ALDO ZARGANI, PER VIOLINO SOLO. LA MIA INFANZIA NELL’ALDIQUA (1938-1945 ) — un libro che ricordo bellissimo… + ANTONIO GNOLI, INTERVISTA SU REPUBBLICA AD ALDO ZARGANI — link sotto

 

 

 

 

Per violino solo. La mia infanzia nell’aldiqua (1938-1945)

Aldo Zargani

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Editore: Il Mulino
Collana: Storica paperbacks
Anno edizione: 2010
Formato: Tascabile
In commercio dal: 14 gennaio 2010
Pagine: 237 p., Brossura
12 EURO

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Aldo Zargani

nato a Torino nel 1933 da famiglia ebraica. L’infanzia e l’adolescenza sono state segnate dalle leggi razziali fasciste del 1938 e dalle violenze dell’occupazione nazista. Sfuggito con i famigliari alla deportazione, ha lavorato per la Rai e ora vive a Roma. Ha pubblicato Per violino solo. La mia infanzia nell’aldiqua (1938-1945) (Il Mulino, 1995, ristampato nel 2004) e Certe promesse d’amore (Il Mulino, 1997). Il primo è stato tradotto in inglese, tedesco, spagnolo e francese; e molti testi e testimonianze su giornali e riviste, in particolare su «Lettera internazionale», «Il Mulino» e «Doppiozero».

 

 

Descrizione del libro:

Per un ebreo italiano classe 1933 come Aldo Zargani il periodo che va dal varo delle leggi razziali fasciste nel 1938 al 1945 ha inevitabilmente un carattere duplice: sono gli anni della persecuzione e della paura ma anche gli anni favolosi dell’infanzia, anni fatali e fatati. In questo libro Zargani ripercorre le traversie sue e della sua famiglia in quei “sette anni di guai”: la perdita del lavoro del padre violinista, l’esclusione dalle scuole, l’espatrio fallito, la fuga da Torino attraverso il Piemonte, l’arresto dei genitori, il collegio, la deportazione dei parenti; ma se quell’esperienza si incide nella carne del bambino come una ferita immedicabile, la memoria che la rivisita sa tuttavia estrarne anche quella galleria di personaggi e situazioni comiche o grottesche che comunque abita l’infanzia, donde l’impasto impossibile di un “amarcord” ilare e luttuoso, di un “giornalino di Giamburrasca” che racconta una storia di spavento e dolore. Una prova di virtuosismo narrativo, certo, ma anche un modo vitale per liberarsi del peso di quell’esperienza e di trasmetterne la memoria: magari, da nonno a nipote, come una favola un po’ divertente e un po’ paurosa.

 

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REPUBBLICA.IT  DEL 3 LUGLIO 2017

https://www.repubblica.it/cultura/2017/07/03/news/aldo_zargani_penso_di_non_poter_smettere_di_essere_un_ebreo_-169814037/

 

 

Aldo Zargani: “Penso di non poter smettere di essere un ebreo”

Lo scrittore: “Sebbene sia difficile dire che cosa sia un ebreo. Non è una parola, è una condizione che richiama un senso di alterità e di vuoto”

 

di ANTONIO GNOLI

03 luglio 2017

Aldo Zargani: "Penso di non poter smettere di essere un ebreo"

Aldo Zargani ( Riccardo Mannelli )

Come tutti i veri sopravvissuti che scavano piste nella memoria, anche Aldo Zargani, classe 1933, si è posto il problema del limite. E lo ha fatto interrogandosi su due questioni laceranti: fino a che punto l’uomo può spingersi per negare se stesso? Fino a che punto coloro che furono negati possono essere in grado di raccontare la loro storia di vittime? È il succo che ho ricavato dalla lettura densa, drammatica ma anche ilare di due libri di Zargani: Per violino solo (edito dal Mulino), tradotto in numerose lingue; e In bilico recentemente apparso per le edizioni Marsilio.

