TOMASO MONTANARI, Com’erano gialli gli alberi di Gauguin –REPUBBLICA.IT / VENERDI’ / 24 LUGLIO 2018

 

 

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Parigi, Centre Pompidou, 2006: visitatori a una mostra di Yves Klein (1928-62), che iniziò con dipinti monocromi in vari colori per poi concentrarsi sul blu (Getty Images)

 

 

l venerdì Scienza

Com’erano gialli gli alberi di Gauguin

24 LUGLIO 2018

I primi a osare furono gli olandesi del ‘600. E l’Italia, fino all’arrivo di Caravaggio, guardava con sospetto alla seduzione cromatica. Finalmente, con gli Impressionisti, liberi tutti

DI TOMASO MONTANARI

«I suoi mancamenti aumentavano; egli fissava lo sguardo, come un bambino su una farfalla gialla che vuole catturare, sulla preziosa piccola ala di muro.

“È così che avrei dovuto scrivere – diceva – I miei ultimi libri sono troppo scarni, sarebbe stato necessario passare parecchi strati di colore, rendere la frase in se stessa preziosa, come questa piccola ala di muro giallo”.

Tuttavia la gravità dei suoi capogiri non gli sfuggiva. In una bilancia celeste gli appariva, su uno dei piatti, la sua stessa vita, mentre l’altro conteneva la piccola ala di muro dipinta così bene di giallo. Sentiva di aver dato incautamente la prima per la seconda».

Così muore lo scrittore Bergotte, in una delle pagine più celebri della Recherche di Marcel Proust. Ossessionato non da una parola, da una storia o da un concetto, ma da un colore: il giallo scelto da Jan Vermeer per un dettaglio della sua Veduta di Delft.

 

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VEDUTA DI DELFT  – 1660/ 61

 

DETTAGLIO

 

 

 

Qualche anno prima, proprio i colori scelti da questo gigante della pittura del Seicento avevano conquistato la fantasia di un altro olandese destinato a una fama non meno importante: «Conosci un pittore di nome Jan Vermeer? – aveva scritto Vincent Van Gogh all’amico Émile Bernard –La tavolozza di questo strano artista comprende l’azzurro, il giallo limone, il grigio perla, il nero e il bianco. È vero che nei quadri che ha dipinto si può trovare l’intera gamma dei colori, ma riunire il giallo limone, l’azzurro spento e il grigio chiaro è in lui caratteristico come in Velázquez armonizzare il nero, il bianco, il grigio e il rosa. Gli olandesi non avevano immaginazione, ma avevano un gusto straordinario, e un senso infallibile della composizione».

Non sarebbe facile trovare una lettera in cui un artista italiano della fine dell’Ottocento parli di un antico maestro del nostro Paese in termini di colori: perché da noi l’impalcatura della tradizione classica, l’importanza del soggetto, la prossimità alla letteratura e il primato del disegno hanno sempre indotto a guardare con sospetto alla seduzione cromatica.

Nei primissimi anni del Seicento, di fronte al travolgente successo di Caravaggio, che non disegnava ma “coloriva” direttamente, il principe della tradizione manierista Federico Zuccari tuonava contro l’«arte senz’arte, ingegno senz’ingegno: pasce l’occhio, e contenta l’ignoranza di bei colori, senz’alcun disegno».

Di lì a poco la si buttò in politica: «Il popolo – scrisse qualche decennio dopo Giovan Pietro Bellori –, che riferisce tutto al senso dell’occhio, apprezza li belli colori e non le belle forme, che non intende».

C’è forse anche questo sospetto radicale tra le ragioni dell’assenza di una vera storia dei colori: una storia che ha iniziato a prendere forma solo in anni assai vicini a noi, e non per opera di storici dell’arte, ma di storici e antropologi come Michel Pastoureau, al quale si devono, tra l’altro, i bellissimi volumi dedicati alla storia del blu, del verde, del nero, del rosso.

