TOMASO MONTANARI : DALLA PARTE DEL TORTO. PER LA SINISTRA CHE NON C’E’, CHIARELETTERE, GENNAIO 2020 +++IL FATTO QUOTIDIANO+ MICROMEGA + VOLERE LA LUNA :: RIPORTANO BRANI INTERESSANTI DEL LIBRO, grazie a tutti ! –links sotto

 

 

 

IN QUESTO LINK POTETE LEGGERE UN ESTRATTO –auguri perché ch. non ce l’ha fatta !

 

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Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è

Tomaso Montanari

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Editore: Chiarelettere
Collana: Reverse
Anno edizione: 2020
In commercio dal: 23 gennaio 2020
Pagine: 146 p., Brossura
15 EURO, PREZZO PIENO

Descrizione

Il piccolo libro che state per leggere è l’invito a una ribellione intellettuale ed emotiva: un invito a liberare la parte di noi che è rimasta fedele alle aspirazioni, alle convinzioni, all’etica di quando eravamo bambini.

«Non possiamo continuare a vivere così.»

 

È il paradosso della nostra epoca: non si può non essere contro se si ama davvero la vita. Quanto più grande è il nostro amore per gli uomini e per le cose belle di questo mondo, tanto più grande è il desiderio di cambiarlo, il mondo. Perché questo «sistema sociale ed economico» non è più compatibile con i diritti umani. Con l’esistenza stessa dell’uomo su questo pianeta. Ci vuole il coraggio di vederlo, e di dirlo. Un coraggio che avevamo, e che abbiamo perduto quando ci siamo fatti convincere che diventare adulti significa accettare il mondo così com’è. Il piccolo libro che state per leggere è l’invito a una ribellione intellettuale ed emotiva: un invito a liberare la parte di noi che è rimasta fedele alle aspirazioni, alle convinzioni, all’etica di quando eravamo bambini. L’obiettivo di una sinistra che voglia cambiare il mondo non è il potere sulla società, ma il potere nella società: il potere, dato a tutte e tutti, di salvare la propria vita dal dominio del mercato. Il potere nei luoghi di lavoro, nelle lotte per le donne, per la difesa dell’ambiente, il potere della conoscenza e del pensiero critico aperto a tutti.

 

 

IL FATTO QUOTIDIANO DEL 23 GENNAIO 2020

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/23/un-manifesto-per-la-sinistra-che-non-ce/5682474/#

 

 

IN EDICOLA/COMMENTI

Un manifesto per la sinistra che non c’è

di Tomaso Montanari | 23 GENNAIO 2020

 

 

Da oggi in libreria per Chiarelettere l’ultimo libro di Tomaso Montanari, “Dalla parte del torto”. Ne pubblichiamo uno stralcio.

 

Abbiamo molte cose per cui vale la pena di combattere: una democrazia vera, un Parlamento vero e la partecipazione di tutti alla vita democratica. Un conflitto vero, per una vera giustizia sociale. Una società umana, un’idea forte di collettività. Una ricostruzione dello Stato: di uno Stato giusto, capace di affermare e difendere l’interesse generale. L’amore per la Terra: la sostenibilità della nostra esistenza. Un’altra modernità. Il diritto di tutti alla vita. La liberazione dei corpi dal potere. La dignità della persona umana: riconosciuta a ogni concreto essere umano.

Ma la prima battaglia da vincere è quella per cambiare noi stessi. Liberandoci dalle credenze, dalle pigre ovvietà solo apparentemente vere: come l’ossessione di andare al governo. Un’ossessione che dà forma a tutti gli altri obiettivi politici (personali e collettivi): che sarebbero la visibilità mediatica, il successo, la vittoria. Il potere del capo.

La verità è che si tratta di falsi dèi: di idoli da abbattere perché sono altrettanti ostacoli alla costruzione di una sinistra che da troppo tempo non si chiede invece perché vuole arrivare al governo, cioè per fare che cosa.

 

La consapevolezza davvero cruciale è che governare è solo una parte della politica: e non la più importante.

Ciò che vogliamo non è il potere sulla società, ma il potere nella società: il potere, dato a tutte e tutti, di salvare le proprie vite dal dominio del mercato. Il potere nei luoghi di lavoro, nelle lotte per le donne, per la difesa dell’ambiente, il potere della conoscenza e del pensiero critico aperto a tutti: questo potere diffuso e democratico è il vero obiettivo di una sinistra che voglia cambiare il mondo e non solo le vite dei suoi rappresentanti.

