OMERO, ODISSEA, CANTO XI — Incontro di Ulisse con Tiresia e con la madre…

 

 

Odisseo e Tiresia nel regno dei morti – Vaso greco del IV secolo a.C

 

 

IT. WIKISOURCE.ORG / ODISSEA ( ROMAGNOLI ) CANTO XI

https://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Romagnoli)/Canto_XI

 

 

 

 

Ora, poiché tornati noi fummo alla nave ed al mare,

prima di tutto, la nave spingemmo nel mare divino,

l’albero con le vele drizzammo sul negro naviglio,

prendemmo e v’imbarcammo le greggi, e noi stessi salimmo,

pieni di cruccio il cuore, versando gran copia di pianto.

E per noi, dietro la nave cerulea prora, una brezza

mandò propizia, buona compagna, ch’empieva la vela

Circe dai riccioli belli, la diva possente canora.

E noi, gli attrezzi tutti deposti lunghessa la nave, sedemmo;

ché a guidarla pensavano il vento e il pilota.

Tese restar tutto il giorno le vele, e la nave correva.

S’immerse il soie, tutte le vie si coprirono d’ombra,

giunse la nave presso d’Ocèano ai gorghi profondi.

Qui sorge la città, il popolo è qui dei Cimmèri,

che vivon sempre avvolti di nebbie, di nubi;

e coi raggi mai non li guarda il sole fulgente che illumina il mondo,

né quando il volo al cielo cosparso di stelle dirige,

né quando poi dal cielo si volge di nuovo alla terra;

ma ruinosa notte si stende sui tristi mortali.

 

Al lido, quivi giunti, spingemmo dapprima la nave;

quindi, sbarcate le greggi, lunghesso l’Ocèano, noi stessi,

per giungere alla terra che detta avea Circe, movemmo.

Qui Periniède ed Euriloco tenner le vittime ferme;

ed io, di presso al fianco fuor tratta l’aguzza mia spada,

scavai, lunga d’un braccio da un lato e dall’altro, la fossa,

e a tutti i morti quivi d’attorno libami profusi,

di latte e miele il primo, di vino soave il secondo,il terzo d’acqua;

e sopra cospersi la bianca farina, e alle care ombre dei morti

promisi con molte preghiere che, giunto ad Itaca,

avrei sgozzata una vacca infeconda, l’ottima,

e sopra il rogo gittato ogni sorta di beni;

ed a Tiresia avrei, per lui solo, sgozzato un agnello negro di pelo,

quello che fosse fra i greggi il migliore.

Poi che con voti e scongiuri cosí le progenie dei morti ebbi pregate,

presi le vittime, e sopra la fossa tagliai le gole ad esse.

Scorrea negro e tumido il sangue.

E l’anime dei morti su corser da l’Èrebo in fretta, vergini,

fanciulletti, vegliardi fiaccati dal duolo,

tenere giovinette dal cuore inesperto di pene;

e molti dalla punta di bronzee lance trafitti uomini in guerra spenti,

con l’arme bagnate di sangue, chi di qua, chi di là,

si addensavano intorno alla fossa, con alti urli:

si ch’io di bianco terrore mi pinsi.

 

Ai miei compagni allora mi volsi, diei l’ordine ad essi

che le giacenti greggi sgozzasser col lucido bronzo,

le scoiasser, le ardessero, preci volgessero al Nume Ade possente,

e a Persèfone, ignara di teneri sensi.

Ed io poi, sguainata dal fianco l’aguzza mia spada, stetti lí,

né lasciai che le fatue parvenze dei morti

s’avvicinassero al sangue, finché non giungesse Tiresia.

 

Prima l’anima giunse d’Elpènore, il nostro compagno

che seppellito ancora non era soltessa la terra,

ma nella casa di Circe lasciato avevamo il suo corpo non seppellito,

non pianto, perché ci premeva altra cura.

Piansi, vedendolo qui, pietà ne sentii nel mio cuore:

e a lui cosí mi volsi, dicendogli alate parole:«Come sei giunto,

Elpènore, in questa caligine fosca?

Prima tu a piedi sei giunto, che io sopra il negro naviglio»

Cosí gli dissi; ed egli, piangendo, cosí mi rispose:«Ulisse,

o di Laerte divino scaltrissimo figlio, tristo un dèmone m’ha

rovinato, e la forza del vino. Addormentato m‘ ero in casa di Circe;

e sul punto di venir via, scordai da qual parte scendeva lascala:

mossi dal lato opposto, piombai giú dal tetto;

ed il collo mi si stroncò nelle vertebre, e scese lo spirito all’Ade.

