FABIO FERZETTI::: ” Come è cambiato il cinema che racconta la guerra ” + ” STILL RECORDING ” dei siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub ++ 2 VIDEO

 

 

 ABBIAMO GIA’ CONOSCIUTO ” SAMOUNI ROAD ” QUI::

Stasera conosciamo un po’ un grandissimo artista :: SIMONE MASSI ( PERGOLA, 1970 )— guardate quel poco che abbiamo raccolto di lui… + intervista, L’ESPRESSO, FABIO FERZETTI, 13-11-’18

 

 

Samouni Road: Amazon.it: Stefano Savona: Film e TV

 

 

ESPRESSO.REPUBBLICA.IT — 13 NOVEMBRE 2018

https://espresso.repubblica.it/visioni/2018/11/12/news/butta-il-corpo-nell-inferno-come-e-cambiato-il-cinema-che-racconta-la-guerra-1.328594

 

Stefano Savona: «Per rendere il senso della tragedia ho ...

Stefano Savona  PALERMO (Italia), 18 Dicembre 1969
foto Il Manifesto

 

Regista e produttore. Noto soprattutto come regista e produttore di film documentari e video istallazioni. La sua carriera inizia con i rullini fotografici nel 1995 per poi passare alla pellicola cinematografica qualche anno più tardi, nel 1999. I primi riconoscimenti li ottiene tra il 2006 e il 2009 per i seguenti film: “Primavera in Kurdistan” (2006) – che riceve il Premio Internazionale della SCAM al Festival Cinéma du Réel di Parigi e una nomination ai David di Donatello per il miglior documentario – e “Piombo fuso” (2009) vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Locarno nella sezione Cinéastes du présent. Nel 2010, insieme a Penelope Bortoluzzi, fonda a Parigi la casa di produzione Picofilms. L’anno successivo, produce e dirige: “Palazzo delle Aquile” (Grand Prix du Cinéma du Réel a Parigi) e “Tahrir Liberation Square” uno dei suoi più noti lungometraggi, premiato con il David di Donatello e il Nastro d’Argento per il documentario 2012, presentato fra gli altri al Festival di Locarno, al New York Film Festival, alla Biennale e a Doclisboa.

 

Butta il corpo nell’inferno: come è cambiato il cinema che racconta la guerra

 

La lezione arriva dall’italiano “La strada dei Samouni” di Stefano Savona

e “Still recording”, il documentario di Said Al Batal e Ghiath Ayoub, sui quattro anni di assedio mortale nella periferia di Damasco

 

 

DI FABIO FERZETTI

13 novembre 2018

Fabio Ferzetti biografia | MYmovies.it
FABIO FERZETTI ( Roma, 1958 )
foto Mymovies.it

Ci sono dei nuovi attori sulla scena affollata e confusa delle guerre nostre contemporanee, o meglio del racconto che ne fanno i media, spesso sensazionalista e sommario. Sono i documentaristi indipendenti, registi quasi sempre giovani o giovanissimi che non ne possono più delle retoriche imperanti, e che decidono di andare a vedere di persona. Per tornare a casa, magari anni dopo, con film che cambiano per sempre non solo l’immagine di quel conflitto ma le regole del gioco: il modo di raccontare la guerra, i rapporti con chi la fa o la subisce, l’approccio con un mondo in cui eventi, sentimenti, schieramenti, sono sempre più complessi di come vengono dipinti.

Tra i massimi esponenti di questa nuova tendenza c’è Stefano Savona, regista del bellissimo “La strada dei Samouni” (premiato a Cannes e in tanti altri festival tra cui quello di Salina, ora in tour per l’Italia grazie alla Cineteca di Bologna), anche perché la pratica fin dal suo primo film, “Primavera in Kurdistan”, e ha continuato a perfezionarla in lavori come “Piombo fuso” e “Tahrir Liberation Square”.

Savona sa da sempre che non basta guardare per raccontare, come fanno le troupe dei tg. Tantomeno postare video raccapriccianti che diventano più o meno consapevolmente armi in mano alle varie fazioni. Né incrociare statistiche o discutere sulle immagini da pubblicare, come accade nelle redazioni.

