreti, uomini politici hanno costantemente mentito per mezzo secolo, allo scopo di difendere le proprie carriere o per proteggere i potenti terroristi. Ma, allora, non c’era neppure un brandello di verità. C’era piuttosto un clima cupo, le “autorità” all’unisono parlavano un cupo linguaggio: polizia, giornali, magistrati, Chiesa, televisione (c’era solo la Rai, in bianco e nero), dicono tutti la stessa cosa: sono stati “i rossi”, ma li abbiamo scoperti in tempo. Le collezioni dei giornali mostrano i partiti politici, il Parlamento stesso, fortemente intimiditi da quanto è successo, smarriti. Il capo dello Stato, Giuseppe Saragat, volutamente assente.  Dissentire può costare caro, il prefetto di Milano ha vietato le manifestazioni, gli studenti universitari sfidano il divieto, davanti a loro si mette un gruppo di giornalisti, scrittori e poeti: sono i primi a essere presi a manganellate.

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I muri parlano

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Passano i mesi, e questa cupezza non passa; ma siccome l’Italia non è in Sud America, ma è pur sempre un Paese democratico e non si può certo arrestare tutti quelli che dubitano, ecco  che i muri cominciano a parlare, ecco che circolano, stampate sui 45 giri, ballate che narrano “la triste fine dell’anarchico Pinelli”, cantastorie improvvisati le suonano nelle piazze, “giornalisti democratici” si trasformano in detective, qualche maglia della corazza del silenzio si rompe e lascia passare qualche refolo di verità… E qui comincia la nostra incredibile storia, perché tra i tanti che non credono, e che sono indignati per il livello di ferocia e di manipolazione che è messo in atto, c’è un artista famoso.

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Si chiama Enrico Baj, milanese del 1924, formatosi all’Accademia di Brera e sulle idee dei pensatori anarchici e dei surrealisti, amico di Breton e Duchamp, pittore, ceramista, scultore che privilegia nelle sue composizioni i grandi temi della guerra, del militarismo, della disumanizzazione portata dalla tecnica. Baj è un artista internazionale, esposto in tutto il mondo e dunque è normale che il Comune di Milano lo contatti per organizzare una retrospettiva della sua opera. Il sindaco è il socialista Aldo Aniasi, comandante partigiano delle Brigate Garibaldi, uno dei pochi nelle istituzioni della città che non crede alla colpevolezza degli anarchici. L’assessore alla Cultura, del Psdi, è il giovane Paolo Pillitteri, appassionato di arte e di cinema, ed è lui a prendere contatto con il Maestro. Baj è onorato della proposta, ma ne ha un’altra. Perché non facciamo invece un’opera nuova, attuale, che lasci il segno, che sia il simbolo della Milano di oggi? Un solo quadro, da esporre nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale – duramente colpita dai bombardamenti del 1943 e lasciata volutamente uguale, a testimonianza degli orrori della guerra – un’opera che si sarebbe chiamata I funerali dell’anarchico Pinelli. Sarebbe stata un omaggio ai primi futuristi milanesi, più grande della Guernica di Picasso, e altrettanto rivoluzionaria. Pillitteri accettò con entusiasmo: opportunità così non capitano spesso.Ma che cosa c’entrava Guernica con l’anarchico Pinelli? Per Enrico Baj, il legame era evidente.

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Guernica è l’antichissima cittadina basca che il 26 aprile 1937 venne bombardata dalla Luftwaffe nazista e da una squadriglia di caccia Siai Marchetti dell’aviazione fascista durante la guerra civile spagnola. La città fu praticamente distrutta, centinaia di abitanti morirono. Fu il primo bombardamento aereo su una città e Hermann Göring lo definì, in privato, un “laboratorio” della guerra mondiale che sarebbe venuta; in pubblico la Germania nazista negò addirittura di averlo compiuto.

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All’epoca, la Repubblica socialista spagnola era ancora in sella, anche se il bombardamento di Guernica fu una campana a morto, e riuscì ad allestire  un padiglione all’expo internazionale di Parigi.

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Strano paesaggio, quello parigino: l’Urss di Stalin costruì un padiglione di cemento sormontato da una colossale statua di acciaio alta 25 metri, con un operaio con il martello e una contadina con una falce: i due puntavano a Ovest; la Germania di Hitler rispose con uno spropositato parallelepipedo di marmo bianco con un’aquila e una svastica, lo scudo dell’Occidente all’invasione comunista che veniva da Est; la piccola Repubblica spagnola, ormai in bancarotta, si rivolse a Pablo Picasso, che viveva in Francia – l’artista più famoso del mondo e ovviamente di simpatie repubblicane – perché facesse “qualcosa”.

 

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Picasso accettò, ma non aveva idee, fino a quando non giunse la notizia del bombardamento di Guernica. E allora in un furore creativo dipinse quello che nessuno aveva mai fatto prima, se non Goya: l’oscenità della guerra, la carne degli animali sventrati, il toro morente, gli effetti di una bomba in una stalla, il ventre di una donna, la luce elettrica di una lampadina unico colore in un mondo ridiventato grigio e nero,  primordiale.