Si tratta di libri di memoria, ma con questa stranezza al loro interno: non esaltano il dolore, non lo amplificano, non lo dilatano. Pur nella drammaticità dei fatti esposti, Zargani conserva una sorta di relativismo mentale che lo spinge non già a negare il ” male assoluto” – ovvero tutto quello che accade con la Shoah – ma a rivisitarne i lati meno prevedibili, i più insoliti. Zargani è un signore imponente con una moglie piccina e dolce che sul divano dove siedono gli stringe la mano, lo accarezza, lo guarda. E mi viene da pensare che se questa storia ha un senso profondo lo si deve anche al legame stretto da più di sessant’anni. L’estro un po’ ribelle di questo ebreo sui generis mi colpisce, quando parla sembra che tuoni, quando sta zitto sembra che sotto il velo del silenzio si nasconda quella terra di tutti e di nessuno che è la memoria.

Su questa “memoria” che è poi la maniera privata con cui un bambino ha vissuto le tragedie di un popolo lei ha scritto molto. Ma lo ha fatto quasi contraddicendo l’assunto da cui è partito.

“Ho cominciato a scrivere quando sono andato in pensione. La mia professione è stata quella del contabile e dunque potrà sembrarle strano che io abbia intrapreso questa, diciamo così, “seconda carriera”. Ovviamente da ebreo, ormai vecchio e in qualche modo testimone dell’orribile fine che fu riservata a molti di noi, andavo nelle scuole a raccontare la Shoah e da un certo momento in poi ho cominciato a sentire come una stanchezza, un senso inadeguato delle parole”.

Provocato da cosa?

” Dal ripetersi sempre uguale dei discorsi, dal fatto che si fosse stabilito un Giorno della Memoria, in cui tutti si sarebbero sentiti più attenti a recepire un dramma di proporzioni inaudite. Ho avuto la sensazione che ogni mia ricostruzione fosse un’attestazione ufficiale, quasi una forma di benemerenza, del tipo: io c’ero e voi dove eravate?”.

Anche quella una forma di banalità del male?

“Il male non è banale per chi ne è stato vittima. Poi c’è l’usura di certi discorsi. Ma di tutto questo ho avuto una sensazione quasi lancinante quando con mia moglie ci recammo a Basilea”.

Cosa c’era di particolare?

“Fu una sensazione di straniamento: tornare sui luoghi dove ero stato molti anni prima. Come poteva ancora essere la stessa città che ci aveva provocato angoscia? Lì giunsi la prima volta nel 1939, con tutta la famiglia. Mio padre era prima viola all’Orchestra Sinfonica di Radio Torino. Dopo le leggi razziali del 1938, fu tra i primi a essere licenziato. Cercò un posto da orchestrale in Italia e dopo vari rifiuti seppe di un concorso di insegnante di viola al conservatorio di Basilea”.

Basilea era un luogo sicuro per un ebreo.

“Arrivammo prima a Lugano. Era settembre. Passammo qualche giorno, in attesa di muoverci per Basilea. Il giorno dell’esame, con mio fratello e la mamma andammo in giro per la città. Quando tornammo alla pensioncina vidi mio padre sdraiato sul letto. Fece una specie di smorfia e poi disse che lo avevano bocciato”.

Come reagiste?

“Avevo sei anni ma intuii la gravità della cosa dal modo in cui mia madre si arrabbiò. Papà prima si giustificò. Disse che un tedesco lo aveva obbligato a suonare La Cavalcata delle Valchirie. Era come chiedere di scalare il Cervino con le infradito. Non poteva suonare Wagner con la viola! Poi si accollò la colpa, dicendo che non aveva suonato bene. Mia madre insultò Wagner e quello che rappresentava in quel momento per i tedeschi. Ci restava però ancora una speranza”.

Quale?

“Bruno Walter: il grande direttore che mio padre aveva conosciuto prima della guerra. Gli telefonò e Walter lo invitò in collina fuori Basilea. Arrivammo con un taxi alla villa e trovammo un uomo distrutto. Aveva appena saputo della morte della figlia e del genero. Una tragedia consumata in modo incredibile”.

Cioè?

“Le autorità tedesche gli comunicarono che il genero, in un raptus, aveva sparato alla figlia e poi si era suicidato. È probabile che a farli fuori furono le SS. Sospettavano delle attività comuniste del genero. Ricordo Bruno Walter terreo e muto accompagnarci alla porta. Volevamo restare in Svizzera. Come noi migliaia di profughi si accalcavano negli alberghetti, davanti agli uffici, e chi non trovava posto dormiva nei giardini e nei parchi. Fu in un bosco umido che vidi per la prima volta un gruppo di ebrei non torinesi. Veniva dall’Est Europa”.

