LA NATURA E LE PAROLE …CELESTINO   un racconto di MGP aprile 2020

 

 

 

 LA NATURA E LE PAROLE … CELESTINO  un racconto di MGP aprile 2020

 

 

 

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Magritte, Il terapeuta, 1937

 

 

 

 

 

Lucine, lucine, lucine, migliaia di lucine davanti ai suoi occhi. Si accendevano rapide e si spostavano da una parte all’altra, senza lasciargli il tempo di capire da dove venissero. Apparivano e scomparivano, poi ancora tornavano e si allargavano, lanciando sguardi luminosi e avvolgenti, aggrovigliati intorno alle maglie luccicanti di una rete nella quale si sentiva improvvisamente rinchiuso. E come questa ondeggiava così oscillavano gli alberi, i palazzi, i marciapiedi. Socchiudeva gli occhi, guardava oltre i vapori caldi di quella ragnatela, tratteneva il respiro, in attesa di quello che stava per accadere. E mentre le lucine si avvicinavano una grossa bolla incandescente si ingrossava nel suo ventre e saliva fino alla gola. Era un gonfiore imbarazzante che lo riempiva e lo invadeva talmente da rapirlo al mondo. Catturato, da quella eccitazione, afferrato e sradicato da terra si trovava sospeso, lontano da tutto ciò che un attimo prima era lì, tangibile.

 

  • Non devi nasconderti. – Lo rimproverava la madre – E’ tempo che tu impari a stare in compagnia. E dimmi qualche cosa ogni tanto. Qualche parola. Parlami Celestino, non essere sempre così silenzioso. 

Rosso infuocato, quasi paonazzo, boccheggiante fino all’ ultimo respiro, pieno, gonfio e lontano come una vera mongolfiera, non poteva che nascondersi. Cercava un appiglio possibile, un oggetto conosciuto o un angolo della via, sul quale concentrare l’attenzione, ma inesorabilmente le cose perdevano a poco a poco la loro consistenza. La durezza che le rende reali lasciava il posto a una materia elastica, morbida e cedevole che deformava i corpi e dilatava i contorni. I suoni si attenuavano gradualmente e si confondevano tra loro. Non rimaneva che l’echeggiare sordo di un bastimento in partenza e un voltastomaco da mal di mare. L’orizzonte intero gli svaniva intorno, scivolava via dalla sua coscienza e si ritrovava bambino, perso nella fitta nebbia della campagna lombarda.

 

La cosa incredibile è che mentre sentiva crescere dentro di sé quello smarrimento, gli accadeva di crescere veramente, di levitare e proprio come un pallone rosso si gonfiava fino a sollevarsi da terra. Il mutamento sopraggiungeva a fasi progressive, inevitabile come un infausto evento naturale. Avanzava fatalmente sotto lo stupore del suo viso che ogni volta assisteva al ripetersi dello strano fenomeno. Da una parte era impaurito per la metamorfosi che subiva, dall’altra esaltato per uno struggimento, una commozione in qualche modo elettrizzante che, nata dal cuore, si propagava rapidamente in tutto il corpo.

 

  • E’ un po’ timido. – Lo giustificava la madre – Un bambino tranquillo. Si nasconde sempre perché si vergogna. –

Le ragazze, ma non solo, erano le persone in genere a sconvolgerlo così tanto, sì, alcune persone. Quelle magre, con le gambe un po’ ossute alle ginocchia, le brune folte nei contorni degli occhi e altrove, quelle frettolose con andatura lunga e i glutei gonfi sotto i pantaloni, le persone tranquille di cui immaginava il ventre morbido come un panino al burro e altre, molte altre. Con tutte avrebbe voluto stare sulla panchina del parco, o passeggiare lungo i vialetti della Villa Nobel per parlare, dire di sé, proprio come non riusciva a fare, raccontare fitto fitto del prima e del dopo, e invece proprio da loro doveva fuggire per evitare di mostrarsi nelle sue esuberanze.

 

Era sempre stato riservato, ultimo figlio dopo tre femmine, magro e piccolo di statura, non si vedeva, né si sentiva mai. Neppure si poteva sospettare, pur guardandolo negli occhi, che una qualche passione agitasse il suo cuore, o che strane curiosità e fantasie accompagnassero la sua lenta traballante fanciullezza. L’unico episodio da ricordare gli era accaduto all’età di dodici anni, al mare, quando rimase per due giorni interi a sorvegliare la cugina ammalata, seduto fuori dalla porta della sua camera.

 

  • Ora puoi entrare! – Gli disse il medico al terzo giorno ed egli sfinito, aveva fatto pochi passi in direzione del letto, quando cadde a terra bianco e tirato come un cadavere.
  • Diventerai grande anche tu, figlio mio! – Aveva commentato la madre ed egli da quel giorno pensò che senz’altro sarebbe diventato calmo e sicuro, inevitabilmente. . . allo stesso modo in cui sarebbe diventato adulto, non c’era che da aspettare, in silenzio.