 

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Come si sa, due anni dopo i franchisti vinsero la guerra, la Spagna degli anarchici e dei socialisti fu spazzata dalla Terra, Hitler e Stalin si accordarono e cominciò il grande massacro di cui Guernica era stato il laboratorio e di cui Dresda e Hiroshima saranno la fine

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.Quel corpo che cade

Il milanese Enrico Baj in quegli anni era adolescente. Guernica divenne una leggenda, non si sapeva dove fosse; ma poi, come in una fiaba, arrivò a Milano (un prestito temporaneo di Picasso ai suoi amici artisti e comunisti italiani) e fu esposta nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. Era il 1953, in Italia un anno buio, conformista. Enrico Baj fu tra i trecentomila milanesi che andarono a vederla, come si va a vedere qualcosa di vietato, ma enorme. All’epoca, il Comune di Milano, uno dei pochi retti dalla sinistra, rimborsò il biglietto del treno a chi veniva da fuori per vedere Guernica.

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E ora immaginatevi il pittore, nel 1971, quando riceve la proposta di Pillitteri.

La bomba di Piazza Fontana continua a bruciare, a Reggio Calabria i fascisti hanno guidato una rivolta di sei mesi, cui è seguito un altro tentativo di colpo di Stato, l’arroganza della polizia ricorda quella dell’esercito francese nell’affaire Dreyfus di fine Ottocento: quando un anziano giudice chiede di riesumare il cadavere di Pinelli, viene insultato e mandato sotto processo.

 

 

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ENRICO BAJ ( 1924 – 2003 )

 

 

Alcuni tra i migliori nomi della cultura italiana, 700 firme, chiedono che si ponga fine a questo scandalo, ma non vengono ascoltati.  Baj dipinge, in solitudine per mesi nello studio di via Gabba a Brera, mentre fuori la violenza è ovunque: un pensionato ucciso da un candelotto di fronte alla Scala, Giangiacomo Feltrinelli trovato morto sotto un traliccio, un ragazzo anarchico di Pisa ucciso di botte in prigione.

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All’inizio del ’72, però, due spiragli di verità si sono aperti. A Treviso un magistrato solitario è riuscito a scoprire esecutori e mandanti della bomba, a Milano un coraggioso procuratore generale ha indagato i vertici della Questura di Milano per la morte di Giuseppe Pinelli.

 

Enrico Baj è in corsa contro il tempo; chi ha visto l’opera ne è rimasto impressionato: c’è un corpo che cade in mezzo al quadro di 12 metri per tre, a destra le maschere del potere, senza volto e ornati di medaglie e orpelli e pugnali; a sinistra gli amici dell’anarchico che lo piangono allibiti, davanti  le due figlie piccole che si coprono gli occhi. In alto, elemento mobile, una luce gialla dal soffitto mostra una carta da parati e quattro mani (una languida, una rattrappita, una chiusa, una aperta).

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PIETRO VALPREDA E LUCIANO LANZA

 

 

“Il corpo che cade siamo noi tutti” disse Baj. Il vernissage era stato fissato per le 21 del 17 maggio e gli inviti, per il grande avvenimento artistico-politico-mondano, erano stati mandati a tutte le autorità. Il sindaco sarebbe stato in prima fila, forse sarebbero venuti anche il procuratore, il prefetto, il questore, il direttore del grande giornale; e il popolo di Milano.

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Ma lo stesso 17 maggio alle 9.30 di mattina, il commissario Luigi Calabresi, il più noto tra i poliziotti di Milano accusati per la morte di Pinelli, venne assassinato da un sicario sotto casa.

Fermi tutti

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Il Comune sospese immediatamente la mostra, per “motivi tecnici”; il catalogo venne ritirato, i manifesti vennero coperti, il quadro condannato all’oblio.  Veniva considerato offensivo per la polizia e per Milano che in quei giorni celebrava con enormi funerali di popolo il commissario Calabresi, vittima di una campagna d’odio; poi il quadro fu accusato di essere: l’ordine istigatore della violenza, come erano stati gli intellettuali, come era stato il sindaco stesso. Una specie di arte degenerata, insomma.

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Si narra che quando Guernica venne esposto al padiglione spagnolo di Parigi, l’ambasciatore tedesco lo andò a vedere e incontrò Picasso. Gli domandò: “Avete fatto voi questo?”, e Picasso rispose: “No, l’avete fatto voi”.

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A Enrico Baj nessuno chiese niente: I funerali vennero condannati all’oblio. Guernica, simbolo universale della forza dell’arte contro la guerra, tornò in patria solo dopo la morte di Francisco Franco e è oggi esposto al Reina Sofia di Madrid, simbolo della Spagna moderna.

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I funerali dell’anarchico Pinelli troverà posto permanente, dopo 47 anni, a Palazzo Citterio, nel quartiere Brera, e si spera possa diventare un simbolo di Milano, indicato nei percorsi turistici insieme al Cenacolo di Leonardo, venduto come magnete da frigorifero, T-shirt, tazza da caffè: sarebbe bello.

Il risarcimento per il primo che aveva scoperto la verità sulla strage di Piazza Fontana.

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Sul Venerdì del 29 novembre 2019

 

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