Alla fine cosa accadde alla famiglia Zargani?

“Ci dissero che non avevamo i requisiti per restare in Svizzera. La guerra era iniziata il 2 settembre del 1939. Cominciarono così sette lunghi anni di guai. Tornammo a Torino. La città venne in seguito bombardata. Una mattina in preda al panico prendemmo un treno, senza conoscerne la destinazione. Dal finestrino vidi una folla impazzita che dava l’assalto ai convogli. Viaggiammo per ore. Alla fine scendemmo ad Asti e riparammo a casa di due sorelle mezze ebree. Ci affittarono una stanza. Mi colpirono le due figure femminili”.

Cosa notò?

“Non sembravano neanche sorelle tanto una era brutta e l’altra bella e seduttiva. Quest’ultima, una bionda ossigenata, si muoveva in maniera conturbante. Si chiamava Elisa, insegnante di lettere e vedova, come dimostrava il ritratto nella foto di un ufficiale fieramente fascista, caduto a quanto pare negli eroici cieli di Malta. Nella scuola dove riuscii a iscrivermi Elisa faceva lezione di italiano”.

E lei si innamorò dell’insegnante?

“Fu qualcosa di più morboso. Una mattina Elisa si ripromise di farci imparare a memoria una poesia del Carducci. Bella e seducente recitava i versi della Canzone di Legnano. Poi accavallò le gambe. Inguainate da calze di seta scura. Vidi la riga dietro il polpaccio. Vidi le scarpette col tacco, la caviglia, le ginocchia e poi più in alto. Sembrava farlo apposta di tirarsi su la gonna. Fu in quel momento, col cuore che mi batteva, che scoprii il misterioso potere dell’eros. Qualche giorno dopo lasciammo la casa delle due sorelle”.

Dove andaste?

“Con mio fratello finimmo nascosti in un collegio di salesiani a Cavaglià. Fu il primo impatto con il cristianesimo. Stemmo un anno. I miei genitori per loro imprudenza furono arrestati. Poi riuscirono a liberarsi e a riparare in montagna. Se ripenso agli orrori della guerra, mi viene in mente che dopo la paura la cosa più terribile è la fame. La miseria può rendere crudele chi la prova”.

Come riusciste a mantenervi?

“Mio padre si inventò una serie di lavoretti, tra cui anche il barbiere. Le mani di un violinista erano abbastanza abili per tagliare i capelli dei residenti del Cottolengo. In cambio di cibo sistemava le barbe dei vecchi e acconciava le teste dei poveri di spirito. Le suore si intenerirono di quest’uomo che non sembrava neppure un ebreo, dicevano, tanto appariva loro una brava persona. Papà dava anche lezione di pianoforte a una signorina ormai zitella e cieca, figlia del podestà. Fu così che sopravvivemmo agli stenti. Arrivammo stremati al 1945 e ai giorni dell’ira”.

I giorni della vendetta?

“Fu durante l’estate del 1945 che il sentimento d’ira e di stupore cominciò a circolare nella collettività superstite. Perfino io, dodicenne, ne fui preda. Per la prima e ultima volta. Un risentimento devastante esplose nella testa del bambino che ero. In quei giorni dell’immediato dopoguerra si frequentava il cinema Doria, dove tutti i venerdì proiettavano i documentari di Buchenwald con le impiccagioni dei responsabili. Erano soprattutto i russi a eseguire le sentenze. Immagini brutali di esecuzioni sommarie senza cappuccio né conforti religiosi”.

E voi spettatori?

“Eravamo eccitati come sanculotti o tricoteuse sotto il palco della ghigliottina. Nella calca del cinema i nostri occhi esprimevano il puro piacere della vendetta. Il nazista condannato con solo le calze ai piedi saliva sullo sgabello, il cappio al collo e poi il calcio che faceva saltare la sedia. Un urlo soffocato serpeggiava nella sala. Ma l’ira non poteva essere una medicina occorreva la giustizia”.

I processi servirono a questo.

“È vero, ricordo in proposito, quello a Wilhelm Furtwängler dopo la guerra. Se la cavò per il rotto della cuffia. Anche perché non prese mai la tessera del Partito nazista. Fu dopo il processo, da cui uscì assolto nonostante i suoi atteggiamenti ambigui, che mio padre lo incontrò in una sala di incisione. Furtwängler era sul podio e guardando verso l’orchestra riconobbe mio padre e quando scese gli si avvicinò tendendogli la mano. Questo ci disse con l’aria emozionata a me e a mia madre”.