E invece, malgrado il suo impegno oltremodo tacito e duraturo quel miracolo non era mai avvenuto anzi, tutto si era aggravato talmente da sembrare irreparabile. Ora non poteva che commiserare se stesso per una crescita così disgraziata e ancora stupirsi e soffrire per la sua ostinata incapacità a contenersi. Ma come avrebbe potuto combattere contro il morbillo o la tosse cattiva o contro la pioggia, o il torrente in piena che sommerge e sradica gli alberi della riva. . . Come si può fermare il pianto di un bambino o il riso di un ubriaco, ecco alla stessa maniera quel suo gonfiarsi e sollevarsi da terra. . . . . Era irreparabile, quanto un inevitabile fenomeno congenito. Di fronte a quelle sue esplosioni perdeva ogni speranza, non poteva fare altro che tacere e nascondersi. L’unica via di salvezza che aveva trovato era quella di acquattarsi dietro le automobili, gli alberi, le siepi, attendendo l’incontro senza essere visto, rannicchiato come una lepre tra le stoppie. Per il resto se ne stava rinchiuso in camera sua per giorni e giorni e quando era costretto a uscire si rendeva conto che tutto si ripeteva allo stesso modo.

 

  • Una malattia inguaribile la mia. – Pensava
  • E unica. – Supponeva, appostato dietro i vetri.

Trascorreva pomeriggi interi dietro quella finestra cercando di distrarsi dal pensiero ossessivo della sua anomalia. Non voleva accettare l’idea insidiosa di essere diverso, irrimediabilmente malato, pensava invece di non essere stato messo al corrente di un particolare essenziale, custodito con riservatezza e pudore quasi fosse un segreto collettivo. Uno strano congegno, un dispositivo, uno stratagemma bizzarro che sorregge l’edificio o meglio una sostanza, un elemento prodigioso che tiene insieme il corpo che unisce la parte interna a quella esterna. E mentre tutti avevano la parte esterna spessa e impermeabile, adatta a ricoprire il nocciolo tumultuoso dell’anima, in lui la pelle era come un tessuto sottile, quasi trasparente, teso come l’involucro logoro di una larva sul punto di spaccarsi sotto la pressione di un corpo troppo grosso, che sopporta male la costrizione. C’era una ragionevolezza in quei pensieri . . . Forse non era proprio così, però da quello che gli risultava, gli altri sapevano come fare. Per questo non faceva che osservare i passanti, guardare e guardare ancora, attraverso quei vetri nella speranza di scoprire quel segreto che tutti conoscevano tranne lui.

 

Da quando lavorava nella biblioteca della Scuola Pascoli, il suo primo impiego, impostogli dal padre per la conoscenza con il preside, si sentiva abbastanza sicuro o almeno fingeva di esserlo. Le classi venivano poco e gli insegnanti ancora meno e in ogni caso aveva trovato un vecchio armadio dietro il quale poteva sparire quando entrava la bella professoressa di lettere della terza C, sempre gonna stretta e tacchi alti. – Non so dove sparisci ogni volta che vengo. – Gridava con la voce forte e un po’ stridula dell’insegnante. – Allora, procurami i racconti di Verga e “Il fiore in bocca” di Pirandello, mi servono per giovedì. – – Certo prof. – Rispondeva brevemente con la testa girata verso gli scaffali per farsi sentire. Il giovedì successivo portava i libri sulla cattedra prima delle otto e si chiudeva in biblioteca.

 

 

Capitolo secondo

 

La madre, una donna molto religiosa, se ne era ormai fatta una ragione di quel suo figlio, così diverso dalle sorelle. Non gli chiedeva più di uscire dalla camera quando venivano le sue amiche, né di rimanere a tavola a lungo quando c’era il padre e neanche di accompagnarla in chiesa. Per lei c’erano solo tre cose importanti: le opere liriche e le Madonne di Raffaello e le preghiere.

 

– Sei sempre troppo pensieroso. – Gli diceva con affetto. – Devi solo fare la tua vita Celestino, e non pensare tanto. Non devi pensare così tanto. Non serve. La preghiera ecco, le preghiere servono, sono sempre utili, e poi lo sai che padre Francesco ti aspetta. Vacci ogni tanto e parla con lui. Lui ti sa ascoltare. – Non insisteva troppo, sapeva che Celestino era buono, ma non poteva diventare un altro. Era così, un figlio mal riuscito.

 

Celestino conosceva tutte le persone che abitavano in via S. Teresa D’Avila, la sua strada. All’ora del passeggio osservava dalla finestra i loro comportamenti, li analizzava, ripeteva i gesti delle braccia, la mimica del viso, della bocca, fingeva di incontrare gli amici o di entrare in un bar per bere, diventava allegro o triste, eseguiva ogni movimento con una gestualità perfetta, imitava anche gli sternuti e i tic nervosi, sempre in silenzio, senza dire mai una parola, come se ogni gesto o situazione appartenesse sempre e solo ai suoi pensieri.

 

Quelli, non lo abbandonavano mai, aveva ragione sua madre, anzi spesso lo assistevano anche durante il sonno. Nascevano spontanei, si moltiplicavano ed egli li amava e li curava come fossero non suoi figli, ma suoi fratelli più piccoli. Di fronte a certi sovraffollamenti però, si innervosiva talmente da odiarli per la confusione che gli creavano. In quei momenti pensava alle esplosioni demografiche e subito dopo al controllo delle nascite, alle norme punitiva adottate in alcuni collegi, alla disciplina militare, all’ordine, ecco; in quei momenti si accorgeva che era assolutamente necessario pensare con ordine. E per buona parte del tempo, durante le sue meditazioni, cercava di dividere i pensieri in diverse categorie.

