ROBERTO RODODENDRO :: ROMANZO :: ” ARRIVI E PARTENZE ” I- V CAPITOLO

Ritorni e partenze

 

 

 

 

 

 

 

Roma, 22 giugno 1978

 

Piccolo quadro di pino di Paul Klee

Paul KleePiccolo quadro di pino (Kleines Tannenbild), 1922, olio su cartone, cm 31,6 x 20,2. Basilea, Kunstmuseum

 

 

 

 

 

 

 

Roma, 22 giugno 1978

Caro Daniele,

non ci siamo più visti né sentiti da quella volta in treno per Milano, seconda classe.
Mi manchi.
Parlare con te mi stimolava, sento la tua mancanza e il tuo silenzio.
Troppo impegnato in faccende amorose, mio povero Axel sorpassato?
Oppure il lavoro ti assorbe fino a questo punto.
Scrivimi, fatti vivo.
Mi servi.
Forse le parole ti uscirono di bocca tuo malgrado, ma parlammo a lungo quella tal volta ed io ascoltavo seriamente e quasi convinto (come ti sto dimostrando anche se con un certo ritardo!), certe tue convinzioni sulle mie possibilità.
“Almeno provaci, rispondevi tu alle mie obiezioni, a tralasciare per un poco la poesia e il racconto breve e a cimentarti in qualcosa di più esteso, di maggior respiro.”
Ricordi?
Mi proponesti di scrivere, scrivere e scrivere.
Lo so, sono passati più di dieci anni!
E allora?
Ti vedo ora mentre leggi, a metterti le mani nei capelli con gesto di stizza, maledicendo la tua lingua lunga. Appunto, così impari a trattenere le parole.
A proposito di treni, tu, giornalista privilegiato, come ci sei capitato, quella famosa volta, in seconda classe?
Non voglio provare ad indovinare, anche se sospetto.
Ma hai incontrato me.

Ti scrivo dunque, come vedi, e ti propongo quello che ho scritto, seguendo i tuoi consigli.

” Scrivere non è raccontare storie” dice Marguerite Duras “E’ il contrario di raccontare storie. E’ raccontare tutto insieme. Raccontare una storia e l’assenza di questa storia. Una storia che si svolge attraverso la sua assenza.”
Credo che involontariamente, seguirò anche il principio della Duras. Involontariamente, in quanto non dovuto ad una scelta di stile ma, probabilmente, sarà una necessità di scrittura.

Forse sarà una serie di racconti concatenati, forse ne uscirà un romanzo, forse una lettera, uno sfogo, o forse niente.
L’idea, ma solo quella, c’è.
Sarà una storia intima, minimalista, forse d’amore, forse di rimpianto e nostalgia per un’età passata, forse di disperazione ( ma, rimpianto e nostalgia, non sono già una piccola disperazione?).
Certamente egocentrica, certamente esistenziale.
Una storia inutile, un anacronismo mi pare, di questi tempi. Ma potremmo avere bisogno di anacronismi per salvarci un poco.
Te ne parlai una sera che ti venni a prendere in redazione, ma sono passati gli anni ed è troppo sperare che tu possa ricordartene, e forse, troppo impegnato a coprirti dai rigori milanesi e a controllare il tuo aspetto di giovin biondo, un po’ perverso, non mi hai fatto caso anche se rispondevi a tono.
Capisco che anche questa è un’arte che si acquisisce col tempo.
Comincia a leggere dunque, butta da parte questa lettera e imponiti la lettura del racconto!
Con attenzione, mi raccomando, perché sei uno dei pochi, fortunati?

Scusami ma mi sento nervoso: renditi conto che sto svelando un mio bluff, mi vedo da solo.

Tu sei il peso che può far precipitare la mia bilancia.
Abbandona la tua abituale cattiveria, quella che sfoderi quando ti senti arbitro della situazione e pensa che, forse, sei momentaneamente padrone di un’esistenza.
Come il professore del liceo che alla fine dell’anno, con un piccolissimo numero, ci dimostrava che no, con una leggerezza spaventosa almeno per noi studenti, noi non eravamo “maturi” e ci faceva perdere un anno di vita.
Accettami per quello che sono, non per cosa ti potrò scrivere col desiderio di essere cattivo. Forse reazione naturale alle lusinghe che potrei propinarti altrettanto facilmente.
Fammene un merito: fra le due strade, perché la terza, quella della normalità, in questo momento mi è preclusa, scelgo la più difficile.
Prova quindi a darmi fiducia e leggimi senza buttare alla prima pagina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paul Klee, biografia, stile, opere, citazioni

paul klee

 

 

1

 

Chi costruisce chi?

(senza scomodare Pirandello)

 

 

 

 

 

 

Con mano incerta Luca accese una sigaretta.

 

Sono un ragazzo di buona famiglia, io, con padre commerciante e madre casalinga, anzi, coadiuvante per motivi di pensione. Lavoro quando posso, quando trovo e quando la noia di quel che trovo mi permette di continuare.

 

Accese una sigaretta e si riadagiò sulla poltrona: se n’era andata e lui non aveva capito niente, parlare parlare e non aveva capito niente. Fra i fumi del cervello e quelli della sala, era un po’ annebbiato. La musica lo raggiungeva a strappi, scivolando come poteva fra le chiacchiere della gente e lo scalpiccio dei ballerini.
Se ne stava stravaccato sulla poltrona bevendo un negroni dietro l’altro, perché allora era di moda bere negroni, incerto fra il restare o l’andarsene, ma ormai il problema pareva non avere più importanza.
– Ti voglio bene ma non mi fido.Ti voglio tanto bene ma non mi fido. E’ meglio se non ci vediamo più e non telefonarmi più perché non ti risponderò, mi farò negare. Perché sento che potrei volerti bene, ma non mi fido. Non mi fido di te e non mi fido di me e non te l’ho mai detto perché avevo paura.-
Per la Madonna!
Ventitré anni e te la fai sotto per un po’ d’amore. Adesso, me lo dici adesso, e scappi!
– Ma tu l’hai sempre saputo. –
Facile a dirsi, se non so nemmeno cosa penso ora, figurarsi se riuscivo ad immaginare quel che provavi tu.
– E’ meglio se non ci vediamo più. Potremmo restare buoni amici, se vuoi. –

 

Buona questa. Merda.
Non fidarsi di me, un bravo ragazzo di buona famiglia borghese. E poi, cosa vuol dire fidarsi o non fidarsi, non ci dobbiamo sposare…. O forse tu pensavi che io avrei potuto o tu avresti voluto.
Oh merda! Merda due volte.
Se consideriamo i fatti, quella ragazza lì, Lucia, non mi merita. Meschina, calcolatrice. Cosa volevo io alla fin fine?
Un po’ d’amore, un po’ d’affetto, un po’ di sesso. Sano, senza troppi problemi. Utile a tutti e due.
Cosa vuol dire non fidarsi di me? Non ho malattie, non la vado neanche a sputtanare ai quattro venti, non sono stupido, non sono carogna.
Cos’eravamo poi, se non due buoni amici. Che cazzo di discorso, con quel che ho combinato con lei, al confronto Platone era un satiro scatenato.

 

E intanto beveva e forse un po’ troppo per un bravo ragazzo di sana famiglia borghese. Forse era ubriaco.
Forse era ora di andare a dormire o cambiare locale.
Forse era ora di cambiare e basta.

 

La corsa pazza verso il telefono, una mattina tutto assonnato. Il telefono che urla, le orecchie che stridono i nervi che saltano.
– Pronto? –
-Ciao Luca, ti amo –
-Laura! Anch’io. –
Tutto naturale, a parte quel cuore maledetto che non lo lascia ascoltare. A parte i conati di vomito che cominciano ad assalirlo in gola.
Tutto naturale.
– Ma da dove chiami? Dove sei? –
– A Udine, dove vuoi che sia? Ciao, mio barbarossa, ti amo ma il telefono costa. E’ la telefonata del buon mattino. –
Il telefono è già muto. Tutto qui. Un ricordo improvviso che spezza il cuore.
Si chiede se è esistito veramente, quel ricordo, quell’amore. E come ha potuto essere. Nessuna paura d’amarlo. Un ricordo che fa sempre male.