No, per capire cosa succede davvero bisogna vivere a lungo con le persone che si vogliono rappresentare, condividere paure, speranze, pericoli, costruire un’intimità che è la condizione di ogni possibile scoperta. Non per fare banale “controinformazione” come si diceva una volta, ma per esplorare dimensioni invisibili se ci si ferma alla cronaca. Il colpo d’ala de “La strada dei Samouni” è lo sguardo sul passato di questa famiglia di contadini palestinesi che nella striscia di Gaza vivono da sempre e vengono decimati da un bombardamento durante l’operazione “Piombo fuso”.

Un passato inconoscibile e insieme incancellabile che il film resuscita con rigore e forza poetica grazie alle immagini di un grande animatore come Simone Massi, che conferiscono un’aura mitica al rapporto con la terra e a ogni sfumatura del quotidiano.

 

VIDEO _ LA STRADA DI SAMOUNI — 0.49

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Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes il film italiano che racconta la storia di una famiglia di contadini di Gaza, La strada dei Samouni di Stefano Savona con le animazioni di Simone Massi. Attraverso lo sguardo del documentario e del cinema d’animazione si racconta la storia della piccola Amal e dei suoi fratelli che hanno perso tutto durante la guerra e ora devono ricominciare a vivere e a ricostruire case, memoria, futuro. “A Gaza, all’indomani della guerra, ho incontrato delle persone che mi hanno raccontato con calma straordinaria gli eventi drammatici a cui erano appena sopravvissuti – spiega il regista Savona, premiato a Locarno per il suo doc Piombo fuso – Ho capito che per rendere loro giustizia, non potevo fermarmi alla constatazione della tragedia: la famiglia Samouni meritava che raccontassi la loro storia per intero, facendo rivivere sullo schermo anche il loro passato. Attraverso le immagini d’animazione, ho potuto ricreare i momenti chiave della loro storia”

Ma non è detto che per raccontare a fondo la guerra si debba compiere un percorso tanto complicato. A volte per cogliere dimensioni nascoste basta mettersi a disposizione per il tempo necessario, un tempo insopportabilmente lungo per i media o per le produzioni commerciali. E ancor prima porre, e porsi, le domande giuste.

Come hanno fatto i siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, 30 e 29 anni oggi, autori di un altro film avventurosamente distribuito in Italia grazie agli sforzi congiunti di piccole società indipendenti come Reading Bloom, Kama Productions e Isola Edipo:

“Still Recording”.

Forse il titolo più premiato di tutta l’ultima Mostra di Venezia, dov’era alla Settimana della Critica.

 

 

TRAILER – 1.29 —SOTTOTITOLI IN FRANCESE

 

 

 

Per quasi cinque anni dunque i due giovani siriani hanno «vissuto, mangiato e dormito», parole loro, con i combattenti ribelli al regime di Assad, a Douma, Ghouta orientale, alle porte di Damasco. Altri due li hanno passati in moviola per estrarre un film da 450 ore di girato. Durante le riprese hanno visto morire ben 14 dei loro compagni di lavoro (alcune di queste morti sono visibili, con molto pudore e lodevole accortezza, anche nel film). Mentre Ghouta ha subito un attacco chimico che ha fatto 1500 vittime. Ma il cuore del film non è in queste macabre statistiche. È nella capacità di mettere continuamente a fuoco lati inediti e rivelatori della vita sotto assedio, senza smettere un momento di interrogarsi sul lavoro che stanno facendo.

Dopo l’attacco chimico, ad esempio, non escono nemmeno a girare: «Ci sono già troppe telecamere accese in giro». Basta riprendere i resti del missile, prova del misfatto. O un’amica che trema e piange davanti alla tv.«L’immagine è l’ultima linea di difesa contro il tempo», dice Al Batal. «È la mia linea di difesa contro la realtà; il mio strumento per preservare l’equilibrio e un modo per eludere la domanda: cosa sto facendo ora?».

Lo dice anche ai suoi allievi in una delle prime scene del film, una lezione di cinema guardacaso, in cui etica e estetica sono subito strettamente intrecciate. «Per fare un film devi avere in mente un pubblico ideale», prosegue Al Batal.«Noi ci rivolgiamo ai bambini di domani. Ho impugnato la telecamera per permettere loro di farsi un’idea più chiara della storia e di quello che stiamo vivendo in questi anni».