 

È un’idea diversa della politica, ed è un’idea che permeò profondamente la stagione della Resistenza: per poi venire tradita dalla “politica politicata” dei grandi politici di professione, tutti immersi nel gioco del potere. La reciproca incomprensibilità tra le lotte quotidiane e diffuse della democrazia di ogni giorno e la “politica del governo” è, ancora oggi, alla base dello scollamento tra la sinistra che esiste e resiste per le strade del Paese e la sua rappresentanza politica.

 

Quello scollamento non è solo un problema da risolvere, è la chiave per comprendere cosa coltivare, dove cercare, in cosa sperare. Non è dall’alto, neanche oggi, che si può ripartire: ma dal basso delle associazioni, dei comitati spontanei di ogni tipo, dei centri sociali, dei preti di strada, delle scuole di periferia, del lavoro ben fatto di chi vive in comunione con la terra e con le cose. Dal basso delle lotte quotidiane, delle vertenze, delle “intelligenze contro” che accendono, nonostante tutto, il Paese.

 

È solo battendo strade come queste che si può evadere dalla stanza senza porta e senza finestre in cui il discorso pubblico italiano ha murato il futuro della sinistra politica: quella in cui, per esistere politicamente, bisogna fondare un partito, candidarsi alle elezioni e cercare di andare al governo. Messa in quei termini forzati, la sinistra che non c’è non ci sarà mai. Perché un partito, le elezioni, il governo sono le possibili conseguenze di una esistenza nella realtà: non ne sono il presupposto.

 

E, più profondamente, perché “un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere in queste grida altro che rumore”: le grida di cui parla Simone Weil sono quelle di coloro a cui “viene fatto del male”. La sinistra “astratta” – quella delle idee, quella della sacrosanta difesa della dignità della persona umana, quella della necessaria rappresentanza politica – non può esistere se non passando attraverso la sinistra concreta. Che non è solo l’unica sinistra che possiamo avere qui e subito: è anche l’unica sinistra che il mondo lo cambia davvero.

 

 

REPUBBLICA.MICROMEGA — 24 GENNAIO 2020

http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-naufragio-leaderistico-della-democrazia/

 

 

 

Il naufragio leaderistico della democrazia

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Il culto dell’uomo forte a cui delegare decisioni e perfino pensieri ha mutato la nostra democrazia in una dittatura di minoranze artificialmente trasformate in maggioranze parlamentari grazie a leggi elettorali maggioritarie. Anticipiamo uno stralcio dell’ultimo libro di Tomaso Montanari: “Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è”, in questi giorni in libreria per Chiarelettere.

di Tomaso Montanari

 

Accanto alla schiavitù del bisogno e a quella dell’ignoranza, una terza catena frena ogni tentativo di scardinare l’oligarchia: si tratta di una catena insieme istituzionale e culturale. Il culto della ‘democrazia-che-decide’, il disprezzo per le lentezze dei Parlamenti, la diffusione sfrenata del culto di leaders a cui delegare le decisioni e perfino il pensiero, hanno condotto alla mutazione della democrazia in una dittatura di minoranze artificialmente trasformate in maggioranze parlamentari grazie a leggi elettorali maggioritarie. I partiti politici – che la nostra Costituzione prevede quali ingranaggi fondamentali della macchina di una democrazia parlamentare fortemente radicata nel Paese e nei suoi corpi sociali – si sono trasformati in palcoscenici per capi più o meno carismatici, designati (quando non attraverso meccanismi padronali: come nel caso di Forza Italia, o del Movimento 5 Stelle) per mezzo di primarie aperte ai non iscritti, un meccanismo che rende poi impossibile ogni dinamica democratica interna.

La conquista del Partito Democratico da parte di Matteo Renzi e della sua cerchia di amici è stata di fatto una scalata dall’esterno (culturalmente e politicamente parlando), resa possibile dalla dissoluzione personalistica e leaderistica di ogni idea di partito politico.

Del resto, anche a sinistra si era iniziato a scrivere il nome del leader nel simbolo (lo fece Sinistra Ecologia e Libertà «con Vendola», alle regionali del 2010) sancendo anche su questo piano l’introiettamento di una egemonia culturale di destra: non la collettività ma il capo, non la forza del dissenso interno ma l’acclamazione di un demiurgo-condottiero-messia che ‘porterà alla vittoria’.