 

Ubriacarmi per amore? Lucia. No. Rabbia, piuttosto, noia.
In fondo, che c’è stato tra noi?
Ti conosco appena e già dici che non ti fidi. Mia cara, nessuno ti chiede di fidarti di questo bravo ragazzo di buona famiglia borghese, anche se la famiglia, lasciamelo dire, a volte è una garanzia.
Sono fatti tuoi.
Diventa una tua scelta, al momento che ti poni una scelta.
Prendere o lasciare, a scatola chiusa. Una punta di rischio in amore è necessaria.
No, tu tutto calcoli, tutto misuri.
Vorresti aprire la scatola prima di decidere.

 

Mi offendi per principio, certo non per convinzione, perché lo so, nel tuo mondo dove io non c’entro, hai ragione tu: tutti abbiamo ragione nel nostro piccolo mondo dove non lasciamo entrare gli altri.
Ma non accampare diritti su di me per quei due o tre ricordi che stentatamente porteremo in comune per qualche giorno appena.
Tu non mi resti.
Mi offende il tuo rifiuto e mi lusinga: la mia mascheratura regge.
Chi sono io, piccolo scribacchino presuntuoso di provincia, con due o tre vizietti innocui, fatti di sole chiacchiere e di sogni, perché tu ritenga di contaminarti al mio contatto?

 

Una fetta di pizza, piccolina in verità e subito digerita, fu il loro cupido: regalata allo spilungone con la barba rossa e incolta e lo sguardo spiritato, sulle scale della facoltà a Genova, dove era andato a manifestare insieme a tanti altri, non sapendo cos’altro fare.
Con un vago senso di necessità e di inutilità, perché il suo tempo era passato.

 

…..Gliela strappai di mano nel dubbio che non volesse insistere nel gesto.
E fra un boccone e l’altro si può anche parlare.
Le buttai subito addosso il mio essere poeta, e perché no?, l’aver fatto del cinema, in uno stampatello grondante di vino e cappuccini.
Sprecai così una rara possibilità di modestia: lei mi conosceva già. Anche Lucia era di Sanremo.
Il pavone ingigantì :” Questa me la faccio qui sulle scale” pensò quel bravo ragazzo di famiglia borghese, travestito.
Macché: fica consacrata fica inviolata.
Dopo mezz’ora di chiacchiere inutili, per lo più mie:
– Devo andare a messa. – mi disse senza alcun pudore.
Rimasi lì come uno scemo a vederla andare via, pensando per salvare il mio amor proprio, che incontri strani se ne fanno sempre, ma mezz’ora sprecata malgrado la pizza, era troppa.
E invece no, come un cretino recidivo andai a cercarla la settimana dopo a Sanremo, accontentandomi, fra una messa e l’altra, di due baci a labbra strette col cazzo duro nei pantaloni, represso fino a fargli venire il complesso d’inferiorità.
Facemmo così tante belle passeggiate lungo il porto, tenendoci per mano e tante e tante parole.
Ripresi perfino colore ed ingrassai di qualche etto.
…Ma che vita volevi che cambiassi?
Non capivi le continue mascherature del buffone: il bicchiere di vino in più, le parole buttate in faccia per nascondere la maledetta timidezza?
Quei quindici giorni palpeggiando solo la tua mano ( Oh cazzo, che erotismo!) non ti hanno aperto gli occhi su questo sfrontato bugiardo?
No. E stasera, suffragetta dell’esercito della salvezza, con passo incerto hai osato scendere gli scalini del vizio. Come la favola d’Orfeo con scambio di ruoli, il tuo amore ha aperto le porte dell’inferno ma all’ultimo momento non ti ha permesso di salvarmi: come sempre la vanità ha vinto.
Ma tu, grazie al cielo, ne sei uscita indenne.
Perché no, tu non puoi fidarti di questo bravo ragazzo di famiglia per bene.
Lucia. Lucia, non è per te, non è solo per te che non trovo pace. Sono tante piccole storie dentro altre storie. Ti giuro, ti ho quasi dimenticata.

 

Francesca che con aria tranquilla gli domanda: – Hai idea del perché i miei si sono separati? –
No di certo, Luca non ne sa niente e nemmeno gli interessa saperlo: quella ragazza lì l’ha appena conosciuta, cosa gli importa?
Laura che gli ha appena scritto una lettera. Lunga. Tre pagine fitte fitte, lette in fretta.
C’è un senso di scoramento, di inutilità che intravvede tra le righe.
Cosa fare, scrivere? Telefonare?
Non basta. Non serve.
Si vedranno a febbraio.
Ma che senso avrà?

 

Fa segno di no con la testa mentre guarda Francesca come se la vedesse.
Francesca parla con voce tranquilla ma Luca non la sta ascoltando, anche se sono seduti appartati in una nicchia di quel locale di Sanremo Vecchia, vecchie travi fumose e gente a bere vino seduta al banco.
Un’ora dopo la deve accompagnare a casa, sbronza fradicia che neanche si regge in piedi: Francesca è docile, come assente, solo non sa dove sia la sua casa.
Anche così può nascere una storia.

 

Laura Francesca Lucia. Tre storie diverse. Tre storie finite.

 

Ed ora tu mi dici, lo sento chiaro perché era ieri :
– Non sono sicura. – E ridi. Ma non ti vuoi prendere gioco di me, lo so.
– Non sono sicura di volerti bene ( non oseresti mai dire “d’amarti”, suona scandaloso), no, non è vero, ti correggi, so di volerti bene.-
Ma non mi dici mai una parola d’amore: pudore? Ipocrisia?
E ridi per mascherare l’imbarazzo.

 

Sono a Padova, alla ricerca di un letto per dormire. In quella sudicia pensione, pensione Bologna?
Si barricano nella stanza perché la porta non chiude bene, pensando ad un’irruzione della polizia o solamente del proprietario.
Chiusi nella stanza si guardano. Si sentono intimiditi dopo tanto desiderio. Si spogliano lontano uno dall’altro, con gesti misurati. Si guardano, si scrutano per vedere se sono ancora uguali, se sono cambiati. Si sorridono. Entrano nel letto cigolante ciascuno dalla propria parte.
Tutta la notte sarà come una musica. Non diranno una parola, solo quel letto cigolante che è una musica, che resterà nei loro ricordi come una musica di sottofondo, per un amore sempre in bilico, sempre cigolante come un vecchio letto.
La mattina dopo si ritrovano pesti al bar della stazione ma la notte passata non si può dimenticare.
Una di quelle notti che si pensa debba essere l’ultima.
Quando si soffre per un amore che s’immagina finito e non si vorrebbe tale.

 

I suoi occhi, gli occhi di Laura, erano di vetro trasparente quella notte.

 

Poi, solo come non è più abituato ad essere, si è infilato in quel treno pieno zeppo e puzzolente. Si è rincantucciato in un angolo del vagone di coda vedendo passare tutto il tempo trascorso, sulle rotaie lucide.
Ogni due minuti accende una sigaretta per leggere le raccomandazioni di non fumare che Laura gli ha scritto sul pacchetto.
Aveva l’abitudine di scrivere appunti, Laura, ricordi suoi dappertutto, anche sui fazzoletti di carta.
– Un modo per non dimenticarmi.- Diceva.

 

Laura, nessuna sfiducia verso di me, non aveva giudizi, mi accettava com’ero.
“Ma è tutto finito. Sepolto!”  Si disse, sprofondato nella poltrona, ed era ormai talmente ubriaco che neanche ricordava a cosa pensasse.
Ricorda la prima volta che l’incontra.

 

La vede come una ragazza scialba, non bella, piuttosto comune, trasandata e con le scarpe impolverate.
Strano come certi particolari inutili restino a mente.
Sono le otto del mattino ed è seduta su una panchina alla stazione di Fano, assonnata ed indifferente.
Così hanno inizio gli arrivi e le partenze.

 

Mentre sono lì ciondoloni, che dondolo col vento che non c’è – un’intera notte di viaggio su dure panche di legno per di più corte, che sdraiandomi mi restavano le gambe completamente fuori – arriva il treno.
Come al mio solito mi attardo sulla pensilina, come se avessi dubbi sul treno da prendere, classico atteggiamento dello svagato costruito.
– Anche lei va ad Urbino? –
Così mi sento apostrofare da un accento morbido e cantilenante che mi dà del “lei”.
– Si. – rispondo con tutto il mio fascino addormentato, con la stessa gentilezza con cui ci si toglie una mosca dal naso e rimango immobile al mio posto.
Ma la voce insiste:
– Allora guardi che il treno è arrivato! –
A quel punto, il fantastico sbadato (quant’è letterariamente gratificante sentirsi inadeguato a compiere le azioni più comuni, come quella di salire su un treno!) si riscuote, si guarda intorno con aria perplessa e vede la scialba bruttina dalle scarpe impolverate che gli arriva appena alla spalla, che lo guarda con occhi ansiosi e protettivi.
Vede anche che bruttina e scialba non lo è affatto.
Le restano solo le scarpe impolverate ed un viso stanco come il mio.

