GREGORIO PICCIN ( notizie al fondo ) :: Il business (informatico) dello sterminio— IL MANIFESTO DEL 22 FEBBRAIO 2020

 

 

 

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Edwin Black ( Chicago, 1950), è un editorialista sindacale americano e giornalista investigativo. È specializzato in diritti umani, l’interazione storica tra economia e politica in Medio Oriente, politica petrolifera, gli abusi praticati dalle società e le basi finanziarie della Germania nazista.

Il libro di cui parla l’autore dell’articolo sembra esserci su IBS, mentre, per chi sa l’inglese, tutti i suoi libri sono su Amazon

 

sito facebook

https://www.facebook.com/EdwinBlackBook/

 

 

 

 

 

 

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L’ IBM e l’olocausto. I rapporti fra il Terzo Reich e una grande azienda americana

Edwin Black

Articolo acquistabile con 18App e Carta del Docente
Traduttore: R. Zuppet, S. Mancini
Editore: Rizzoli
Collana: Saggi stranieri
Anno edizione: 2001
In commercio dal: 12 febbraio 2001
Pagine: 606 p., ill.
18,59 PREZZO PIENO

Descrizione

Agli occhi dei sopravvissuti, così come a quelli degli storici, un aspetto dell’immane tragedia dell’Olocausto è sempre rimasto avvolto nell’oscurità: la sua procedura. Si è sempre parlato genericamente dell’efficienza della burocrazia tedesca, ma non ci si era mai interrogati sui metodi impiegati per identificare con tanta precisione le persone di ascendenza ebraica o per pianificare le deportazioni. Il saggio di Black mette in luce il ruolo determinante di un’invenzione americana, la scheda perforata, e della società che, fin dall’avvento al potere di Hitler, aveva fornito la tecnologia delle schede, necessaria per censire gli ebrei tedeschi, l’International Business Machine: l’IBM.

 

IL MANIFESTO DEL 22 FEBBRAIO 2020

https://ilmanifesto.it/il-business-informatico-dello-sterminio/

 

 

COMMENTI

Il business (informatico) dello sterminio

Memoria del presente. Per schedare i deportati nei campi di concentramento la Germania nazista si era dotata della migliore tecnologia informatica allora esistente, quella della statunitense Ibm. Una storia che  ci parla del nostro presente: la crudeltà di guerre d’aggressione che si traducono in nuovi genocidi sono disinvoltamente sostenute da una fiorente industria occidentale

La scheda di una deportata rom

La scheda di una deportata rom

 

Gregorio Piccin

EDIZIONE DEL 22.02.2020

PUBBLICATO21.2.2020, 23:57

 

Quando il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler ordinò il rastrellamento di 1.259 ebrei nel ghetto di Roma quel 16 ottobre 1943, aveva in mano le schede del censimento che Mussolini volle realizzare dopo aver promulgato le leggi razziali cinque anni prima.

Quelle schede, che contenevano dati anagrafici ed indirizzi di domicilio, erano scritte a macchina. Un dettaglio solo apparentemente di poco conto. I deportati arrivarono ad Auschwitz, in Polonia, qualche giorno dopo. Confluirono, e quasi tutti scomparvero, nel sistema concentrazionario e genocidario nazista.

Fu un dispositivo gigantesco che non gestiva solamente l’eliminazione di massa ma anche la sottrazione e registrazione di ogni bene in possesso degli internati ed il lavoro di coloro, giovani e meno giovani, che fossero abbastanza in salute per valorizzare il capitale.

Per gestire tutte queste operazioni e ancora prima, per la schedatura di milioni di ebrei, zingari, disabili, comunisti, socialisti, omosessuali e slavi col censimento della popolazione tedesca voluto da Hitler nel 1933, non sarebbero di certo bastate le macchine da scrivere e nemmeno la proverbiale efficienza tedesca.

La Germania nazista si era infatti dotata della migliore tecnologia informatica allora esistente. Non esisteva ancora l’elettronica ma le informazioni venivano registrate su schede perforate e rapidamente processate da grosse e pesanti selezionatrici elettromeccaniche.

Tutta la tecnologia necessaria (schede, macchine perforatrici, macchine selezionatrici e la manutenzione) venne fornita ad Hitler dalla statunitense Ibm (International Business Machine) attraverso la sua sussidiaria Dehomag.

A partire dal grande censimento del 1933 la Germania era diventata il maggiore cliente della Ibm dopo gli Stati Uniti e lo stesso Thomas J. Watson, il fondatore della multinazionale statunitense, si recò più volte in Germania per seguire il lavoro della Dehomag.

Un grande affare destinato a chiudersi con lo scoppio delle ostilità tra Stati Uniti e Germania nel 1941? Solo formalmente: Watson restituì ufficialmente alla Germania l’“Ordine dell’Aquila tedesca”, un alto riconoscimento nazista attribuitogli da Hitler in persona, mentre la Dehomag cessò di essere una controllata della Ibm.