 

I pensieri stagionali, quelli di età avanzata per i quali nutriva una certa reverenza, i pensieri unici, folgoranti che immaginava piccoli e puntuti, quelli in posizione ascendente, ben sistemati l’uno sull’altro, quelli arrotolati nelle scatole cinesi o a diramazioni progressive, ma quelli più insistenti e in gran misura indiscreti erano i pensieri selvaggi. Si presentavano scarmigliati e impulsivi, di aspetto incolto e rozzo insieme, lo prendevano d’assalto nei momenti più inopportuni e gli procuravano emicranie e amnesie improvvise. Dimenticava ogni cosa, forse anche il suo nome e l’indirizzo di casa. Gli accadeva spesso quando la figlia del negoziante di stoffe apriva il negozio, proprio sotto la sua finestra, ma poteva ripetersi anche nel pomeriggio quando Irene, così si chiamava, rimaneva nel negozio per chiudere. Non appena la vedeva, un odore di miele e di caffelatte gli si appiccicava in bocca e un vento estivo confondeva le immagini in fuga, sulla giostra, sui seggiolini che volavano, con il sorriso di lei così vicino da poterle toccare i capelli. Irene si girava, salutava e ogni volta che alzava gli occhi pareva dirgli.

 

  • So che mi guardi, so tutto di te e presto verrò a trovarti. –

 

E la giostra girava sempre più forte mentre le forme si intrecciavano per somiglianze speciali e i colori si univano per qualità tenere di comprensione e gli sguardi luccicanti erano così intensi da attraversare il cornicione, la strada, la vetrina e i rotoli di stoffa, anche i più pesanti.

 

Quel sabato mattina alle 8,30, appena la vide in lontananza, il rossore cominciò a gonfiargli il viso. La seguì con lo sguardo mentre alzava la serranda, poi la vide girarsi verso di lui e sollevare la gonna mostrandogli la natura, completamente scoperta e dopo pochi minuti, aprire le tende, sporgendosi dalla vetrina e sbottonarsi la camicetta fino alla vita, liberando i seni gonfi e candidi.

 

Sospeso a mezz’aria, tra le pareti oscillanti della stanza, stordito da un suono lungo e diffuso, sentì il calore concentrarsi sul suo pene. La mano inconsapevole incoraggiò la sua eccitazione. Ridiscese a terra, rosso paonazzo, un po’ segnato. Lungo e disteso sul pavimento, guardava “La madonna della rosa” di Raffaello in una bella riproduzione che sua madre aveva appeso sulla parete più grande della sua camera. – Quello, guarda, il bambino seduto in braccio, è quello il mio Celestino.

 

Con le mani sul petto ascoltava il cuore che sempre stentava a sgonfiarsi. Un cuore commosso e gocciolante come quello del “sacro cuore” che non inteneriva più nessuno, neanche lui. Un tempo forse . . . sì . . . quando era bambino, un tempo breve, lontano, sospeso tra le carezze rubate alle mani di nonna Erminia, alla pelliccia del gatto, alla lingua del cane, un Boston Terrier docile come un coniglio. Ricordava un angolo della cucina dove si sedeva, i semi dei mandarini nelle tasche, le voci, i rumori familiari, gli scoppi dell’acqua sulla stufa e le braccia svelte a infilare legna.

 

  • L’ho riempita tutta, non ti avvicinare. Il fuoco è pericoloso. Stai lontano!

 

Una fiammata gialla di pigne secche accendeva tutto intorno a lui in un gran calore. Quello, quello, il calore . . . il focolare domestico. Sì, quello era rimasto là nella memoria dell’infanzia, e ora che era grande non sapeva come fare a liberarsene di quell’ingombrante bisogno . . . d’amore.

 

Il giorno dopo uscì senza paura che gli accadessero turbamenti, per dire il vero neanche per un momento si sentì mancare il terreno sotto i piedi. Gli pareva di avere un filo a terra capace di neutralizzare ogni possibile scossa. Si sentiva bene, leggero e anche un po’ contento.

 

– Ecco, eccola la soluzione! – Pensò – E‘ questa, è semplice! – Ma Don Francesco nel suo confessionale, facilmente lo persuase che quella soluzione non era certo né morale, né naturale. – Non vorrai insistere in questa pratica pericolosa, con il rischio che la tua mano destra diventi la mano del diavolo! –

 

Ritornò alla finestra a osservare i passanti: camminavano, si fermavano per salutarsi, chiacchieravano, se ne andavano, poi ritornavano e parlavano, parlavano ancora.

 

 

Capitolo terzo

 

      – Parla chiaro e forte! – Gli intimava il padre – Forte e chiaro! Non si può continuare così. – Lo sistemava con forza contro la parete dell’ingresso, poi si allontanava fino alla porta a vetri della sala. – Ora parla in modo che io possa sentire e capire le tue parole. – Glielo ripeteva mille volte, e lui intimorito dalla veemenza, ma anche dal carattere impetuoso del padre, che lo aveva sempre considerato un inetto, non emetteva che un farfuglio di singhiozzi, squilli e mormorii incomprensibili. – Ricomincia da capo. Non ho capito niente. – Urlava. – Non posso più tollerare. Pronunci pochissime parole e neppure si possono capire. Non c’è giudizio, non c’è giudizio! – Si girava tenendosi la testa tra le mani. Poi ancora ad alta voce, guardandolo da lontano – E quando ti chiedono un libro alla biblioteca devi rispondere. Devi rispondere in modo chiaro e comprensibile. –

 

Niente, non riusciva a metterli in fila, quegli scalmanati, spingevano e si accalcavano l’uno sull’altro proprio all’incrocio tra la strada maestra del cuore e la superstrada del pensiero. Uno svincolo stradale grandioso che si riduceva a una via senza uscita, interrotta in gola o in bocca, sulla lingua o forse prima, nel canale che conduce l’aria dai polmoni alle narici, alle labbra. Si rifugiava in camera. Quell’inverno le cose si erano aggravate e il suo tacere lo perseguitava, non diceva più niente né al lavoro, né a tavola e neppure a se stesso.