 

Fui dunque gentilissimo e premuroso per la durata di due lunghissimi minuti, il tempo di prenderle le valige logore e pesantissime, scaraventarle sul vagone, quindi, con evidente fatica, trasferirle sulla retina porta bagagli.
Sorrisi anche, con alito e sguardo bovino, ed il mio gesto successivo poté venir interpretato per un inchino, da come restai piegato, dopo aver sollevato tutto il bagaglio.
Nel frattempo, mentre la guardavo, avevo dimenticato la mia sacca per terra.
Rischiammo di perdere il treno e la sacca.
Ma così sentivo di averla intrappolata: col suo bagaglio nelle mie mani non poteva scappare ed è risaputo che a Luca, affascinante parlatore, bastano poche chiacchiere per mietere conquiste.
Salimmo finalmente.
Faticosamente io, con piede danzante ed impolverato lei, e ci sedemmo vicini vicini, nell’unico posto rimasto libero.
Fu il nostro primo treno e la nostra prima stazione in comune.
Attraverso il finestrino sporco ed impolverato intravvedevo il mare ancora in ombra ed una lunga lingua di sabbia tutta uguale, talmente monotona che, se non fosse stato per qualche ragazzotto mattiniero, mi sarebbe parso che il treno non si muovesse nemmeno.
Ma io ero incurante di tutto, troppo grande essendo la sensazione percettiva del corpodella ragazza appena incontrata e, soprattutto, la mia completa libertà.
Quella era la prima volta che mi trovavo solo e lontano da casa, libero delle mie azioni, senza dover rendere conto a nessuno.
Non ricordo nulla di quel momento se non l’eccitazione del mio stato e la consapevolezza determinante del corpo di lei appoggiato senza problemi sul mio fianco.
Il fianco mi bruciava e la sensazione di rigidità che aveva assunto il mio corpo mi assaliva fino al collo, permettendomi di girare appena la testa.
Il treno era stracolmo di persone oscillanti alle otto del mattino. Tutti pendolari, tranne noi.
Così eravamo seduti stretti in quell’unico posto galeotto. Galeotto?
Ma si, chiappa a chiappa invece che guancia a guancia.

 

Mi aveva visto distratto e perso. Le ero sembrato uno che non sapesse cosa fare o dove andare. Per questo, mi spiegò come per scusarsi, si era ritenuta in obbligo di aiutarmi
.- E’ stato un impulso, dice, di solito non rivolgo la parola agli sconosciuti.Ride guardandomi: visto di sfuggita mi sei parso molto più vecchio. Non uno studente! –
Io cerco di vedermi anche senza specchio: jeans e maglietta gialla che non nasconde le costole evidenti. Alto, magro come un chiodo, aria sofferta (questa me la sentivo veramente addosso), naso prominente e prorompente, incorniciato da una barba rossa ed incolta, capelli arruffati sugli occhi.
Mi sento soddisfatto ed orgoglioso del mio aspetto e per questa sua prima impressione, così evito di chiarire che ho solo diciannove anni e sono una miserabile matricola.

 

E su per la salita, fino ad Urbino antica.
Non mollai per un attimo le sue valige: già avevo paura di perderla, prima ancora di averla.
La lasciai camminare per due ore, seguendola come un mulo da soma, alla ricerca di un’impossibile camera (la sprovveduta, in tempo di esami se n’era venuta così alla cieca, sperando nella provvidenza!), prima di proporle, con aria di angiolo innocente, appena disceso da un dipinto, l’ovvia soluzione:
– Ho una stanza enorme…- dissi.
Pausa ad effetto e la guardai.
– Con due letti. – finii laconico, perché ora toccava a lei parlare, anzi, soluzione ovvia: accettare.
E accettò!
Cristo, accettò!
Questa non me l’aspettavo, giovane imberbe, demi-vierge, ci avevo provato per darmi delle arie di uomo di mondo.
Detto e non pensato seriamente.

 

Naturale no? Due buoni amici dividono la stanza: metà spesa e comodità per entrambi.
” Amici? Amici del cazzo, tutti e due del cazzo, del cazzo!” Pensai, e sapevo pensare solo a questo.
Avevo perso ogni loquacità. E forse mi si leggeva negli occhi che cosa pensavo.Mi si rizzò di colpo, duro come un bastone ed era doppia fatica: nascondere il bozzo nei pantaloni, far finta di niente e trascinare quelle maledette valige.
Credevo che tutti me lo leggessero negli occhi che cosa pensavo: folli notti erotiche.

 

Ma mi sentivo inibito prima ancora di provarci, prima ancora di arrivare alla camera, di arrivare alla notte.
Ma saremmo arrivati alla notte?
Saremmo arrivati alla camera?
Forse, se non avessi avuto la responsabilità di quelle due valige ed il senso del ridicolo sempre presente, sarei scappato.
Se non fosse stato per lei, gli occhi neri dietro i leggeri occhiali da vista, i capelli castani coi riflessi rossi, lunghi sulle spalle, il naso piccolo e diritto, la bocca morbida, le labbra piene sottolineate da un tocco di matita scura, gambe snelle e il corpo….Il corpo.
Cristo!
Aveva anche il corpo, ed il corpo aveva proprio tutto.

 

Ero uno sprovveduto, malgrado le mie arie di seduttore navigato, sfigato, smaliziato, cinico scettico ( o così mi sembrava di avere l’espressione):
tre straniere acchiappate al volo tra un sussurrato ” I love yu” e ” du yu lake my?” imparate a memoria dagli amici, invidiati poliglotta.
Logico, loro conoscevano tutte le canzoni dei Beattles e si erano fatti una cultura.

 

Ed ora, l’ignobile cretino incauto, si trova nei pasticci:
– Ho una camera grandissima.- Pausa ad effetto – Con due letti. –
– Ma allora abbiamo risolto! Potevi dirmelo prima….Ma, non ti disturbo? –
Senza neanche pensarci. Senza neanche pensare a me.
Ed io, chi ero io ? Un materasso anch’io o solo un inutile soprammobile?
” Un mezzo, mi dicevo strada facendo, solo un mezzo.”
E in quel momento forse, mi andava anche bene di essere solo un mezzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2

 

Era ormai ubriaco, lo capiva anche lui. “E se lo capisco anch’io, pensava, che sono ubriaco, vuol dire che troppo ubriaco non sono. Come i matti.”
Insomma, come tutti gli ubriachi, riconoscendosi tale, pensava di non esserlo.
Troppo negroni, troppo cognac, troppe emozioni, troppo rumore. Tutto girava intorno a lui, e gli mancava il respiro.
Salutò col solito sorriso del sabato sera, anche se sabato non era, la ragazza al guardaroba che, con sguardo fisso e strabico seguiva automaticamente la musica che scappava dalla sala.
Uscì, e l’aria fredda e pulita della notte gli procurò un capogiro.
Col cappotto sulle spalle, appoggiando con circospezione un piede davanti all’altro, s’incamminò per le stradine strette fra le alte case fatiscenti che parevano toccarsi nei tetti, lasciando solo una sottile striscia di cielo scuro con tante stelle.
Quanto tempo aveva trascorso su quelle stesse strade, le mattine di tanti anni prima, correndo con la paura di ritardare a scuola; la notte, sedicenne con gli amici, ritardando volutamente il rientro a casa.

 

Diciott’anni con Aileen. Mezzanotte al parco comunale. Una mezzanotte d’agosto, timorosi del guardiano.

Lei irlandese, appena appena inglese, profumava di crema solare ed era rossa come un’aragosta appena cotta.
Non si capivano una parola. Qualche gesto ogni tanto, ma bastava guardarsi.
A ridosso di un albero si baciavano avidi e frugavano impazienti l’uno il corpo dell’altro. Era il suo primo corpo di donna.
Giacquero insieme sugli aghi di pino e non ricordò altro che la sua frenesia, del tutto incurante di lei.
E il giorno dopo, appena contrastato tra pudore ed orgoglio, poté raccontare “d’essermi scopato la mia prima inglese.”