Ma non si tratta solo degli antichi pregiudizi umanistici contro l’inganno dei sensi: il fatto è che i colori sono “relativi” come davvero poche altre cose. Relativi perché la loro percezione è intimamente legata alle condizioni della luce, come diceva già Leon Battista Alberti nel suo trattato sulla pittura (1435): «Parmi manifesto che i colori pigliano variazione dai lumi, poi che ogni colore posto in ombra pare non quello che è nel chiarore. Fa l’ombra il colore fusco, e il lume fa chiaro ove percuote. Dicono i filosofi nulla potersi vedere quale non sia luminato e colorato». Basterebbe, dunque, l’invenzione della luce elettrica a farci disperare di poter “vedere” i colori come li vedevano Giotto o Tiziano. Una consapevolezza, questa, che rende assai preziosi i rari tentativi di provarci: come accade, con esiti sublimi, nel Barry Lyndon di Stanley Kubrick, girato quasi tutto o alla luce naturale o a quella delle lampade a olio e delle candele. Ma non è solo la mutazione delle luci a rendere difficile una storia del colore, bensì anche quella del gusto: lo dimostra la nostra astratta idea “neoclassica” di una antichità tutta candida, capillarmente smentita dalle prove del diluvio cromatico che copriva le statue di marmo e di bronzo e le architetture greche e romane. In più, la storia dei colori non conosce gli uomini soli al comando così cari ai nostri modelli storico-biografici: è invece una storia collettiva, trans-nazionale e necessariamente interdisciplinare. È il caso della “porpora”: un colore estratto da un mollusco che dal tempo dei Fenici giunge a costruire il simbolo fondamentale della dignità imperiale romana e bizantina, e ancora oggi dà il nome, se non più la materia, alle vesti dei cardinali di Santa Romana Chiesa, in una lunghissima e ininterrotta migrazione simbolica. O quello dell’«azzurro oltramarino, che si è un colore nobile, bello, perfettissimo oltre a tutti i colori; del quale non se ne potrebbe né dire né fare quello che non ne sia più» (così Cennino Cennini, nel suo Libro dell’arte, della fine del Trecento): il principe dei colori medioevali, il colore del cielo, del mantello della Vergine Maria e della tunica di Cristo, che veniva ricavato con i lapislazzuli scavati nelle impervie miniere montane dell’attuale Afghanistan. Un colore costosissimo, a cui i committenti dedicavano lunghe e cautelose clausole nei contratti con gli artisti. Il rosso del sangue dei martiri e il blu del paradiso: questione di simboli, e di convenzioni.

Eppure, noterà Gottfried Wilhelm Leibniz intorno al 1700, noi conosciamo i colori «solo attraverso la mera evidenza sensoriale, e non attraverso caratteristiche esprimibili. Così non possiamo spiegare a un cieco cosa sia il rosso, né possiamo spiegare queste cose se non ricordando una passata esperienza di esse».

E, rincarerà la dose un altro filosofo, Ludwig Wittgenstein: «Se ci chiedono: “che cosa significano le parole rosso, blu, nero, bianco?” possiamo certo indicare immediatamente degli oggetti di tali colori. Ma la nostra capacità di spiegare il significato di queste parole non si spinge oltre». Non sappiamo spiegarli, e non sappiamo definirli, i colori. Ma sappiamo riconoscerli: e su poche cose la nostra tradizione artistica è stata altrettanto conservatrice.

In pieno Seicento l’erudito fiorentino Carlo Roberto Dati si scagliava con veemenza contro l’«errore nel quale cadono molti pittori moderni, facendo carnagioni che non si trovano in natura … e contenti della sola apparenza, mediante la semplice vivacità e leggiadria delle lacche, degli azzurri e degl’altri colori nuovamente messi in uso, si pensano d’oscurar la gloria di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, del Correggio i quali… con poche tinte, ma vere e naturali… hanno fatto quelle maraviglie dell’arte che ci fanno trasecolare».

E chissà cosa avrebbe detto Dati se avesse visto ciò che sarebbe successo ai suoi colori solo due secoli dopo, quando Paul Gauguin diceva ai suoi discepoli: «Come vedete questi alberi? Ebbene, se vi sembrano gialli, allora fateli gialli!».

È da questa breccia che sgorga la divinizzazione contemporanea del colore-feticcio: dall’oro puro di Gustav Klimt fino al blu-marchio di Yves Klein, e all’astrattismo neo-giottesco dei blocchi di colore di Mark Rothko (e quindi ai mentalismi di Barnett Newman o alle partiture elegantissime di Frank Stella), passando per l’antiretorica di Piet Mondrian (che ostentava il suo disprezzo per il verde: «un colore inutile»), e poi attraverso la pioggia liberatoria di Jackson Pollock.

Una inaudita libertà, una perdita di contatto con la realtà? In verità, i colori erano sempre serviti a interpretare il mondo: e spesso anche a staccarsene, a superarlo, a dimenticarlo. Nel XII secolo l’abate Suger di Saint Denis, che potremmo chiamare con qualche retorica l’inventore del gotico, aveva scritto parole forse insuperabili sull’effetto provocato dal colore dell’oro e delle gemme che trionfavano nella sua chiesa abbaziale, e dalla luce colorata che pioveva dalle grandi vetrate: «Questa caleidoscopica leggiadria mi distrae dalle preoccupazioni terrene… mi sembra di vedere me stesso in una regione sconosciuta del mondo, che non è nel fango della terra, né si trova del tutto collocata nella purezza del cielo». L’esaltazione di un mistico? Forse solo la capacità di lasciarsi attraversare dal colore della vita.

Otto secoli dopo, un poeta per nulla misticheggiante come Eugenio Montale scriverà che

«quando un giorno, da un malchiuso portone / tra gli alberi di una corte, / ci si mostrano i gialli dei limoni; / il gelo del cuore si sfa, / e in petto ci scrosciano / le loro canzoni / le trombe d’oro della solarità».

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1 risposta a TOMASO MONTANARI, Com’erano gialli gli alberi di Gauguin –REPUBBLICA.IT / VENERDI’ / 24 LUGLIO 2018

  1. Donatella scrive:

    Bella questa digressione sull’importanza e la forza del colore e dei colori e bellissima la poesia di Montale.

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