 

Fu una sera che la sua voce balzò fuori, come sfuggita al suo controllo. Dal corridoio giungeva la musica di Mozart, una delle tante opere che giravano per casa. Aprì la bocca e cominciò a intonare l’aria “vorrei e non vorrei” e ripeté per due volte il duetto della seduzione, immaginando Irene nella parte di Zerlina ed egli stesso, Celestino, in quella di Don Giovanni. Soffiava e cantava forte con tutte le parole “Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. Vedi non è lontano. . . e rispondeva con la voce di lei “Vorrei e non vorrei mi trema un poco il cor”.

 

Poi di seguito, senza interrompere prese la corsa e continuò a parlare, non smetteva più di parlare; prendeva fiato all’ultimo momento prima di reimmergersi in quel borbogliare sonoro e continuo di gola e di petto. Parlava sottovoce, sussurrando appena le parole, col naso, a fior di labbra, tra i denti, in tono agitato, forte, con risonanze gutturali, con voce impostata alta, con enfasi. Parlava con le sedie, con la bottiglia del vino, tra un boccone e l’altro, con la bocca storta mentre faceva la barba, parlava nel sonno e si svegliava quanto gridava forte. Parlava al muro, al vento e parlava a vanvera, senza mezzi termini, del più e del meno e sempre tutto di filato, dall’inizio alla fine, da capo a coda.

 

In casa tutti tacevano dallo stupore e non facevano che ascoltarlo. Le sue trattazioni erano le più varie, ma sempre legate agli oggetti che vedeva. Era più semplice. Ne studiava la consistenza, la posizione, le sensazioni che l’oggetto suscitava, le somiglianze e la provenienza. Era un corpo a corpo con gli arnesi più strani, girati di fianco, capovolti, palpeggiati e decantati con accenti, storpiature di ogni genere e analisi lessicali spesso totalmente inventate.

 

Ogni sera annotava su un quaderno gli esercizi iniziali e finali. Il prospetto, elencava 32 oggetti presi in esame e ripetuti con esercizi acrobatici di memoria e ingegnosi collegamenti, era aggiornato al 18 Dicembre quando giunse nelle mani del padre.

 

– Un notevole passo avanti, figlio mio, sono orgoglioso di te. Andrai presto a lezione dal professor Lorenzi, Giovanni Lorenzi. Un esperto della lingua, mi ha detto il Preside. Sarà perfetto per te, ne sono convinto. Aspettavo da tempo questo momento. – Celestino era felice anche perché il padre lo abbracciò e lo tenne stretto a sé per qualche secondo. Era la prima volta, non ne ricordava altre. Si era convinto che, grazie alle lunghe esercitazioni quotidiane, le parole potevano essere il canale di uscita di quel fiume in piena; in effetti parlando evitava di gonfiarsi. Dunque era solo una questione meccanica. L’aria che inspiegabilmente gli si formava dentro, doveva uscire per non causare guai, e non era sufficiente espirare profondamente o cantare, doveva proprio parlare. Ogni sera prima di dormire ringraziava e pregava.

 

– Oh Signore, non toglietemi la parola di bocca, piuttosto il pane. – Così concludeva le sue preghiere serali, poi in uno slancio angoscioso rivolto alla Vergine Maria aggiungeva – metteteci voi una buona parola. – Si spingeva sotto le coperte, appoggiava la fronte sul cuscino e riprendeva a parlare in via del tutto riservata tra sé e sé. Ascoltava la sua voce, la sentiva calda, di rimbalzo sulle lenzuola, con lei poteva svelarsi, aprire l’anima a ogni confidenza, a lei si abbandonava. Con sospiri profondi poteva sciogliere quel nodo stretto, carico di sogni e di sgomenti, che lo straziava.

 

Andava due volte alla settimana dal professore Lorenzi e già aveva imparato a recitare e declamare ad alta voce i grandi della letteratura. Gli piacevano molto le poesie, non solo le poesie famose, ma anche le sue. Sì, perché ne inventava ogni giorno e poi le ripeteva con impetuosa ispirazione, prima di dormire.

 

  • Oh parola mia io posso parlarti, mi piace dirti tutto quello che mi viene sulla punta della lingua, tu intendi . . . I vecchi siedono sulle mura parlano in modo sconnesso e io con loro. I saggi predicano la verità, le donne pregano, i ragazzi confidano all’amico il segreto della vita, i fanciulli balbettano e io con loro. –

 

  • Capitolo quarto

L’albero delle parole, così aveva intitolato la sua raccolta e quando la regalò a suo padre ricevette un altro abbraccio, un po’ più lungo. Su quell’albero pensava di trasferirsi con armi e bagagli, anzi con gomma e matita e saltellando, come un ghiro appena sveglio, avrebbe riordinato le foglie ramo per ramo. Così avrebbe delineato, definito, spiegato, specificato ogni dettaglio del ramo vicino. D’altra parte le cose, blandite dalle parole si sistemavano per bene, indossavano abiti nuovi, si ornavano tutto intorno di fregi e abbellimenti festosi. Parevano stimarsi, diventare seducenti e preziose come ragazze in fiore pronte a mostrare, pur nella loro solennità, un’incredibile cedevolezza. In questo modo egli poteva godere di loro, condurle a sé e possederle come voleva.

