FRANCESCA CAFERRI, INVIATA A MANSURA (EGITTO) :: A casa di Patrick Zaky: “Lo hanno torturato per sapere dei Regeni”, La famiglia: “Ridatecelo” — REPUBBLICA DEL 11 FEBBRAIO 2020

 

 

REPUBBLICA DEL 11 FEBBRAIO 2020

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/02/11/news/zaky_egitto_studente_arrestato-248364488/

 

 

L’abitazione dello studente egiziano a Mansura

 

 

 

Approfondimento

A casa di Patrick Zaky: “Lo hanno torturato per sapere dei Regeni”, La famiglia: “Ridatecelo”

11 FEBBRAIO 2020

A casa della famiglia dello studente egiziano arrestato al Cairo al rientro da Bologna. “È stato bendato, interrogato e torturato per trenta ore. Gli chiedevano dei suoi legami con l’Italia e con i parenti di Giulio Regeni”

 

DALLA NOSTRA INVIATA FRANCESCA CAFERRI

 

MANSURA (EGITTO) – Il fiume di angoscia che attraversa la vita di Patrick Zaky e della sua famiglia sta nascosto dietro a un portone in Omar Ibn al Khattab Street a Mansura, 120 chilometri a Nord del Cairo. Al primo piano di una palazzina anonima poco lontana dal centro della città abita la famiglia dello studente egiziano dell’università di Bologna arrestato nella notte fra giovedì e venerdì all’aeroporto del Cairo, con l’accusa di avere istigato alla violenza e diffuso notizie false. Ad aprire la porta è Marize, la sorella minore di Patrick, ma a parlare per tutti è il padre, George, 55 anni: “Come stiamo? Non capiamo più niente: nostro figlio stava tornando a casa per festeggiare gli ottimi voti ottenuti e ci siamo ritrovati a portargli cibo e vestiti in prigione. Vogliamo soltanto che torni a casa”.

Un divano, quattro poltrone e un paio di sedie per gli ospiti: tutto intorno statuine e icone della Madonna e dei santi Giorgio e Michele, a dimostrazione della fede cristiana della famiglia. La casa dei Zaky è un luogo modesto, piccolo, che fatica a contenere l’angoscia che i corpi di George, Marize e di Haba, la mamma, esprimono. La famiglia è intimorita dal clamore suscitato dalla vicenda: se accetta di incontrare la stampa per la prima volta dall’arresto è perché spera che la pressione internazionale possa aiutare. Ma nello stesso tempo misura le parole nel timore di creare ulteriori complicazioni e rifiuta di farsi fotografare. Il compito di indirizzare la tensione è nelle mani di Wael Ghally, uno degli avvocati che seguono il caso: è lui a tentare di tirare le fila.

“Non sappiamo perché Patrick è stato arrestato – spiega – abbiamo soltanto due certezze. La prima è che nei suoi confronti è stato emesso un mandato di comparizione il 24 settembre ma nessuno glielo ha comunicato. Per questo è stato fermato alla frontiera. La seconda è che lì è stato bendato e portato da qualche parte al Cairo. È stato detenuto e interrogato per 30 ore, torturato. Lo picchiavano e gli chiedevano dei suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni. Patrick non sa nulla di tutto questo: così alla fine lo hanno trasferito qui a Mansura”.

Il nome di Giulio nel salottino della famiglia fa paura. Lo zio che assiste all’incontro appena lo sente apostrofa l’avvocato: “Patrick è egiziano: lasciamo questa storia e le ambasciate fuori o non ne verremo mai a capo”. Il legale risponde in maniera accesa, mentre i genitori assistono in silenzio. Quando gli mostriamo la foto del graffito spuntato la notte scorsa sul muro dell’ambasciata egiziana di Roma, con Giulio che abbraccia Patrick, lo guardano senza commentare. Solo Marize, la sorella, interviene per sottolineare che non esistono legami fra il fratello e il ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo nel 2016: “Abbiamo saputo quello che è successo a Regeni attraverso i social media, come tutti qui in Egitto. A casa ne abbiamo parlato e Patrick si è fatto la stessa domanda di tutti noi: perché è successo? Nulla di più”. La famiglia rifiuta di prendere in considerazione l’ipotesi che le autorità volessero in qualche modo coinvolgere Patrick in una strategia mirata a danneggiare i Regeni, in qualche forma di ricatto mirata a screditare la loro attività investigativa: “Patrick non sta certo bene psicologicamente – chiosa il padre – ma tiene duro e aspetta di uscire: tutto quello che vuole è tornare a studiare in Italia. Ce lo ha detto chiaramente: ‘Posso stare in prigione un anno intero e resistere. Quello che potrebbe uccidermi davvero è perdere la borsa di studio'”.

L’avvocato Ghally annuisce: “Tutto quello che posso dire è che ho lavorato a molti casi, ma non ho mai visto così tanti problemi: l’altro giorno ho impiegato sei ore a farmi firmare un documento”.

Bologna, l’Italia, il lavoro per un’organizzazione non governativa: nelle parole della famiglia questi sono gli ingredienti di un sogno realizzato. Non di una miscela potenzialmente pericolosa. Raccontano che Patrick si era laureato in farmacia, ma dopo un anno di lavoro si era innamorato del mondo del sociale e aveva voluto cambiare strada: “Ero preoccupata e ne avevamo parlato – sussurra fra le lacrime la mamma – ma mi aveva assicurato che voleva solo perseguire una carriera accademica”. Le campagne a favore della comunità Lgbt condotte con l'”Egyptian iniative for personal rights”, che potrebbero essere una delle chiavi per spiegare perché dai media egiziani sono partite accuse di omosessualità, a casa Zaky sono un argomento tabù: “Non guardiamo la televisione. Quello che dicono ci ferisce”, dice la sorella.

Non è difficile capire perché: sul retro della porta di ingresso è dipinta una scena della vita di Cristo a grandezza naturale, sul muro del salotto campeggia un ritratto della Vergine Maria: la famiglia non fa mistero della sua devozione. Di fronte a una domanda sul possibile intervento del Vaticano sulla vicenda esita: “Siamo copti, rispondiamo al nostro patriarca – risponde il signor George – l’unica cosa che possiamo chiedere al Vaticano sono preghiere”. E all’Italia? “Ringraziamo gli italiani per l’empatia e la solidarietà”. La domanda se si siano aperti canali di comunicazione con l’ambasciata è un’altra di quelle delicate. Di nuovo interviene l’avvocato Ghally: “Non abbiamo avuto nessun contatto”, risponde. Ieri l’ambasciatore Giampaolo Cantini ha incontrato i rappresentanti dell’ong per cui lavora Patrick, ma qui a Mansura la notizia non è ancora arrivata. Difficile capire se farà qualche differenza per la famiglia: Patrick aveva promesso una bella sorpresa al ritorno dall’Italia. L’unica cosa che solleverebbe gli Zaky oggi sarebbe condividerla con lui.

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