Il neofeudalesimo sociale porta dunque ad una regressione neomedievale dell’immaginario politico, senza nemmeno la presenza dei corpi sociali ben vivi e attivi nel Medio Evo europeo. Proprio nella Germania medioevale viene coniato il ben noto motto «Stadtluft macht frei», l’aria della città rende liberi. Varcare le mura urbane voleva dire liberarsi dalle catene della servitù della gleba, e indossare i panni (letterali e metaforici) di una libertà borghese, una libertà sociale e politica. Oggi, al contrario, proprio le città hanno incubato a lungo il naufragio leaderistico della democrazia: l’elezione diretta dei sindaci (1993) è stata il laboratorio del personalismo, e del ‘presidenzialismo culturale’ che oggi scontiamo. Non per caso quella riforma ebbe luogo mentre iniziava lo smontaggio delle finanze dei comuni: al posto di un reale autogoverno democratico si offriva la piccola autocrazia simbolica di un sindaco senza mezzi. La conseguenza fu la deprivazione di ogni ruolo dei Consigli comunali, che portò all’inedita situazione di città senza più un parlamento, senza un’assemblea democratica, senza un’opposizione (un dissenso) visibile. Era un colpo decisivo ad ogni idea di comunità politica.

Dalle città alla nazione: le riforme costituzionali elaborate negli ultimi anni prendevano a modello il sistema dei sindaci, puntando – più o meno direttamente – al presidenzialismo del ‘sindaco d’Italia’. Riforme e retorica politica si intrecciano in un unico discorso che, ancora una volta, tiene insieme destra e ‘sinistra’: nel luglio 2019 è stato Matteo Salvini a chiedere agli italiani «pieni poteri» (una citazione, non troppo velata, da Mussolini), nel 2016 era stato Renzi a chiedere di sciogliere le mani dell’esecutivo da quelli che egli considerava intollerabili lacci.

Il Potere ci sta dicendo che l’Italia ha bisogno di un «capo».‘Capo’: era questa la parola chiave per capire quale fosse il senso profondo della riforma costituzionale Renzi-Boschi. Non la si trovava nel testo della nuova Costituzione, ma in quello della legge elettorale: l’Italicum, cioè l’altro gemello di quella gravidanza politica. L’articolo 2, comma 8 dell’Italicum diceva che «i partiti o gruppi politici che si candidano a governare depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e il cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica».

Basterebbe questa norma a far capire che stavamo cambiando – senza aver nemmeno il coraggio di dircelo chiaramente – la forma stessa della Repubblica: non più parlamentare, ma di fatto presidenziale. I partiti, infatti, non si candidavano più a rappresentarci in Parlamento, ma direttamente a «governare». E i cittadini eleggevano un «capo» a cui il Presidente della Repubblica (ora davvero un notaio inutile) sarebbe stato obbligato a conferire l’incarico. Un capo eletto direttamente dal popolo: il sindaco d’Italia.

 

Era questo il progetto reale del ‘combinato disposto’ di riforma costituzionale e legge elettorale: un progetto che ricalcava – nello spirito presidenzialista e plebiscitarista –, quello che Silvio Berlusconi tentò di attuare nel 2006, e che fu fermato dalla vittoria del No, in un referendum identico a quello del 2016. Ma se queste riforme sono state bloccate, la mentalità che le aveva informate prevale largamente nella coscienza collettiva degli italiani di oggi.

 

Il pensiero retrostante è sempre quello: il problema dell’Italia sarebbe la troppa democrazia. Come ha scritto Luigi Ciotti: La democrazia, con il suo sistema di pesi e contrappesi, di divisione e di controllo dei poteri, rappresenta un ostacolo per il pragmatismo esibito da certa politica come segno di forza. Le richieste di delega, la sollecitazione a fidarsi delle promesse e degli annunci, l’ottimismo programmatico, così come l’accusa di disfattismo o di malaugurio (il “partito dei gufi”) verso chi critica o solo esprime perplessità, rivelano una concezione paternalistica e decisionista del potere, dove lo Stato rischia di ridursi a una multinazionale gestita da super manager e il bene comune a una faccenda in cui il popolo non deve immischiarsi.