 

 

 

L'immagine può contenere: una o più personeRené Magritte, Decalcomania, 1966

 

 

 

 

Tutte fantasie nella mia testa – pensava con qualche perplessità. Non sapeva bene se la sua situazione fosse una conquista o una perdita, ma per quanto i dubbi lo tormentassero rimaneva lassù, sull’albero delle parole e dall’alto del suo ramo si compiaceva dei suoi possedimenti, dei suoi bellissimi averi sonanti, allineati uno dietro l’altro in una lunga, sterminata fila di vocaboli e voci verbali, e frasi e perifrasi e monologhi a non finire.

 

– Ora posso portarti con me in banca e anche in ufficio, qualche volta. – Gli proponeva il padre con aria soddisfatta e minacciosa allo stesso tempo.

 

Era diventato coraggioso, padrone di sé, sicuro come lo voleva il padre, si sentiva soddisfatto, era entrato in un mondo ben definito e comprensibile, nel quale le parole erano capaci di trovare i confini delle cose, di collocarle, di metterle finalmente in ordine. Questo lo rendeva energico e ogni volta che apriva bocca si domandava se fossero le parole stesse a nutrirlo così bene perché, malgrado le sue abitudini alimentari non fossero cambiate per nulla, egli era straordinariamente esuberante, camminava e girava tutto il giorno per le strade a incontrare questo o quello, da un negozio all’altro. Dal panettiere dissertava della farina, del lievito e dei biscotti; dal macellaio dei vitelli e dei polli; dal lattaio dei diversi formaggi; discorreva di tutto quello gli veniva alla mente, senza preoccuparsi di niente altro se non della cosa da dire chiaramente.

 

 

  • Potrei non fermarmi più – pensò, mentre tesseva gli elogi della crema pasticcera contenuta nei cannoli appena sfornati e provò vergogna, come per un piacere goduto troppo a lungo, senza ritegno. – Forse erano quelli i peccati di parole. – si domandava.

Il timore di essere un peccatore gli si ripresentava ogni volta che si lasciava prendere dal discorso. Sulle prime controllava bene la voce, il ritmo, i suoni, ma ad un certo punto quel suo dire si alzava di volume, si staccava dal senso, prendeva un’intonazione musicale da orchestra. Il vibrare delle corde vocali gli risuonava in bocca, si allargava sui denti e sulle orecchie, fino a trascinare con sé anche lo sguardo e il pensiero. La bocca iniziava a ondulare su alcuni suoni, in particolare le SSCCE e la CCCE diventavano lisce e scivolose, mentre le GLI si appiccicavano al palato e le doppie, in esplosioni successive, costringevano le labbra a movimenti vistosi, messi in evidenza nel momento in cui prendeva respiro. Allo stesso modo la lingua, come un grosso animale senz’occhi, si muoveva rapidamente da un angolo all’altro e mentre i suoni diventavano sempre più rotondi, la saliva riempiva una pozzanghera di schiuma che lo costringeva a fermarsi, a tacere per qualche momento, il tempo di asciugarsi la faccia con il fazzoletto.

 

 

  • Perdonami, o Signore, perché ho peccato in parole . . . parole . . . e parole. – Ripeteva inginocchiato al confessionale di Don Francesco.
  • – Vai in pace figliolo, vai in pace. “In Principio era il Verbo e il Verbo era Dio”. Non avere timore di peccare. La parola è eterna, la parola è Divina, per questo la senti così potente. Vai in pace figliolo e continua pure a parlare. –

 

Pensava all’urlo potente di Dio che catturato dal vento, attraversava le pianure, sprofondava negli oceani, penetrava nelle gole delle montagne e poi ritornava in alto, a volare nei suoni leggeri delle parole. Forse in principio tutto vagava senza nome e quell’urlo potente aveva catturato tutte le forme del creato e sistemato ogni cosa al suo posto, dentro lo steccato dove gli uomini si parlano tra loro. Aveva strane fantasie sull’origine del mondo, delle cose e delle parole. No, non parlava di questo con il professore, si vergognava di quei suo pensare primitivo. Continuava a catalogare con piacere, a chiudere in quello steccato tutte le cose, con ordine. In effetti aveva ragione Don Francesco, non c’era nessuna ragione di essere colpevole.