Non sappiamo se il riferimento ai bambini alluda anche a “Germania anno zero”, ma il capolavoro di Rossellini torna in mente con forza davanti alle strazianti distese di macerie di “Still Recording” e allo sguardo carico di pietas (mai di commiserazione) posato sugli abitanti di Douma. La differenza sta tutta nella posizione del regista, nel senso anche fisico del termine.

Dopo aver sorpreso critica e pubblico in vari festival internazionali, arriva in sala ‘Still Recording’, graffiante documentario diretto da Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub che racconta le strade e i corpi del conflitto siriano Vide: Reading Bloom

Reduce da “Roma città aperta” e “Paisà”, Rossellini rappresentava un cinema ancora saldamente egemone che per quanto neorealista inquadrava e riordinava il mondo sempre un po’ dall’alto. Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub non sono nessuno, vivono nell’era del Web, degli smartphone e della disintermediazione, dunque si calano personalmente, fisicamente dentro ciò che raccontano. Non a caso uno dei grandi protagonisti del loro film è proprio il corpo, il nostro corpo, grande rimosso da una scena mediatica che lo concepisce solo come ricettacolo di dolore, mutilazione, morte, o viceversa come numero, dato statistico. Mentre in “Still Recording” torna a vivere in tutti i suoi stati.

È il corpo che quel signore in tuta degno di un film di Ciprì e Maresco vuole testardamente tenere in forma, ostinandosi a fare ginnastica tra le macerie per non arrendersi alla guerra. È il corpo della ragazza tatuata da Milad, lo scultore che entra in crisi e abbandona i suoi privilegi di figlio della classe agiata per combattere. È, ancora, il corpo atletico e snodato di quel giovane cecchino ilare, astigmatico, assurdamente simpatico, che prova pietà per ogni persona che abbatte («Non è vero che è come un videogame, ogni volta che sparo il cuore mi sanguina, tutti hanno un’anima… non per questo non sparo»), ma la sera ascolta musica e si concede una sfrenata danza hip hop.

Ma è anche, naturalmente, quel tronco umano non meglio identificato che un bambino, senza batter ciglio, dice di aver visto in un cassonetto dopo un bombardamento. E che noi non vedremo mai perché Al Batal e Ayoub, malgrado la crudezza di molti momenti, evitano rigorosamente il ricatto dell’orrore («Questione di rispetto: dopo l’11 settembre non circolavano immagini delle vittime, i siriani non sono diversi dagli americani»). Anche se non perdono occasione di interrogare il potere delle immagini. E quello della regia: quando iniziare a girare, e quando smettere? Non quando vorrebbero i capi militari, come si vede più d’una volta. E poi: cosa inquadrare, cosa lasciare fuori campo?

La risposta più eloquente arriva dalla scena quasi incredibile che dà il titolo al film. Un piano sequenza “casuale” che cattura un momento terribile. È una bella giornata, l’inverno è finito, due reclute sorridenti passeggiano. Milad lo scultore non fa in tempo a metterli in guardia da un cecchino che i due sono a terra, e così la telecamera che però, appunto, continua a girare – still recording – registrando oltre ai movimenti e i lamenti di uno dei due feriti, visibile solo dalla vita in giù, l’arrivo dei soccorsi che tenendosi al riparo, anche loro visibili solo in parte, commentano l’accaduto come un coro greco, cercano un bastone, cautamente precauzioni recuperano prima la pistola caduta poi la telecamera rimasta accesa… «In momenti simili capisci davvero cosa stai facendo e qual è il tuo mandato», conclude Al Batal. «Normalmente nessuno rischierebbe la sua vita per un’immagine. Ma se stai filmando una rivoluzione succede anche questo».

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3 risposte a FABIO FERZETTI::: ” Come è cambiato il cinema che racconta la guerra ” + ” STILL RECORDING ” dei siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub ++ 2 VIDEO

  1. marina gori scrive:

    grazie, interessante. peccato che la TV non dedichi neanche un’ora a perle come queste…

  2. Donatella scrive:

    Grazie per queste segnalazioni, che ci avvicinano un po’ alle tragedie che ci sembrano molto lontane da noi.

  3. roberto scrive:

    E’ un periodo che “non ho tempo”. Ma questo me lo devo leggere tutto. Ho letto solo le ultime frasi che, tra l’altro, mi hanno ricordato i grandi fotografi di guerra di una volta…
    Purtroppo Chiara qui spesso mi perdo.
    Ma lo ritroverò!
    Grazie.

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