Tentazione anche questa non nuova ma a cui la globalizzazione ha offerto inedite opportunità, visto l’asservimento, salvo eccezioni, delle istituzioni politiche alla logica esclusiva del “mercato”, cioè di quel sistema che proprio la politica dovrebbe regolamentare .

 

Un’altra cosa per cui vale la pena di combattere è dunque una politica capace di rappresentare la società. Per esempio, riconquistando un proporzionale puro – cioè una legge elettorale secondo la Costituzione –, e chiudendo così con la lunga e nefasta stagione maggioritaria. Anche qua: i ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Ai primi serve la ‘governabilità’: cioè la possibilità che la società sia governabile secondo i loro interessi. Senza conflitti, senza fastidiose rappresentazioni del pubblico interesse, senza che i ‘loro’ governi abbiamo a patire intralci di alcun tipo. Ai secondi, ai poveri, serve invece la rappresentanza: serve un Parlamento davvero centrale,in cui portare i conflitti e in cui vedere combattuta la loro battaglia, che non ha altri luoghi per risultare, almeno a tratti, vincente. Ai primi servono i capi, ai secondi servono una collettività, una comunità critica.

L’astensione elettorale di metà del Paese è il risultato di una comprensibile e fondata sfiducia nella reale possibilità del Parlamento di rappresentare le lotte sociali. Ma senza rappresentanza e senza Parlamento non c’è libertà: rimane la solitudine, la condizione di fantasmi sociali, la rivolta di piazza e infine una radicale rinuncia alla dimensione politica.

Dunque, liberazione dal bisogno e liberazione dall’ignoranza come condizioni per una vera libertà politica in cui sia possibile criticare e poi abbattere il potere dell’oligarchia al servizio del mercato e ricostruire una rappresentanza popolare e un autogoverno.

Abbiamo molte cose per cui valga la pena di combattere: una democrazia vera, un Parlamento vero, un conflitto vero. Una libertà piena: che è la «sola ministra della giustizia sociale» (Calamandrei), cioè l’unica dimensione che può rendere possibile rimandare i ricchi a mani vuote, saziare gli affamati.

 

L. Ciotti, Dal “no” a un impegno collettivo, in Io dico no, Torino 2016, pp. 75-76.

(24 gennaio 2020)

 

23 GENNAIO 2020

 

Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è

 

È da oggi in libreria Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è, il nuovo libro di Tomaso Montanari edito da Chiarelettere. Ne anticipiamo uno stralcio che ben si colloca nella prospettiva per cui è nata “Volere la luna”.

 

La prima cosa per cui vale la pena di combattere è la Terra.

La febbre del pianeta si alza ora dopo ora, e mai come in questo nostro tempo è evidente che la fraternità tra esseri umani non ha un futuro se non si apre ad una fraternità più grande: quella con tutta la Terra. Il grido dei poveri di tutto il mondo è indistinguibile dal grido degli animali, delle piante, di ogni essere vivente e del corpo stesso del pianeta: sappiamo – lo sappiamo scientificamente e storicamente: e lo avvertiamo ogni giorno sulla nostra pelle – che non può esserci giustizia sociale senza giustizia ambientale. Sono un’unica cosa.

In qualche modo i cuori più ardenti e le menti più lucide del pensiero rivoluzionario del Novecento lo avevano intuito. Accade, per esempio, in un brano memorabile del carteggio di Rosa Luxemburg. È il dicembre del 1917, e Rosa è in carcere – sarà uccisa due anni dopo da squadracce fasciste agli ordini di un governo socialdemocratico. Scrivendo i suoi auguri di Natale alla sua amica Sonja Liebknecht, ella apre uno squarcio impressionante sulla propria interiorità:

Ahimè, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso. Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito zeppi di sacchi o di vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché valse anche per loro il detto «vae victis»… Soltanto a Breslavia, di questi animali, dovrebbe esservene un centinaio; avvezzi ai grassi pascoli della Romania, ora ricevono cibo misero e scarso. Vengono sfruttati senza pietà, per trainare tutti i carichi possibili, e assai presto si sfiancano. Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. «Neanche per noi uomini c’è compassione» rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi…(R. Luxemburg, Un po’ di compassione, Milano, Adelphi, 2007, pp. 19-21)

 