 

 

 

Capitolo quinto

 

Eppure continuava a sentirsi un peccatore, gli pareva di aver lasciato indietro qualcosa, non sapeva che cosa. Come un tradimento, non capiva chi aveva tradito, non il padre e neppure la madre, dunque non era un impostore, non ingannava nessuno, neppure il professore Lorenzi. Seguiva le lezioni con attenzione, faceva tutti gli esercizi e recitava tutto a memoria. Si rallegrava molto di essere uscito all’aperto, alla luce, di aver spostato il pensiero fuori di sé, di essere entrato nella logica, come gli diceva il padre. Era molto contento di aver cambiato vita, di poter essere considerato in casa, di poter discutere quando era a tavola ed era molto felice di poter stare tra la gente, di incontrare questo o quello, di girare per le piazze salutando l’uno o l’altro ad alta voce. Faceva finalmente una vita vera, all’aperto, senza nascondersi; l’unica sensazione spiacevole era una specie di nostalgia per qualcosa di perso, nulla di grave, ma aveva l’impressione di aver abbandonato nel buio una cosa importante. In alcuni momenti diventava un vero disagio che si interponeva tra sé e il suo dire. Lo percepiva come una presenza, un’ombra scura, che avvertiva dietro di sé e che non smetteva di guardarlo mentre parlava. Qualche volta gli veniva alla mente l’affanno che solo pochi mesi prima lo tormentava, la confusione, il guazzabuglio del suo cervello, l’eccitazione del cuore e lo struggimento che ne seguiva. Allontanava subito quei pensieri, li chiudeva fuori dai suoi occhi, non voleva più pensarci. Era diventato un altro, era finalmente lui, Celestino, padrone di sé e della sua vita.

 

In primavera ebbe più volte la tonsillite e di conseguenza la voce bassa e velata. Gli accadeva di non riuscire a finire i discorsi o di comunicare troppo sottovoce, così che non poteva essere ascoltato. Sulle prime pensava fosse un inconveniente passeggero, ma poi quando si accorse che il mal di gola non se ne andava, cominciò a curarsi con assiduità seguendo con impegno le indicazioni del medico. Faceva sciacqui allo iodio e al limone, gargarismi con il bicarbonato sciolto nell’acqua calda, fumenti al mentolo, ma tutto sembrava inutile. La voce era sempre più roca e in alcuni momenti, proprio mentre discorreva, gli si strozzava in gola così che diventava completamente afono ed era costretto a esprimersi gesticolando o emettendo suoni incomprensibili.

 

Nella sua mente stava tornando la frenesia dei pensieri e nella sua anima il moto impulsivo e scalpitante del corpo. Gli pareva di averlo dentro quel tuono originario lanciato dal furore di Dio sulla terra insieme al rumoreggiare del mare, al fischiare del vento e all’impeto della tempesta che portava disordine, sovrabbondanza e discordia. Era tornato l’uragano, il tumulto implacabile delle membra. Non riusciva più a lottare contro quel violentissimo tiranno che abitava dentro di lui nascosto tra viscere e sangue.

 

Alla sera, prima di dormire non balbettava preghiere sgomente, nello slancio verso il cielo ma, in segreto, si confidava con Irene che immaginava lì, di fianco a lui:

 

  • Io conosco ogni tuo gesto, io prevedo ormai ogni tuo movimento, del corpo, della testa, l’ondeggiare dei capelli, quella tua mano che accompagna le calze verso l’alto sotto il bancone, con gesto lento e furtivo, quella stessa mano agile e forte che srotola le stoffe, misura, taglia e piega. Se potessi afferrarla e stringerla qui tra le mie. Tu sorridi e ti avvicini, ancora mi fai esaltare, con quella disinvoltura, ti sposti, così vicino . . . C’è un moto impetuoso e sfrenato nel mio cuore.

I medici, consultati dal padre, non riscontrarono nessuna disfunzione organica, anche se il disturbo si fece sempre più frequente. Non parlava più in casa, temeva di stancare la voce, e usciva solo alla mattina, quando le sue corde vocali erano ben riposate, nei negozi entrava poco e unicamente per lo stretto necessario. In biblioteca rispondeva a monosillabi.

 

Le invocazioni a Irene proseguivano con fervore ogni sera:

 

  • Vorrei dirti del candore della tua carne sotto la camicetta bianca e di quella tua pienezza morbida che arrotonda gli abiti e dei tuoi capelli scomposti e ariosi nei quali vorrei affondare le dita. Vorrei dirti, quando ti vedo, il mio cuore respira, si distende comodamente per accarezzare quei due monticelli levigati che sono le tue guance. Le mie parole hanno dormito per molte notti qui, sul mio petto e ora si levano calde e colorate come fiori aperti. Un uccello di montagna con le grandi ali dell’aquila e il piumaggio nobile del pavone abitava dentro di me. E’ forte, irruente e anche furioso nel suo continuo dibattersi. So che devo liberarlo per farlo volare in alto nel cielo, ma non può uscire dalla gabbia nella quale è rinchiuso. So che tu troverai la chiave. –

Nel breve tempo di due mesi la voce era diventata flebile, il suo pensiero era tornato a essere un groviglio inestricabile di idee confuse e la sua anima sola e smarrita, era come un pozzo abbandonato in un villaggio deserto. Egli tornò alla finestra a guardare i passanti, ad aspettare Irene. Andava raramente per le vie del centro e non entrava più nei negozi.

 

Osservarti da lontano è una dolce abitudine, anzi una necessità che mi alimenta l’anima. La tua presenza suscita in me questa felicità, perché di questo si tratta; quando io ti vedo, sono felice e ogni sofferenza si allontana per sempre.

 

La gente parlava di lui come di un giovane sconclusionato che aveva comportamenti strani a seguito di una malattia ingrata e sconosciuta. Tutti sapevano di lui che si gonfiava e si sollevava da terra, proprio come un pallone rosso.