Ora, per i tuoi cari, che sono lontani, io ti prego, per la tua sposa,

pel padre che t’ha nutricato piccino, e per Telemaco,

solo lasciato da te nella reggia, giacché so che, partendo di qui,

dalle case d’Averno, dirigerai di nuovo la prora per l’isola Eèa.

Quivi ti prego che tu di me ti ricordi, o signore, sí che, partendo,

senza sepolcro non m’abbia a lasciare, senza compianto:

per me non ti segua lo sdegno dei Numi. Bensi con l’armi,

quante n’ho indosso, mi brucia sul rogo, e un tumulo

m’innalza sul lido spumoso del mare, che giunga

anche ai venturi notizia di questo infelice.

Questo per me devi compiere.

E il remo sul tumulo infiggi, ond’io fra i miei compagni remigar

solevo da vivo».

 

     Cosí mi disse; ed io con queste parole risposi:«Tutto per te,

sventurato, farò, compierò quanto chiedi ’.

Cosí noi due stavamo, con queste dogliose parole, io da una parte,

distesa tenendo sul sangue la spada, e del compagno l’ombra,

con molte parole, dall’altra.

E della madre mia defunta qui l’anima apparve, d’Anticlea,

la figliuola d’Aulòlico cuore gagliardo, che lasciai viva quando per

Ilio la sacra salpai. E lagrime versai, vedendola, e in cuore

m’afflissi; ma non permisi, per quanto gran cruccio mi fosse,

che al sangue s’avvicinasse, prima d’aver consultato Tiresia.

Ed ecco, l’alma giunse del vate di Tebe, Tiresia,

con l’aureo scettro in pugno, che me riconobbe, e mi disse:

«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse, or come mai,

sventurato, lasciata la luce del sole, giunto sei qui, per vedere la

trista contrada dei morti? Scòstati, via, dalla fossa, tien lungi

l’aguzza tua spada, ch’io beva il sangue, e poi ti volga veridici detti».

Cosí disse. Io, scostata la spada dai chiovi d’argento,

nella guaina di nuovo la spinsi. E il veridico vate,

bevuto il negro sangue, cosí mosse il labbro a parlare:

«Celebre Ulisse, il ritorno piú dolce del miele tu cerchi.

Ma te lo renderà difficile un Dio: ché oblioso l’Enosigèo non credo,

che accolse rancore nell’alma contro di te, furente,

perché gli accecasti suo figlio. Eppure, anche cosí tornerete,

sebben fra le ambasce, se le tue brame e le brame frenare

saprai dei compagni, allor che primamente dal mare

color di viola all’isola Trinacria coi solidi legni tu approdi.

Qui troverete bovi che pascono, e pecore grasse,

greggi del Sole, che tutto dall’alto contempla, e tutto ode.

Se tu le lasci illese, se pensi soltanto al ritorno,

sia pur fra mille crucci, tornare potrete alla patria.

Ma se le offendi, invece, predico rovina al tuo legno,

ai tuoi compagni. E se pure tu giunga a salvarti, ben tardi,

tutti perduti i tuoi compagni, su nave straniera, doglioso tornerai,

troverai nella casa il malanno: uomini troverai che

protervi divorano i beni, che la tua sposa per sé vagheggiano,

e le offrono doni. Ma tu farai, tornando, giustizia di lor tracotanza

.E quando avrai purgata cosí la tua casa dai Proci,

o con l’inganno, o a viso aperto, col brando affilato,

allora dà di piglio a un agile remo, e viaggia,

sinché tu giunga a genti che il pelago mai non han visto,

né cibo mangian mai commisto con grani di sale,

che navi mai vedute non hanno dai fianchi robusti,

né maneggevoli remi, che sono come ali ai navigli.

E questo segno ti do, ben chiaro, che tu non lo scordi.

Quando, imbattendosi in te, un altro che pure viaggi,

un ventilabro ti dica che rechi sull’omero saldo,

allora in terra tu conficca il tuo solido remo ,ed a Nettuno

immola prescelte vittime: un toro,un ariete e un verro, petulco

signore di scrofe. Alla tua patria quivi ritorna;

ed ai Numi immortali ch’ànno nell’ampio Olimpo dimora,

offri sacre ecatombe, a tutti quanti, per ordine.

E infine, dal mare una morte placida a te verrà, che soavemente

t’uccida, fiaccato già da mite vecchiezza.

E felici dattorno popoli a te saranno. Vero è tutto ciò ch’io ti dico».