 

“Ma non è tutto qui, riesce a pensare nell’ebbrezza del vino, cercavamo qualcosa in noi, che ci siamo dati e tolto senza neanche accorgercene.
Come si mangia il primo frutto caldo dell’estate e si sputa il nocciolo. Il primo frutto è importante, bisognerebbe esserne coscienti.”
Si compiange:
“Se mi sento solo ora, è anche per questo, per quel poco di lei che, malgrado, mi è rimasto malamente addosso.
Di tutto mi rimane un brandello che mi ricopre ma mi lascia altrettanto scoperto.”

 

Uscendo dai carruggi acciottolati e maleodoranti che si dipanano da piazza Bresca, si ritrova improvvisamente al porto, fra le bancarelle che di giorno esponevano frutti di mare per i turisti.

 

Nella piazza ha incrociato la solita puttana che borbotta trascinando i piedi e intanto s’incammina, percorso inverso al suo, verso le città vecchia.
“ Se passa lei, pensa senza compassione, saranno ormai le due. E’ un orologio quella.”

 

L’acqua sciaborda lentamente contro la banchina e i pennoni con la vela ammainata dei pescherecci dondolano alla brezza con un rumore di campanelli, quasi una musica con un suo ritmo, costante, ripetitivo.
Sulla punta, il faro metodico illumina velocemente le onde, lasciandosi dietro una scia di colori.
La brezza leggera che spira dal mare aumenta l’ebbrezza di Luca.
Luca tira il fiato lasciandosi andare sulla panchina verde che di giorno ospita vecchi pensionati con lo sguardo fisso al mare.
“A me piace la notte.” Pensa.

Vergini strade oscillano/fresche di muri insonni

Cardarelli e le reminiscenze letterarie. Autodifesa.

 

Hai fatto bene, Lucia, a non volermi.
– Perché di te non mi fido, non mi posso fidare.-
Ma va là, Non è per questo che non ti fidi. Tu verginella e casta pensavi che un giorno o l’altro, più facile un giorno che l’altro: sentivi il momento incombente e..Ineluttabile?Pensavi che un giorno imminente t’avrei infilzata, ben felice di essere infilzata. La carne urge, Lucia, inutile trattenerla.
E poi, per cosa, per chi?
Quindi, di corsa a confessarti:
– Perdonatemi Padre, perché ho peccato.(Padre, ma com’è bello peccare!)
Padre, ma se pecco nuovamente, cosa mi succede? –
– Tu ti penti ed io ti assolvo. Tu ti ripenti ed io ti riassolvo.-
– Padre, e se ripecco di nuovo, ancora ed ancora? –
( Oh cazzo, non si può! Giusto una volta o due per sbadataggine, e poi, cosa gli racconto?)-Allora bambina, spiegami bene: cos’è successo, com’è successo? –
– Ma Padre… Non lo so, m’ha preso come un languore, il diavolo tentatore.-
– Ma dimmi, prima ti ha toccato.. ( No, non il diavolo!) Dove ti ha toccato? E tu? –
– In quel punto là, Padre, ma prima mi ha baciata…-
– Ti ha baciata in quel punto là? Sii più precisa.-
– Padre, mi pento e mi vergogno. –
– Si, si. Va bene. Ma tu, anche tu l’hai toccato….E poi? –
Il Padre porco e la stupida verginella.
– Io di te non mi fido. Mi piaci, forse ti voglio anche bene ma non mi fido.-
La troietta fifona tutta casa e chiesa. Ci pensa prima, gode da sola e poi ha paura.

 

Lucia.
E Laura?
I due estremi.

 

– Una camera grandissima, – provoca Luca – con due letti.-
– Ma allora, ho risolto! Potevi dirmelo subito. Ma non ti disturbo? –
Lei pensa di disturbare, lei ha risolto: ha trovato un letto.

 

” Ma io, io chi ero?” Pensa ora Luca:” Un mezzo. Solo un mezzo. Ma chi vuole essere un mezzo? E’ un brutto modo per incominciare, se poi nasce una storia”

 

Luca si sente che non è più lui. Si sente sfruttato, anche se la sua offerta non mira ad altro che a questo, si sente usato: una convenienza e non più quel ragazzo che le sta di fronte.
Quel ragazzo preciso.
” E se fossi stato un altro?” Pensa. Non ha dubbi, la stessa risposta:” E no! Uno non vale un altro.
Potrei essere un altro e sarebbe la stessa cosa: un letto un mezzo.”

 

Il cretino, quello che non ha mai capito niente, ma non c’era niente da capire.
Avrebbe potuto ripeterle, con qualche variante, le parole di Lucia se le avesse conosciute prima: “Mi piaci, ma non mi fido. Ti scoperò volentieri ma di te non mi potrò fidare.”

 

Ed eccolo arrancare per le strade tutte in salita di Urbino antica, piegato in due sotto le valige, sotto il sole d’agosto, stanco morto e pesto che non riesce neanche a pensare:
” E adesso cosa racconto alla padrona di casa?”
Già, perché di quella non ha ancora tenuto conto:
– Signora, con un bel sorriso smagliante di ragazzo ingenuo, le presento mia sorella…-
” Forse è meglio: mia cugina. Si, perché quella è scema e non capisce niente.
– Signora, questo è un mio amico, sembra una ragazza perché si è appena tagliato i baffi, ma mi ha promesso che se li farà ricrescere. Dorme con me.-
– Ho detto dorme, signora, ma cosa crede? Che io me la faccia col primo incontrato? Sono un ragazzo serio, io. –
Ma che cavolo le racconto, a quella? Che figura di merda, ci vado a fare!”
E intanto, fra un fiatone e l’altro, giù un rosario di balle per far bella figura:
– Faccio il corso di giornalismo, ma sto già lavorando. Sono corrispondente del “Secolo XIX” di Genova e della “Gazzetta del popolo” di Torino. E redattore in un giornale di Sanremo.
Serve a farmi le ossa. Pare che l’esperienza in provincia sia insostituibile…
Si, sono di Sanremo, ma penso di trasferirmi presto a Milano, ho già delle mezze proposte.
Sai, in provincia si soffoca. Non c’è cultura! –
– A chi lo dici! – Esclama Laura.
– Cosa? –
– Che in provincia si soffoca. Prova a nascere e vivere in un paesino con meno di tremila anime, dove tutti si conoscono e ti conoscono da quando sei nata. In un primo tempo ti da un senso di sicurezza.
Sai, tutti ti sorridono, tutti si occupano di te….Ma solo per non farsi i fatti loro e, appena gli volti le spalle, non fanno altro che sparlarti dietro.
Altro che soffocare!
Fortuna che io ho i miei bambini a cui badare, che mi riempiono la giornata; e poi ho lo sfogo dell’università.-
– I tuoi bambini? – chiede cauto Luca, cercando di apparire indifferente, che non ha capito il cambiamento di tono nella voce di Laura.
-Ma si, Laura ride, faccio la maestra d’asilo. A me i bambini piacciono, ma trenta sono un po’ troppi. Non trovi?
Pensavi fossero miei? –
Ridono tutti e due. Luca ne approfitta per posare le valige per terra e prendere fiato.
– Se sei stanco puoi darle a me. Guarda che me le sono trascinate per settecento chilometri.-
– Già, in treno. – Luca la guarda scettico.
– No, su e giù per treni e corriere, ed un bel pezzo anche a piedi. Dal mio paese non passa la ferrovia.
Sono robusta, non credere. Noi, sulle montagne, facciamo un po’ di tutto.-
Luca riprende le valige e riprende a parlare: deve costruirsi un personaggio, deve apparire, non può farne a meno ( perché, chi è senza un personaggio? In fondo, anche Laura, quando ha parlato “dei suoi bambini” ha usato una certa enfasi, ha creato un suo personaggio)
.- Qui da Urbino ci sono già passato lo scorso anno, dice con aria d’importanza suo malgrado, di ritorno da Spoleto. Sai, il Festival dei due mondi, quello di Giancarlo Menotti.-
Vede che Laura lo guarda perplessa. In fondo è quello che si aspetta.
– Musica lirica e teatro, d’avanguardia. E’ uno spettacolo eccezionale. E la gente, i personaggi! Non immagini. –
Laura non appare per nulla intimidita:
– Anch’io ci sono già stata, ad Urbino, saranno due mesi…-
Una scintilla, Luca ha dimenticato Spoleto:
– E per il letto, come hai fatto l’altra volta? Hai trovato posto? – Indaga l’ignobile.
Ma lei è indifferente, non coglie l’allusione, o non sembra:
– Macché. Anche peggio. Sai, comunque ci si arrangia sempre, un po’ qui, un po’ là.-
Luca è troppo preso a parlare di sé, per indagare più a fondo, deve scegliere e preferisce parlare:
– C’era Luchino Visconti per la regia di un’opera, Ferlinghetti, Antonioni. La sera li incontravi alle feste. Libertà per tutti. D’altra parte, chi va a Spoleto in quei giorni è ben accetto dovunque, perché è per forza uno di loro. Non so se mi spiego.-
No, non si spiega affatto, non può farlo più di tanto perché sta inventando, o meglio, cercando di racimolare ricordi ascoltati da un amico che forse, l’anno prima c’era stato per davvero.
E Laura intanto pareva bere le parole di Luca. Ed anche Luca, quelle di Laura.