 

 

 

 

 

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15 risposte a LA NATURA E LE PAROLE …CELESTINO   un racconto di MGP aprile 2020

  1. Chiara Salvini scrive:

    chiara : Questo racconto sarebbe potuto piacere a Freud. L’essenza del suo metodo terapeutico è proprio l’affermazione che il mettere in parole un sentimento caotico, che genera ansia e caos nella mente, è in parte superato quando – nel rapporto con il terapeuta – la persona riesce, si sforza di tradurre questo disordine in parole. Le parole hanno la funzione di soavizzare il nostro mondo interno, dargli una forma, sottrarlo al panico. Per questo è stata anche chiamata ” terapia delle parole “. Funziona perché questo impegno a tradurre il caos in ordine è una maniera di pensare, di sottrarsi cioè, nella concezione freudiana, all’impulso del piacere / dispiacere immediato e utilizzare quell’energia che rimane trattenuta, priva di sfogo, per andare oltre la necessità dell’impulso e arrivare al pensiero che, in qualche modo, si trova in una dimensione al di sopra delle passioni.

  2. filippo scrive:

    esausto, sono arrivato alla fine . Ma a volte ho barato 🙂

    • Chiara Salvini scrive:

      CARO FILIPPO, SAREI TANTO CURIOSA DI SAPERE DOVE HAI BARATO… CIAO, CH.

      • filippo scrive:

        barare può essere un piacere ( oltre che una necessità) , se te lo dico finisce il piacere. 🙂

        • Chiara Salvini scrive:

          scusa però se te lo chiedo…non vorrei essere troppo indiscreta…ma il racconto ti è piaciuto o no ? Questo puoi dirlo ? ciao, a-rivederci, simpatico Filippo, ch-

          • filippo scrive:

            una cosa almeno ti posso dire: è prolisso. Si compiace della bella calligrafia. Perchè è scritto in ottima calligrafia, guarda le “effe” come sono belle dritte, sembrano giovani giraffe.
            Comunque lo rileggerò- forse- non prometto 🙂 mi farei un debito. E, soprattutto, non barerò che vuol dire non salterellare qua e là. 🙂
            Buongiorno Chiara come l’acqua!

          • Chiara Salvini scrive:

            caro Filippo, non potrai abbandonarmi perché ormai mi sono affezionata a te ++ tanti solicini che non so come mettere, ciao, un abbraccio per tutto il giorno, ch.

  3. MGP scrive:

    Carissima Chiara, che bello il tuo commento. E’ proprio così, Celestino cerca di mettere ordine nel caos del sentire, ma non ci riesce perché il caos ha una forza naturale molto più potente dell’ordine imposto dalla razionalità. Lui tenta disperatamente di entrare nella “terapia della parola”per sottrarsi al panico nel quale vive, ma non può superare il mondo interno della passione che è travolgente. Forse era meglio intitolare questo racconto: ” Il caos e la parola . . .Celestino”. Cosa ne pensi?

    Bellissima l’espressione soavizzare che usi come funzione della parola.
    Mi dicevi che ti eri divertita a leggere i primi capitoli. Credo che si possa leggere Celestino in chiave comica quanto in chiave tragica. Forse la miglior lettura è in chiave tragicomica.
    Un abbraccio affettuoso MGP

  4. Chiara Salvini scrive:

    chiara: Ho riletto il racconto. Forse Celestino doveva finire così anche se ci dispiace perché… Proverò a dirlo. Il suo sviluppo non era stato naturale : sì, la madre lo rimproverava benevolmente, con affetto, ma certo ha contribuito a farlo sentire diverso. Ma è il padre, soprattutto, che lo ha tirato per i capelli per farlo crescere: mi viene in mente un verso di Tagore che devo purtroppo citare a senso: Se vuoi che un fiore cresca non puoi prenderlo e tirarlo su, perché così lo strozzi. A me pare che sia quello che è successo a Celestino. Per forza, allora, lui sente nostalgia di quei tempi in cui era solo silenzio ed emozioni, come quello fosse il suo “io ” più vero. Però, credo, che tutto quell’esercitarsi e lottare e il successo straordinario avuto abbiano lasciato un segno nella sua mente, o-meglio- una traccia da poter ripercorrere con tempi e modi da lui stesso decisi. Immagino per lui un ritorno dove potrà vivere in un equilibrio instabile tra emozioni che gli annullano la favella ed altre più quiete e calme che lo lasciano esprimere. Nel racconto si è preso da guida ” l’amore “, l’amore per gli altri ma anche per sé: è questa la miglior guida che avrebbe potuto avere.
    Senza volerlo mi è uscito uno spunto all’autore per un sequel : ” Celestino la vendetta sul mondo “

  5. MGP scrive:

    Mi pare che tu voglia bene a Celestino. Questo mi fa piacere perché vuol dire che il personaggio è riuscito a vivere e ora esiste. Non so se ritornerà sulla strada della parola e se potrà trovare l’equilibrio instabile che tu hai ben descritto. Non so se potrà superare il conflitto che lo caratterizza.

    Grazie per i due Magritte perfetti direi per l’atmosfera surreale che mi pare appartenga al racconto.