 

     Cosí mi disse. Ed io risposi con queste parole:«Tiresia,

i Numi stessi tramaron cosí questi eventi. Ma dimmi questo, adesso,

rispondimi senza menzogna: io della madre mia già spenta qui

l’anima veggo, ed essa presso al sangue sta senza parola, e sul

figlio non leva pur lo sguardo, a lui non rivolge parola:

dimmi, signore, come potrà riconoscer suo figlio».

Cosí dissi; ed ei pronto rispose con queste parole:

«Una risposta ti posso dar súbito; e tu nella mente iggila.

Della gente defunta chiunque tu lasci giungere a bere il sangue, può

dirti veraci parole: a chi tu lo contenda, dovrà senza motto

ritrarsi     Ora, poi ch’ebbe cosí pronunciati i fatidici detti,

tornò l alma del prence Tiresia alla casa d’Averno,

ed io fermo colà rimasi, finché sopraggiunse mia madre,

e il negro sangue fumante bevette; ed allora mi riconobbe;

e, piangendo, mi volse l’alata parola:«Come sei giunto, o figlio,

tra questa caligine buia, vivo tuttora? E ben arduo, pei vivi,

veder questi luoghi: ché per lo mezzo vi sono gran fiumi ed immani

canali :l’Ocèano, innanzi tutto, che facil non è traversarlo,

chi debba muovere a piedi, chi solido legno non abbia

.Forse da Troia qui dopo lunghi giorni d’errore, con la tua nave,

coi tuoi compagni sei giunto? Toccata Itaca

ancor non hai, non hai vista la casa e la sposa?».

Cosí mi disse; ed io risposi con queste parole:« Necessità, madre

mia. m’addusse alle case d’Averno, ch’io consultar dovevo Tiresia,

il profeta di Tebe; ché giunto ancor non sono vicino all’Acaia,

né piede sulla mia terra ho messo; ma vado soffrendo ed errando

da che prima seguii Agamènnone sangue divino verso Ilio, di cavalli nutrice,

a pugnar coi Troiani. Ma dimmi adesso ciò, rispondimi senza menzogna:

quale di morie doglioso desiino t’ha dunque fiaccata? Un lungo morbo.

Forse? o Artèmide vaga di strali te con le miti saette percosse, e ti diede la morte?

E di mio padre dimmi, del figlio che in casa ho lasciato,se ancora

il mio potere ad essi rimase, o se altri l’ occupa già, per certezza

ch’io piú ritornare non debba. E dimmi della sposa contesa, che pensa e disegna:

se presso il figlio rimane, di tutto fedele custode, o se l’ha già sposata

chi piú fra gli Achivi primeggia ’.

 

Cosí dissi. E a me pronta rispose la nobile madre:

«Certo, rimane certo la sposa, con cuore tenace, nella tua casa;

e vede distruggersi l’un dopo l’altro le notti e i giorni, in pena;

né mai si rasciuga il suo pianto. Il tuo  potere, no, nessuno lo usurpa;

ma in pace vigila sui tuoi beni Telemaco, e parte alle mense pubbliche prende, come

s’addice ad un re: ché ciascuno lo invita. Ma tuo padre la vita nei campi trascorre,

e mai nella città non scende, né letto possiede, né manti, né coperte, né vaghi tappeti.

L’inverno,vicino al focolare, tra i servi riman dentro casa ,sopra la cenere,

e dorme coperto di misere vesti; quando l’estate poi sopra giunge, ed il florido

autunno, qua e là sopra le balze, fra i tralci di qualche vigneto,

si sdraia lungo in terra, su letti di foglie cadute; e qui crucciato giace,

gran doglia nutrendo nel cuore, te desiando; e su lui s’aggrava la triste vecchiaia.

 

Ripeto il link messo all’inizio per chi volesse leggere il canto fino alla fine::

https://it.wikisource.org/wiki/Odissea_(Romagnoli)/Canto_XI

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2 risposte a OMERO, ODISSEA, CANTO XI — Incontro di Ulisse con Tiresia e con la madre…

  1. mariella scrive:

    Grazie Chiara per averci riportato al passato. Ora più che mai siamo vicini a Ulisse e ci chiediamo come faremo a ritornare a casa. Come faremo a scoprire la strada e cosa troveremo al nostro arrivo.
    Una paura terrificante ci ha colto nel mezzo del nostro viaggio. Un itinerario programmato alla perfezione, una strada che pareva priva di impedimenti e di minacce.
    Ora un megafono assordante gira per le strade del mondo per ripetere con voce chiara e sicura:”fermati, non puoi andare dove vuoi, non puoi fare quello che vuoi, non sei tu il padrone”.
    Con Ulisse torniamo a invocare le Ombre perché ci aiutino.

  2. Donatella scrive:

    Tracce non ne abbiamo: percorriamo incerti un sentiero pericoloso.

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