 

Ma sarà poi stato vero ( che Laura beveva le sue parole) o pensava al letto, a quel letto fortunosamente trovato: attenta quindi ad assecondarlo?
Ma cosa me ne importa, non sono io che mi racconto.

 

 

 

 

 

 

 

Paul Klee, biografia, stile, opere, citazioni

paul klee

 

 

 

3

Daniele, invece il problema si pone: sono più di quindici giorni che sto scrivendo, scrivendo e correggendo.I personaggi stanno entrando in me ma io non li capisco. Capisco che mi stanno sfuggendo. Che mi sfuggiranno.Avevi ragione tu, forse non so distinguere tra realtà e finzione, come un attore che porta per troppo tempo i panni del suo personaggio.Sento che sto sottilmente modificando i fatti. Non chiedermi in qual senso, non lo so ancora, so solo che, maledetta o benedetta memoria, aiuta.Ma questo vuol essere un romanzo, non un’autoanalisi.Quindi anche tu cerca di distinguere tra me e il personaggio. Almeno per il momento.Senza dubbio c’è una parte di me. E’ così ovvio!Ma non tutto di me. Guai!

Attieniti per favore, al tuo lavoro ed al motivo per cui leggi.Non cercare di vedere oltre le righe.Il personaggio è il personaggio ed io sono io. Anche tu sei tu e non esattamente quello che scrivo e scriverò, anche se sarai anche quello.Anche Laura non è esclusivamente Laura.Nemmeno Lucia e nemmeno Francesca e tutte le altre.” Non hai superato la giovinezza, anzi, l’adolescenza” mi dici ad un certo incontro,con un ghignetto sgembo ” Questo arrovellarsi su avvenimenti passati , questo riportare alla luce, in chiave nostalgica, ricordi oramai sepolti….O meglio: neppure sotterrati”Ricordati di restare il critico estraneo e non l’amico che crede di sapere.Situazione impossibile. So di averti messo in un dilemma irrisolvibile.Allora leggi e sta zitto. Perdonami.

Marguerite Duras, in un racconto, dopo un amore finito,chiuso definitivamente, scrive: ““ E poi ho cominciato a scrivere.”

La Duras mi affascina, anche se non abbiamo nulla in comune. Ma è poi vero?Non abbiamo nulla in comune nello scrivere, nel sentire un sentimento.Lei vive di sensazioni e di vuoti.Io i vuoti li voglio tutti riempiti ed ho il sospetto di vivere senza sensazioni, al di fuori del sentimento.Ho il sentimento del tempo che mi divora.Perciò scrivo di storie lontane perché le sento presenti e contemporaneamente cosi assolutamente finite.Sento cocenti nostalgie, ma non vorrei mai incontrare alcuna delle persone di cui provo nostalgia. Quelle di allora non esistono più. Incontrerei sconosciuti.Scrivo di morte. Te ne rendi conto? Ma una volta ho ceduto alla tentazione.Nel dicembre di due anni fa mi sono trovato a Udine.Lo feci apposta? Fu una necessità o un caso?Non lo so. So che avrei potuto evitarlo. Tirare dritto. Ma mi sarebbe costato molto rinunciare alla tentazione.Così ho deviato per il paesino di Laura con la mia bella macchina sportiva targata Imperia.Come sempre, quando si rivisita un posto dopo parecchi anni, difficilmente il ricordo coincide con la realtà.Mi resi conto allora, per la prima volta, di quanto piccolo fosse, di quanto triste e separato dal mondo.Quattro case vecchie, una strada principale e la piazza delle corriere, col bar, balera, ristorante.Nemmeno il treno passa di lì.Un paese che è una deviazione comunque.Ed intorno solo campagna spoglia. Forse perché era dicembre. Forse d’estate erano prati e vacche.Volevo rivederla?Ero mosso da desiderio e paura. Così, in un certo senso, lasciai che fosse il caso a decidere.Scioccamente presi a girare per il paese sulla mia auto sportiva con targa Imperia pensando che avrei potuto incontrarla ( era mattina), magari mentre faceva compere…. Oppure, in quel paese dove nessuno si faceva i fatti suoi, qualcuno avrebbe potuto avvertirla di quest’auto appariscente e strana, con una targa che poteva riportare ricordi dimenticati.Forse qualcuno ricordava ancora di quel ragazzo di Sanremo, di quella storia che, dentro di me pensavo, aveva fatto mormorare il paese.Mi fermai anche al bar, balera, ristorante a prendere un caffè…..Insomma, mi misi in mostra come meglio potevo senza decidermi a compiere il passo appena più lungo.Il cielo era coperto di nuvole scure, ma con quella luminosità che hanno le nuvole cariche di neve.

Erano passati dieci anni. Chissà com’era lei, chissà come avrebbe visto me.La paura di vederla diversa.Certamente diversa.Una sconosciuta…Che incontra uno sconosciuto.

Finalmente mi decisi e passai davanti alla casa di Laura, una casetta ad un piano coi gerani al balcone.Erano passati dieci anni e tremavo ancora come allora ed il cuore mi batteva forte.La casa aveva tutte le imposte chiuse ed i gerani non c’erano più (bella forza, era dicembre!). Non aveva l’aspetto di una casa abbandonata, ma era grigia. Una casa diversa, vecchia e triste. Ci passai davanti tre volte senza trovare il coraggio di fermarmi.Mi sono diretto, invece, sulla strada che porta a Faedis, altro paese triste, al bar tabaccheria del fratello di Laura.Sono entrato senza neanche pensare, ho ordinato un caffè ed un pacchetto di sigarette, le famose “super senza filtro”, quelle col veliero dorato su sfondo bianco e verde.Come uno di passaggio che si ferma casualmente. Non volevo pensare, giocava di nuovo la casualità: se m’avesse riconosciuto ( io lo riconobbi, era proprio lui, ma c’eravamo visti una volta sola), avrei saputo, forse l’avrei anche incontrata.Lui mi ha guardato con la curiosità come si guarda un volto che ci ricorda qualcosa e qualcuno ma non ci si sa decidere.Mi servì il caffè e le sigarette.Nessuno dei due parlò.Così me ne andai.

Sulla strada del ritorno cominciò a nevicare, la neve cadeva morbida, accentuando il silenzio della campagna deserta, come uno sfogo delicato che allentò appena la morsa che avevo al cuore.

 

 

 

 

 

 

Chi è Paul Klee? - Quotidianpost

 

4

Sono arrivati. Luca suona il campanello e intanto fa finta di pensare col cervello vuoto:” Cosa le racconto a questa qua, che neanche un mese fa mi ha visto arrivare con mia mamma. Bravo ragazzino per bene, perché la mia mamma mi accompagna dovunque, ha paura che possa fare dei cattivi incontri, che non sia sistemato bene. Che soffra, il suo bambino.E ora, che cazzo le racconto a questa!”La porta si apre, un occhio interrogativo sotto una crocchia di capelli grigi, piuttosto unti:- Ma siete in due? – Non gli lascia neanche il tempo di aprire bocca che continua:- Ma va benissimo! Così vi tenete compagnia a studiare. La stanza è tanto grande. Sa, dice rivolta a Laura,la stanza è tanto grande, di solito l’affitto a due studenti per volta…-Luca non la lascia finire, ha paura che racconti di come sua madre avesse insistito a che fosse solo, disposta a pagare qualcosa di più. Avrebbe immediatamente perso la faccia:- Naturalmente pagheremo qualche cosa di più…-Appunto. Alla megera cosa importa chi e quanti siano gli ospiti della sua camera. Lei pensa solo ai soldi.Luca e Laura si guardano.Scoppiano a ridere. E’ evidente che avevano avuto le stesse ansie.Così si trovano padroni della stanza, e mentre la vecchia fa gli onori di casa spiegando dove sono i cassetti, dove poter riporre la roba, fa vedere il bagno…Laura appare estasiata: – Ma che bella stanza! Com’è luminosa! E’ veramente grande.-Esclama, guardando maliziosamente Luca ( o così pare a lui):- Che letti morbidi! – La spudorata si butta su uno dei due letti, quello più vicino alla finestra, da dove si vede il palazzo ducale, illuminato la notte. Si molleggia e guarda Luca:- Questo letto, dice, sarà il mio! -E Luca, come un pecorone, ha posato finalmente le valige e le segue e nemmeno le sente e nemmeno si sente parlare, perché sicuramente parla anche lui, se non altro per trattenere la padrona nella stanza, per rimandare il momento in cui si sarebbero trovati soli.