    Un abbraccio caro MGP

  6. Giancarlo scrive:

    Ho letto piu’ volte il racconto, devo dire che mi è piaciuto cosi’come il povero Celestino,personaggio fragile e con un grande disordine interno.Penso alla situazione surreale in cui si trova che pero’tanto surreale non e’.La mancanza di amore,quello di quando sei bambino(e non ti aiutano a crescere)e quello dell’adolescenza(costretto a crescere per forza) puo’ esprimersi veramente in questa difficolta’ di parlare,nella timidezza(il rossore) la confusione interna e l’allontanamento dagli altri.Celestino paga fortemente secondo me la sua situazione famigliare.Il suo” bisogno d’ amore”alla fine scoppia in disperata,incontrollata voglia di parlare parlare senza smettere mai,cercando contemporaneamente di mettere ordine nel suo interno.Era diventato coraggioso,incontrava tutti,parlava con le persone per strada ovunque, senza fermarsi,felice ma anche preoccupato che tutto potesse finire.Poi la malattia cambia tutto ,ritorna il disordine che gli impedisce di lottare ,di pregare.Solo l’immagine di Irene ( l’amore) sopravvive nelle sue serate solitarie.Non c’è che sperare che Celestino possa ritornare a vivere in modo equilibrato superando il caos interno che lo attanaglia nuovamente. Ciao

  7. MGP scrive:

    Grazie Giancarlo del tuo commento, é così l’esuberanza interna, la passione, l’energia vitale che ha bisogno di una via d’uscita e la cerca nelle parole che sono ordine e misura. Celestino trova questa strada, ma poi la perde perché forse la sua sovrabbondanza nel sentire è troppo forte e non si lascia governare dalla logica delle parole. La natura forte, prepotente, scomposta, prevale su ogni bisogno di ordine, in qualche modo non è traducibile. Una situazione estrema, ma sempre umana e possibile.
    Grazie ancora e un grande abbraccio MGP

  8. Giovanni scrive:

    Dopo aver letto “Celestino” ciò che più coinvolge è il protagonista, molto ben tratteggiato, con un profilo nitido anche nella sua particolarità.
    La prima domanda che ci si pone è come classificare questo individuo.
    Celestino, bambino problematico, vive in una famiglia borghese, benestante, lo si evince da vari elementi, quindi lo si può definire ipersensibile, strambo, un po’ maniacale, ma, nell’insieme, anche simpatico.
    Se fosse provenuto da una famiglia di bassa condizione sociale sarebbe stato senz’altro considerato uno stupido, un matto da abbandonare a se stesso, ma così non è: in fondo la famiglia lo ha sostenuto cercando di inserirlo nella società, pur in una situazione al limite. Ci si deve però anche chiedere quanto quel tipo di genitori abbia influito sulle problematicità del bambino prima, dell’uomo poi.
    Infatti, la presenza di ben tre sorelle può aver contribuito al suo isolamento e alla incompleta emersione di una personalità maschile, fenomeno forse aggravato dalla forte personalità di un padre che si intuisce abbastanza autoritario. La madre poi sembra aver delegato la insostituibile presenza affettiva alle Madone e ai confessori, aggravando l’insicurezza del bambino con la presenza ossessiva del peccato: tutto questo gli ha distorto la relazione con l’altro sesso visto, di volta in volta, come oggetto del desiderio irraggiungibile o fonte del peccato.
    Mi sono immerso inizialmente in una pur sommaria analisi del personaggio “Celestino” perché mi sembra che sia l’elemento di maggior impatto del racconto. I caratteri degli altri personaggi non sono approfonditi, ma si intuiscono da una serie di particolari.
    La lettura è piacevole poiché la lingua è molto articolata ed elegante, sfruttando appieno la ricchezza dell’italiano. Se un appunto si può fare, questo riguarda l’inserimento dei flash back sui vari periodi della formazione del protagonista non sempre immediati nella collocazione temporale.
    Concludendo, Celestino lascia una sensazione di simpatia e comprensione dei suoi “strani” comportamenti, anche perché non so quante di quelle manie o fragilità siano poi del tutto assenti anche nelle persone “normali”.

    • Chiara Salvini scrive:

      Caro Giovanni, ti ringraziamo di essere venuto fin qui…e di averci regalato la tua analisi intelligente, nel senso letterale, e anche ampia. Sai, su un personaggio si possono avere tante variegate visioni, per esempio, credo che la madre abbia contributo al quel poco o tanto di accettazione di sé che Celestino aveva, è anche vero, pero’ che l’ha affidato ai santi…Questo significa, come tu hai scritto, che il personaggio è ben tratteggiato nella sua complessità, insomma che è vivo e non uno schema… Speriamo di poterci valere ancora del tuo contributo. Ci sono altri racconti della stessa autrice che puoi trovare mettendo le iniziali in quello spazio bianco sopra la lista degli articoli e fare clic su ” ricerca “. ciao, buona giornata di apertura, per te e per noi, chiara per il blog

  9. MGP scrive:

    Caro Giovanni,
    ho riletto le tue parole e voglio ringraziarti del commento così dettagliato e perfetto per questo personaggio che suscita simpatia e tenerezza, come tu dici.
    Questo Celestino, è una parte di noi, quella nascosta che non osa uscire all’aperto. Quella parte che l’educazione non è riuscita a piegare né ad addomesticare, la parte che non può e forse non vuole arrendersi alla convenienza.
    Mi pare che Celestino rappresenti la natura sovrabbondante che non possiamo costringere, né ridurre; il sentire appassionato che non si assoggetta a un comportamento prevedibile che annienterebbe la sua autenticità (se pur paradossale) ben più forte e amabile di ogni “normalità”.
    Un caro abbraccio MG

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