Fu tutto?

“No, la mamma chiese: e tu, tu che gli hai detto? Papà cominciò a balbettare. Poi disse di aver sussurrato: ” Maestro, maestro come è potuto accadere?”. In realtà voleva dirgli: ” Come ha potuto farlo” e invece gli uscì l’altra frase. E lui non rispose, fece solo un cenno con la testa che poteva voler dire tutto o niente. Questo aggiunse mio padre, che era un uomo mite e incapace di sbattere in faccia a quell’uomo la sola cosa che meritava di sentirsi chiedere”.

Sua madre come reagì?

“Si arrabbiò, disse che mai e poi mai, quell’uomo, per quanto grande fosse la sua arte, andava assolto dal peso della responsabilità. Io credo che l’errore di Furtwängler sia stato quello di anteporre la musica alla politica. Thomas Mann non aveva anteposto la letteratura alla politica. E neppure Fritz Lang che davanti a Goebbels disse che non poteva collaborare perché aveva uno zio ebreo e Goebbels rispose: lo decidiamo noi chi è o non è ebreo. Lang il giorno dopo partì in piroscafo per l’America”.

Forse è difficile coniugare le storie private con quelle collettive.

“Me ne rendo conto. A livello collettivo i nazisti cercarono di cancellare l’onore degli ebrei, la loro dignità, con il cappio, le camere a gas, i forni crematori, le ceneri sparse dal fumo dei camini. Ma essere ucciso senza onore non era colpa della vittima ma di chi uccide. Loro furono i senza onore e noi diventammo i topi braccati”.

Tutto questo è stato raccontato da Primo Levi.

“È vero. L’umiliazione, la fame, le epidemie, le percosse, i lutti, le divisioni delle famiglie, il gas e lo sterminio, tutto quanto appartenuto alla Shoah, è stato narrato in Se questo è un uomo e in I sommersi e i salvati. Levi ha creato involontariamente un canone, un modo di raccontare l’orrore. Lui è stato fondamentale, meno le testimonianze che sul suo solco sono venute dopo. Si è passati dalla banalità del male alla banalità dell’orrore”.

Non credo a questo passaggio e ritengo che molte delle cose accadute allora servano da monito per il nostro oggi.

“Mi trova pienamente d’accordo ma è come se avvertissi la stanchezza di certi racconti”.

Che lei in qualche modo continua a porgere.

Levi fu un testimone fisico, io al più posso essere un testimone letterario. Ero troppo piccolo per assumere in pieno il senso di quella tragedia. Forse è per questo che ho potuto cogliere quel senso di saturazione. Sono un irregolare perfino un po’ pavido. Un sopravvissuto, in almeno due occasioni. Una durante la Shoah e l’altra per i miei ottantaquattro anni. A volte penso di non poter smettere di essere un ebreo. Ma è difficile dire che cosa sia un ebreo. Non è una parola, è una condizione umana che richiama un senso di alterità. E di vuoto”.

Vuoto perché?

“Papà e mamma volevano che noi fossimo felici e che avessimo un futuro. Il loro era stato usato per proteggerci. Lo avevano consumato tutto. Erano restati vivi, ma il tempo della loro gioventù era passato solo per salvare i loro due bambini. Questo fu il sacrificio. Vinsero ma come tutti i superstiti restarono soli. Quel mondo che avevano vissuto, se l’era portato via la guerra. Non c’erano più legami, né comunità, né calore. Né tradizione. Solo il vuoto e i ricordi per riempirlo”.

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1 risposta a ALDO ZARGANI, PER VIOLINO SOLO. LA MIA INFANZIA NELL’ALDIQUA (1938-1945 ) — un libro che ricordo bellissimo… + ANTONIO GNOLI, INTERVISTA SU REPUBBLICA AD ALDO ZARGANI — link sotto

  1. Donatella scrive:

    Bellissima questa testimonianza, che mette in luce un aspetto che non sempre osa uscire fuori: la stanchezza, forse una specie di nichilismo, di fronte alla memoria , per altro giustissima, degli orrori passati. Questi orrori si ripetono al presente, senza che l’umanità si ribelli.

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