Ed eccoli là, fra gli sterpi bruciati dal sole d’agosto, sulla collina di fronte al palazzo ducale illuminato dalla luna.Sembra una cartolina.Il buffonesco maliardo aveva avuto paura di affrontarla in camera quella terza notte.Due giorni passati a rincorrersi ed evitarsi.Necessità e sotterfugi. Gli impegni universitari e gli impegni immaginari avevano permesso a Laura ed a Luca di incontrarsi nei tanti bar sparsi per la cittadina, di parlare tanto di loro fino ad esaurirsi, ma mai di incontrarsi la notte in quella stessa camera dai due letti.Per motivi palesi ma con giustificazioni diverse, per le prime due notti erano riusciti, malgrado cenassero insieme, ad evitare di rientrare insieme. La prima sera Laura incontrò fortunosamente un’amica di corso. La seconda sera, fu Luca a dover andare a tutti i costi a vedere un film che aveva perso :- Un film che bisogna vedere assolutamente .- Disse, ma non le chiese di accompagnarlo.Cosi, una sera per ciascuno si erano attardati in attesa che l’altro dormisse o facesse finta di dormire, prima di avventurarsi a raggiungere il letto vicino, restando entrambi ben svegli, complice la notte, in attesa l’uno del rientro dell’altro.Luca, la seconda sera, al rientro dal film “che non si poteva perdere”, mentre s’infila sotto il lenzuolo sente un timido “buona notte” provenire dal letto vicino, ma quando, col batticuore, aguzza gli occhi per vedere, vede Laura che dorme…. La terza sera no. Non poteva andare avanti così, s’era detto Luca.Per questo, dopo cena, cominciarono a girare per le strade, chiacchierando con finta spensieratezza, passando da un bar all’altro, bevendo per darsi coraggio.Incontrarono entrambi compagni di corso ma non approfittarono dell’occasione.Finalmente Luca prese l’iniziativa e guidandola con un braccio sulla spalla che pareva morto, uscirono dal paese, inoltrandosi nel bosco sovrastante il palazzo ducale.Ed eccoli là, rannicchiati a ridosso di un pino, finalmente a sussurrarsi parole, trattenendo i ginocchi con le braccia intrecciate, vicini vicini, senza il timore di quel letto incombente in quella camera ” grande, sai… e con due letti..”

“Una sera d’estate, dice l’attore, sarebbe al centro della storia” M.D.

Il primo bacio fu un sussurro.C’era il vento, come ricordava anche il Pascoli, e loro erano tutt’e due sull’aquilone, trascinati innocenti, come gli scolopini, per i loro cieli limpidi.Al secondo bacio le loro labbra, le loro bocche, presero confidenza e fu un chiacchiericcio continuo e fu come se i loro corpi si conoscessero già, sfiniti da due notti insonni.Cominciarono la prima notte d’amore nell’erba, con gli spuntoni dell’erba appena tagliata e secca ( che punge, diomio come punge!) sotto la schiena, incuranti di tutto, presenti solo loro, incuranti anche del letto che li aspettava comunque, di li a pochi passi, come una presenza predestinata.

Fu Laura, con classica coerenza femminile che disse con un risolino appena imbarazzato:- Ora possiamo anche andare nella nostra camera, è più comodo! -Fu la prima volta che Luca vide i suoi occhi lucidi e trasparenti, con tante piccole rughe di piacere agli angoli, che subito sparivano.E lo guardava come se solo lui ci fosse ma senz’altre emozioni.

 

 

 

 

 

 

Il mondo astratto di Paul Klee in mostra alla Fondazione Beyeler ...

paul klee

 

 

5

Gli occhi di Laura sono forse il fulcro della memoria di Luca.Gli riappaiono con insistenza come un’immagine fuori dagli stereotipi.Gli occhi di Laura sono gli occhi della verità, al di là dei fatti e delle parole.Sono quegli occhi a causare in Luca la paura del ricordo, il dolore del ricordo.Sono quegli occhi che lo fanno ancora soffrire, a distanza di anni, di gelosia postume.

“Caro, caro, caro Lucaanch’io sto scrivendo, anzi, sto tentando mettere un po’ di blu su bianco, per farti contento.Ma mi hai interrotto più volte, così ho perso il filo.Tra l’altro, ho bevuto quel bacio dal bicchiere e … capirai.Sai, prima stavo guardando gli occhi di quel bimbo del tavolino vicino. Sono più belli dei miei e sono più puliti certamente.Sul corso ho visto passare velocemente una lambretta e penso che questo è il quarto giorno che ci conosciamo e presto passeranno anche gli altri.Ti vorrei dire di non andartene, ma non posso……”Gli occhi di Laura.Era il giorno dopo.La notte l’avevano passata insonne, col desiderio di recuperare il tempo perduto.

La notte è lunga, è fatta anche di silenzi e di pensieri. Anche l’amore ha le sue pause. Forse ha anche dei vuoti, fin dalla prima notte.Sussurrano.Si sentono ancora intimiditi dalla loro presenza.Sembrano assopiti, coi corpi abbracciati.Laura si solleva sul gomito appoggiando la guancia alla mano e si sforza di guardarlo negli occhi, in quella stanza che sembra chiara, illuminata dalla luna e dalle luci del palazzo ducale:- Fra diciotto giorni tu parti. – Dice.- Hai contato…- dice dubbioso Luca dopo un momento. Ma Laura pare non averlo sentito:- Torni a Sanremo, coi tuoi amici, con le giovani straniere che ti cadono tra le braccia, alla tua solita vita…- Luca è colto alla sprovvista. Forse si sente un po’ defraudato della sua notte. Ha un momento di panico perché non trova una risposta. Forse non c’è risposta ma lui non riesce a capirlo. La guarda e vede un’ombra d’ironia e di tristezza nei suoi occhi, come se lui fosse già lontano. Si sente ancora più confuso perché non li capisce.Lo sguardo di Laura sembra contraddire le sue parole, quasi annullarle, perché Laura sorride. Sembra stia vivendo un momento tutto suo.Luca risponde a fatica, preso dalla necessità, così almeno gli sembra, di doverla in qualche modo rassicurare e il fastidio di doversi impegnare in parole che ritiene fuori luogo in quel momento:- Non vado in capo al mondo, risponde con leggerezza, e poi, non girare il problema: anche tu partirai, tornerai ai tuoi amici, alla tua solita vita. -Poi le sussurra un “ ti voglio bene” stentato che entrambi sembrano accettare per quel che appare.- Saremo ancora più lontani. — Saremo lontani, ma molto meno lontani che se non ci fossimo conosciuti. –Ci dimenticheremo. — Possiamo anche non dimenticarci. No, non ci dimenticheremo. – – Forse sarà necessario. – – Può restarci un buon ricordo. Abbiamo venti giorni per ricordarci. Diciamoci che tra venti giorni ci lasceremo senza dimenticarci. — Per quanto? –Mai. – – “Mai” è troppo tempo. — Ma tu smettila di sorridere così. Non ti capisco. – – Non puoi pretendere di capire le donne. Cosa sentono. Siamo diverse. Anch’io sono diversa. Ancora più diversa.-Laura non ha smesso di sorridere mentre lo guarda e parla.Luca si gira dall’altra parte voltandole le spalle ma si appoggia tutto a lei. Non vuole essere un gesto definitivo, il suo.Laura non lo lascia. Prende a baciarlo sul collo e sulle spalle. Lo stuzzica, gli fa il solletico.Luca tenta di resistere, poi scoppia a ridere. Non sa trattenersi, anche se non gli sembra il momento adatto: è molto compreso nella parte, anche se non sa bene che parte sia.Tutti e due ridono.- Noi non potremo dimenticarci mai. – Dice Luca definitivo e finalmente rilassato.- Noi ci lasceremo e non ci dimenticheremo di noi.- Dice Laura.- Perché io credo già di amarti. – sussurra Luca con voce stentata. La parola “amore” gli riesce innaturale, si sente idiota, dopo averla detta, anche se gli sembra vera.- Ed io potrei innamorarmi di te. Molto. – Risponde Laura con voce sottile. – Allora è deciso. – – E’ deciso. – dicono tutti e due.- Sappiamo che tra venti giorni ci lasceremo. – Luca non sa resistere ad un atteggiamento melodrammatico, ritiene lo richieda il momento.- Ma lo sapevamo anche ieri e ieri l’altro e dal momento che ci siamo incontrati. Come sapevamo già cosa sarebbe successo stanotte. – Insiste Laura.Sembra non voler lasciare dubbi.- E’ vero, proprio dal primo momento. – Luca sembra soddisfatto da quel pensiero :- Allora è stata la stessa cosa anche per te, quando mi hai incontrato? – – Che cosa? – Ride Laura e lo bacia sulla bocca. E finalmente stanno zitti perché hanno altro da fare.