«Mio povero, amato, fratello…»: la fraternità che avvince Rosa prigioniera al bufalo in cattività è la fraternità degli sfruttati di ogni specie: ed è una fraternità capace di dividere il mondo tra oppressori e oppressi, indicando qual è la «grandiosa guerra» che siamo chiamati a combattere davvero. Una guerra incruenta: ma il cui esito deciderà la vita o la morte non solo degli oppressi, ma anche degli oppressori, che corrono ciecamente verso l’abisso. Perché la situazione è questa:

lo scenario planetario dal quale nasce il dibattito sui diritti della natura è caratterizzato da un’emergenza ambientale che nelle ultime due decadi ha assunto i contorni di una reale minaccia alla vita e allo sviluppo umano. L’attuale crisi ecologica è conseguenza di un modello di sviluppo che considera la natura come un magazzino inesauribile sia nella capacità di offrire beni e servizi, sia di assorbire rifiuti. La stupidità di un modello che teorizza la crescita economica infinita a fronte di un pianeta con risorse e capacità finite ha prodotto l’attuale crisi strutturale del sistema neoliberista. De Marzo, Per amore della terra. Libertà, Giustizia e sostenibilità ecologica, Roma, Castelvecchi, 2018, p. 121

Tra le tante voci – di scienziati, associazioni, rari uomini politici – che si alzano per chiedere di invertire la rotta, quella di papa Francesco appare particolarmente alta e consapevole. Qualunque sia il giudizio sulla struttura di potere della Chiesa cattolica (e il giudizio non può che essere assai severo), sul cristianesimo e sulle religioni, è impossibile non vedere l’importanza fondamentale dell’enciclica Laudato sii del 2015, che affronta in modo unitario e spesso rivoluzionario tutti i temi chiavi della lotta per la giustizia ambientale:

l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita. Papa Francesco, Lettera enciclica Laudato sii, 2015, paragrafo 16

 

Al centro dell’enciclica c’è la figura di Francesco d’Assisi, dal quale Bergoglio ha voluto assumere il nome da pontefice, con una scelta senza precedenti negli ultimi otto secoli. È il Francesco che abbraccia il lebbroso, perché – per dirla con le parole particolarmente felici di Umberto Eco nel Nome della rosa – «non si cambia il popolo di Dio se non si reintegrano nel suo corpo gli emarginati». È la lezione principale – forse è l’unica lezione – che la sinistra deve davvero imparare, se vuole rinascere: nessun cambiamento è possibile se non è conquistato dagli emarginati stessi. Ed è l’abbraccio ai nuovi lebbrosi il passaggio cruciale: un abbraccio che significa condivisione di cammino. Francesco abbraccia dello stesso abbraccio i poveri e le creature della natura: con gli occhi di oggi vediamo in lui affrontate contemporaneamente le due grandi questioni del nostro tempo, la diseguaglianza e il futuro della Terra:

La sua reazione era molto più che un apprezzamento intellettuale o un calcolo economico, perché per lui qualsiasi creatura era una sorella, unita a lui con vincoli di affetto. …Se noi ci accostiamo alla natura e all’ambiente senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza nella nostra relazione con il mondo, i nostri atteggiamenti saranno quelli del dominatore, del consumatore o del mero sfruttatore delle risorse naturali, incapace di porre un limite ai suoi interessi immediati.Francesco, Laudato sii, cit., paragrafo 11

 

L’abbraccio di Francesco d’Assisi è la chiave: non una comprensione astratta, teorica, politica. Ma un abbraccio: fisico. Due corpi che si incontrano. L’amore di san Francesco per la vita è un aspetto cruciale, che troppo spesso il culto religioso o peggio l’oleografia cinematografica hanno cancellato. Durante il suo viaggio in Italia, Simone Weil confessa:

ho corso il rischio rimanere per tutta la vita, qualora le donne fossero ammesse, nel minuscolo Eremo delle Carceri, a un’ora e un quarto di strada sopra Assisi. Non vi è spettacolo più sereno, più paradisiaco, dell’Umbria visto da lassù. Quel san Francesco sapeva scegliere i posti più deliziosi per viverci in povertà: non aveva nulla di un asceta. Weil, Viaggio in Italia, a cura di D. Canciani e M. A. Vito, Roma, Castelvecchi, 2015, p. 42

Francesco non si esercita nel distacco dal mondo: ma nell’amore intenso, fisico e viscerale per il creato. È vicino alla Terra: letteralmente, è umile (da humus). L’umiltà è la via maestra per coltivare la nostra fraternità con il mondo.

 

 

 

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