Ma le schede perforate, che venivano prodotte esclusivamente negli Stati Uniti, continuarono ad arrivare in Germania, lager compresi, attraverso triangolazioni con succursali all’estero. I profitti vennero poi raccolti dalla Ibm a guerra conclusa, quando la Dehomag tornò ad essere una azienda controllata della grande multinazionale.

Questa storia è stata raccontata nel dettaglio in un ben documentato libro inchiesta di Edwin Black, L’IBM e l’Olocausto, pubblicato da Rizzoli nel 2001 ed oggi semplicemente introvabile in Italia.È una storia clamorosa e terribile che dovrebbe essere ricordata come necessaria ogni volta che si parla di sterminio e deportazione.

Ma ciò infrangerebbe la rassicurante rappresentazione mainstream che dipinge il nazi-fascismo come una personificata vicenda di follia e crudeltà. Certo di follia e crudeltà si trattò ma tecnicamente sostenute e trasformate in stratosferici e modernissimi profitti.

Soprattutto è una storia che – pur non avendo l’Olocausto paragoni possibili quanto a crimine – ci parla del nostro presente e di come la follia e la crudeltà di guerre d’aggressione che si traducono in nuovi genocidi (come quello del popolo yemenita e non solo) – siano disinvoltamente sostenuti da una fiorente industria occidentale; e più in generale di come le grandi multinazionali, senza nessuna delega democratica o acclamazione popolare, siano ancora in grado di determinare indisturbate la storia e di vivere al di sopra di essa, impunite nonostante le tremende responsabilità e compromissioni. Oltre qualsiasi Norimberga.

 

 

 

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Inizia la sua militanza pacifista nel 1991, a diciassette anni, all’epoca della prima guerra del Golfo. Nel 1992, appena diciottenne, vede per la prima volta la guerra in faccia a Mostar (Bosnia Erzegovina) seguendo come volontario civile una carovana della campagna Dai Ruote alla Pace. Colpito dal “mal di Jugoslavia” segue per il Consorzio italiano di Solidarietà vari progetti rivolti alla popolazione colpita dalla guerra nella riva est della città dove ha vissuto a più riprese e in pianta stabile tutte le condizioni dell’assedio Ustascia: assenza di elettricità e acqua corrente. Lavora per l’Unhcr tra Belgrado e Budapest nel quadro di un programma per il rifornimento di combustibili verso campi profughi ed ospedali nel lungo periodo dell’embargo sulla Serbia. Studia la storia ed acquisisce il metodo materialista dialettico che gli fa comprendere come la guerra stessa sia un articolato e lucroso processo produttivo. Abbandona quindi il campo umanitario per impegnarsi nella lotta aperta al neocolonialismo e a quella che definisce “privatizzazione della guerra”. E’ stato co-redattore della rivista telematica Intermarx e del bollettino di controinformazione Quemada. Dal 2009 al 2014 è stato assessore all’ambiente, attività produttive e politiche sociali del comune di Tramonti di Sotto (PN/ Pordenone, Friuli Venezia Giulia) per cui ha seguito interventi di sostenibilità ambientale e rilancio di produzioni locali di qualità. Ha pubblicato vari articoli e saggi sulle riviste Giano, Guerre e Pace, AlternativeEuropa sui temi della corsa agli armamenti, dei nazionalismi, delle multinazionali, della storia della Jugoslavia socialista. Ha collaborato con Il Manifesto e Le Monde Diplomatique e scrive per il quotidiano on-line FriuliSera. Per l’editore KappaVu ha curato i libri “Se dici guerra…basi militari, tecnologie, profitti” “Frammenti sulla guerra. Industria e neocolonialismo in un mondo multipolare”. Attualmente segue per Rifondazione Comunista le questioni legate alla corsa agli armamenti, all’industria bellica, alla belligeranza permanente. E’ stato carpentiere, pizzaiolo, conducente di scuolabus, operaio edile, gestore di attività ricettive. Le sue passioni sono l’alpinismo, la pesca in apnea, la falegnameria e la fotografia. Crede fermamente che la vera utopia sia pensare, come umanità, di poter sopravvivere all’attuale modo di produrre e consumare. In questo senso si sente un inguaribile anticapitalista.

 

 

NOTIZIE DELL’AUTORE DA PRESSENZA, LINK

nel link trovate anche gli articoli pubblicati da Gregorio Piccin su Pressenza

https://www.pressenza.com/it/author/gregorio-piccin/

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1 risposta a GREGORIO PICCIN ( notizie al fondo ) :: Il business (informatico) dello sterminio— IL MANIFESTO DEL 22 FEBBRAIO 2020

  1. Donatella scrive:

    Agghiacciante, anche se prevedibile, questa notizia storica: purtroppo il profitto, almeno ad alti livelli, viene prima di tutto.

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