Ed ora sono al tavolino del bar, mezzogiorno è passato da un pezzo ma loro stanno bevendo il cappuccino della prima colazione.Fu allora che Luca, guardando gli occhi del bambino al tavolo vicino, li aveva paragonati a quelli di Laura:- Hanno la stessa limpidezza dei tuoi. Sono neri come i tuoi. Sono altrettanto teneri e innocenti, sono indifesi. -Gli occhi di Laura. Occhi teneri,appagati, indifesi dopo l’amore.Si potrebbe dire che Luca non fu mai geloso del corpo di Laura, ma della sua anima che lui credeva di vedere nei suoi occhi, dopo l’amore.

Poi, avevano deciso di scriversi la prima lettera. Seduti allo stesso tavolino. Luca aveva sempre amato i punti fermi. Una lettera è sempre un punto fermo.Un punto fermo fra una partenza ed un arrivo.

Quando fu che si lasciarono veramente, Laura e Luca?Fu quando finito il corso estivo, pensando di non rivedersi più, pensando che il periodo che avevano passato non poteva ripetersi, si lasciarono come per sempre, ma felici ed appagati?Oppure si lasciarono quell’altra volta, a Padova, dopo un’altra notte insonne piena d’amore, circa un anno dopo il primo incontro, convinti nuovamente che nulla potesse ripetersi, convinti com’erano di essere troppo lontano per continuare ad amarsi?Quella volta si lasciarono con una profonda pena, senza dirselo, ma consci uno dei pensieri dell’altro.O fu invece quando Laura ripartì da Sanremo, dopo la notte di Capodanno in mezzo alla neve, a Limone Piemonte, quando le loro parole cominciavano a mancare e la loro follia pareva dettata dalla frenetica ricerca di quello che erano stati?O fu veramente sei mesi dopo, in Urbino, nuovamente d’estate, con la luna che illuminava il palazzo ducale e la loro stanza, dopo quella voglia frenetica di penetrarsi con rabbia, con dolore, con rimpianto, ma forse, senza amore?Quando Laura disse, con sguardo risoluto e risentito:- E se ti dicessi che sono incinta, tu cosa diresti, tu, cosa faresti? –

Secondo Luca che, come l’autore, non ha cognizione del tempo né attenzione per le cose che accadono e che passano, in realtà non si lasciarono in nessuna di quelle occasioni.

Anche se Luca la lasciò più volte col ricordo, più volte convinto di aver amato più il ricordo che Laura, smemorato in altri corpi, incostante e incoerente come quel tempo di cui non aveva il senso.Anche se Laura lasciò Luca altrettante volte e forse di più, cercando di prendere le distanze da quell’amore che poteva lasciarla impreparata al distacco che sapeva inevitabile.Secondo l’autore, se dobbiamo parlare di addio, il più certo ed unico fu quello deciso da entrambi lucidamente e con la serenità nel cuore, quel ventitré agosto della loro prima volta.Secondo i suoi stati d’animo Luca pensò più volte che quell’amore fosse nato male.Altrettante volte, nei momenti di lucidità, pensò invece che si fosse trattato di un amore nato nella perfezione dell’amore.Un amore nato senza consapevolezza, al di là delle elucubrazioni mentali di Luca . Con la sola certezza che deve finire, ed in un breve lasso di tempo ben definito.Fino alla partenza di Luca, il ventitré agosto di quell’anno.Un amore durato circa venti giorni.

Può un amore durare venti giorni? Può chiamarsi amore?Sarebbe una lunga e forse impossibile quanto inutile disquisizione voler definire il tempo necessario perché un sentimento si possa chiamare “amore”.Un amore può anche durare un minuto, il tempo di uno sguardo.Ma Luca, nella sua giovinezza ed inesperienza, queste cose non le sa.Pensa ad un amore eterno, se per eterno si può immaginare qualcosa di cui non si pensa la fine.Pensa anche, contraddittoriamente, ad un amore letterario: un amore del quale si conosce già il momento della fine, preciso e programmato.In realtà Luca, in quei venti giorni non pensa. Vive alla giornata.Intuisce e ne gode la brevità.Ma di questa brevità ne sente i limiti.

Ma Luca è abituato così. Brevi amori e dolori altrettanto brevi. Il distacco netto che avverrà di lì a poco.Vuol considerare la storia come l’avventura della sua vita.Scrive anche agli amici, in tal senso.Un pomeriggio, mentre Laura dorme, si siede al tavolino e comincia una lettera indirizzata ad un amico che sa, la farà leggere agli altri:

“Ho appena finito di fare l’amore.Ho dormito pochi minuti, poi mi sono svegliato lucido, con la voglia di scrivere.Lei, in questo momento, sta dormendo nuda nel mio letto, appena coperta da un lenzuolo bianco.Mi sento in stato di grazia. La conosco da sei giorni appena e sono innamorato.Ma non da ora, dal primo giorno. Tu non riuscirai a capirmi. Non so quasi nulla di lei, ma so di sapere tutto.E’ stato un rapporto immediato, pareva lo sapessimo dal primo momento che ci siamo visti.Sappiamo anche con certezza, che quando io partirò non ci vedremo più.Lei abita a Udine. Studiamo in facoltà diverse, e se è stato un caso che ci siamo incontrati in questo corso estivo, sappiamo che è un caso che ben difficilmente si potrà ripetere…. E poi, che senso avrebbe?Così, viviamo quest’amore bellissimo, con la consapevolezza di lasciarci.Ti rendi conto delle implicazioni che questa consapevolezza porta con se?Come quando un essere umano conosce esattamente la data della sua morte.Viviamo intensamente senza falsi pudori, senza perdite di tempo perché per noi il tempo è troppo prezioso. Ed il pudore è un lusso che non ci possiamo permettere. E poi, cos’è il pudore in amore, se non una tattica di avvicinamento, un movimento cauto alla scoperta dell’altro?Nella nostra situazione, diversa, tutto questo ci è parso inutile.Non è vero. Non ci abbiamo nemmeno pensato.Noi ci siamo scoperti subitoViviamo consapevoli di noi, minuto per minuto. Anche quando dormiamo.Anche quando non ci vediamo perché ciascuno alla sua facoltà.E quando ci rincontriamo, poche ore dopo, è come se fosse passato un anno……”

Si, se dobbiamo parlare di addio, il più certo e unico fu quello deciso da entrambi, lucidamente e con la serenità nel cuore, quel ventitré agosto della loro prima volta.Un addio conosciuto e preannunciato il giorno dell’incontro.Ma Luca lo visse come un’immagine letteraria, senza vera coscienza, senza valutarne le conseguenze.Laura, ritiene l’autore, visse quei momenti con lucidità, disincantata e cosciente. Luca si sentiva immerso in un grande dramma goethiano.Laura no. Viveva l’inizio di una storia d’amore con la consapevolezza che non avrebbe avuto il tempo di crescere, di consolidarsi fino a diventare amore.Con la speranza che non diventasse amore.La viveva, e forse la subiva, alla giornata, come qualcosa di dolce, di tenero, di struggente che non si può lasciar perdere.Che si prende perché non si può fare a meno di prendere, ma con la certezza, tutta femminile, di non dovervi indulgere sopra, di non lasciarsi coinvolgere più di tanto.Per evitare il dolore.Per ridurre la sofferenza.

Fu l’argomento costante degli ultimi giorni:- E’ inutile che ci scriviamo, diceva Luca, trascineremmo una storia impossibile. Ricordiamoci cosi come siamo stati. Non roviniamo il nostro ricordo.Siamo persone pensanti: sappiamo che rivederci sarebbe difficile e poi, ciascuno di noi ha la propria vita…. -Laura era d’accordo :- Certo Luca, tu hai i tuoi amori stranieri ai quali non puoi rinunciare… Scherzava con leggerezza:… Io ho i miei bambini che mi aspettano, e poi tu lo sai, voglio sentirmi libera. Tutti e due vogliamo sentirci liberi.Che senso avrebbe.E’ bello così.E’ stato bello così, si può ormai dire.Ma non parliamone più. Lo sappiamo. –

Luca ritornava con insistenza sull’argomento. Laura preferiva non pensarci, e lo diceva.- Smettiamola di parlarne. Le cose non cambiano. Sappiamo che così sono e così devono essere. Ne siamo convinti tutti e due. Non mi devi convincere. Lo so bene anch’io. Non mi sento tradita. Lo sapevo da quando ti ho conosciuto. Lo sapevo dal giorno che abbiamo preso la stanza insieme.-E lo guarda sorridendo. Luca non capisce se è un sorriso di tenerezza o se è una presa in giro.Non glielo chiede.Laura crede che Luca ritorni così spesso sull’argomento, solo per convincere lei. Ma lei è convinta, è Luca che probabilmente ha dei dubbi. Parla per rassicurarsi.

” Le dite che volete provare, provare per più giorni.Forse per più settimane.Lei chiede: provare cosa?Voi dite:ad amare.Lei chiede: per che cosa ancora?Voi dite per dormire sul sesso acquietato, là dove tutto vi è ignoto.Dite che volete provare, piangere là, in quel punto del mondo.”(M.D. – La maladie de la mort -)

Luca è la prima volta che crede veramente d’amare, ed esaspera questa presunta consapevolezza, ama drammatizzare anche se forse s’accorge di sfiorare il ridicolo. Viene avvolto da questo amore per tutto il tempo che rimane.Luca, in quei giorni, scopre di essere vergine, vergine come lo può essere un ragazzo di diciannove anni, con qualche esperienza di sesso, non d’amore.Anche Laura intuisce questa verginità di Luca e ne è intenerita. Laura ha quasi tre anni più di Luca. Sono tanti. E’ donna e si sente donna.Ci scherza su. Lo chiama “il mio marito bambino”.Gli dice che quando lui aveva quattordici anni e portava i calzoni corti (portavi ancora i calzoni corti?), lei, quasi diciassettenne, viveva i primi languori, i primi amori.- E allora? – sorride Luca, felice di questa ragazza matura che pensa a lui con amore.E’ soddisfatto dello sguardo di Laura quando dice queste cose, trova solo una leggera malizia e gli pare di intravvedere una punta di rimpianto.Luca non si sente geloso del passato di Laura, che Laura non dice ma lascia intuire. Non può sentirsi geloso in quel momento della loro storia, perché Laura esprime solo amore, solo dolcezza, solo tenerezza.- Ti potrei denunciare per corruzione di minore! – dice ridendo Luca.

Luca scopre per la prima volta il suo sesso ed il sesso di una donna per quello che è, non solo come una cosa da usare. Sente e vive il sesso di Laura.Gode del proprio sesso quanto e come ne gode Laura.La notte dormendo, ciascuno tiene il sesso addormentato dell’altro nella propria mano. Non si vogliono lasciare e s’inteneriscono a questo sesso ormai sopito come ad un bambino innocente.La mattina si ritrovano così, ma col sesso risvegliato.

Il ventitré agosto di quell’anno, alle dieci e venti di sera è l’unica data certa che hanno Luca e l’autore. Laura ha accompagnato Luca alla stazione di Pesaro. Aspettano il momento tanto parlato della separazione.Un soldato in divisa e la sua fidanzata sono seduti su una panchina vicino. Si abbracciano e si baciano senza interruzione.Luca e Laura siedono vicini sulla panchina. Si sorridono. Non parlano. Hanno già detto tutto fin troppe volte. Ogni tanto si accarezzano la mano.Quando il capo stazione annuncia l’arrivo del treno, Laura se ne va.Si baciano leggeri sulle labbra e si dicono ” ciao”.Nient’altro.

Laura esce dalla stazione e Luca rimane solo.Non ha tempo di pensarci perché arriva il treno.E’ un vagone maleodorante, carico di persone lavate poco. Si sente un tanfo di fiato e di sudore che chiude la gola.Luca è seduto sulla valigia nel corridoio. Guarda dal finestrino la campagna fuggire nel buio, i lampioni fiochi che s’inseguono, qualche luce morta di casolari lontani.Pensa che tutto è finito e che non l’avrebbe più rivista.A questo pensiero, nella malinconia del momento, si scopre con stupore e delusione, anche un senso di sollievo.Prende il pacchetto delle sigarette e fa per estrarne una, ma sulla busta legge una scritta frettolosa, è la calligrafia di Laura:”Cerca di non fumare troppo in viaggio. Riposa piuttosto, che ne hai bisogno e… se puoi, pensami un pochino.

E se puoi…non ti dimenticare di Laura.”

Nient’altro.Un colpo basso.Accende la sigaretta e rilegge la scritta.La rilegge ancora.E adesso?Niente.Tutto comincia: arrivi e partenze.

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4 risposte a ROBERTO RODODENDRO :: ROMANZO :: ” ARRIVI E PARTENZE ” I- V CAPITOLO

  1. roberto scrive:

    Se puoi ancora far qualcosa direi un carattere un tantino più grande e almeno corsivo o spazio prima e dopo per le citazioni della Duras e anche di Cardarelli e quelle che verranno. In efetti, tuto così attaccato (almeno a me) fa confondere la vista 🙂
    e…
    “Daniele, invece il problema si pone: sono più di quindici giorni che sto scrivendo, scrivendo e correggendo.”
    Chiara, capisci l’importanza della lettera iniziale che però non si vede né si riesce a raggiungere?
    Chi è Daniele che appare improvvisamente al (diciamo capitolo) 3?
    Chi legge da qui ha saltato l’inizio, anche se in forma di lettera.
    Uffa, non voglio criticare ( solo un pochino 🙂 ) lo faccio sperando che sia ancora correggibile. Per il resto, che dirti? sei come al solito, bravissima!
    e poi, beh, magari in privata sede mi dirai che ne pensi , non mi offendi!

    • Chiara Salvini scrive:

      FORSE NON HAI VISTO CHE LA LETTERA INIZIALE L’HO MESSA NEL LINK DAVANTI AL 1° CAPITOLO, SE VUOI LA RISTAMPO, HO FATTO COSI’ PERCHE’ PER ES. DONATELLA L’HA GIA’ LETTA E COME LEI FORSE ANCHE ALTRI. IN QUEL RETTANGOLO BIANCO CHE C’E’ SOPRA LA LISTA DEI POST, SE SCRIVI ROBERTO RODODENDRO E SCHIACCI CERCA, TROVI LA MAGGIORANZA DELLE TUE COSE DA ME PUBBLICATE. NON C’E’ SOLUZIONE, CHIEDERO’ A MARIO DOMANI DI ANDARE DA MIA SORELLA (LA NOSTRA STAMPANTE E’ ROTTA) E DI COPIARLO STAMPATO COSI’ POSSO FARE IL LAVORO CHE VUOI TU. IN ALTERNATIVA, SE PREFERISCI, TI SPIEGO COME ENTRARE NEL BLOG, E CON QUALCHE SPIEGAZIONE LO FAI TU DIRETTAMENTE…CIAO, ADESSO E’ NOTTE E GLI ANIMALI RIPOSANO…

  2. roberto scrive:

    l’animale qua è ancora sveglio e ho capito come leggere la lettera a daniele, che , però insisto, fa parte integrante del romanzo e magari capita uno nuovo e non ci capisce niente.
    Tra l’altro direi che com’è impaginata la “nuova lettera ” è ottima, anche con gli spazi..vabbè, dimmi che sono un rompiballe ed è sacrosanto e mandami al diavolo…. però spazi un tantino più ampi e sarebbe perfetta.
    Se ti va bene ti rimanda scannerizzata la lettera a Daniele.

  3. roberto scrive:

    tutto a posto! Grazie.

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